“Valentino des ateliers”, sperimentazione sublime fra arte e moda
All’Arsenale di Venezia, Gianluigi Ricuperati e Pierpaolo Piccioli giocano con pittura e scultura. Pregevoli i risultati
Diceva Félix Fénéon, critico d’arte anarchico, fondatore della celebre Revue Blanche che anticipò tutti gli “ismi” novecenteschi e anche i primi abbozzi letterari del flusso di coscienza per mano di Édouard Dujardin, che il bello è fatto di un elemento eterno, fisso, in una quantità difficilissima da stabilire, e di un elemento relativo, congiunturale, rappresentato di volta in volta dal momento storico, dalla moda, dalla morale, dalla passione. Il critico d’arte e curatore Gianluigi Ricuperati e Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino, sono partiti da questo assunto, che Oscar Wilde banalizzava nel celebre aforisma sull’opera d’arte che “o si è o si indossa”, per una riflessione in forma di collezione couture sui confini, ma anche sulle interconnessioni, fra arte e moda.
“Valentino des ateliers”, con tutte le S della pluralità necessaria, è andata in scena giovedì sera sotto le arcate delle Gaggiandre, le tettoie dell’Arsenale che molti osservano sempre da lontano, durante le visite alla Biennale come in questi mesi, e che vennero realizzate da Jacopo Sansovino. Poco più di cento ospiti, a cui era stato richiesto di vestirsi di bianco sia per non alterare la severa bellezza del luogo, priva di alterazioni se non per la passerella mobile allestita sull’acqua, sia come suggerimento per così dire “sensibile”, un po’ da sciamano, stampato nell’invito: “Ascolta te stesso. Ascolta il pianeta. Ascolta l’acqua. Ascolta l’umanità”.
Ha funzionato? Sì, perché non era stato trascurato alcun elemento perché funzionasse, ma adesso suggeriremmo a Piccioli di spiegare alle sue fortunatissime clienti che potranno farsene riprodurre uno, talvolta uno solo (e sì, in quel caso il costo diventa stratosferico, anche di centinaia di migliaia di euro), il percorso, la storia, gli intrecci di trame reali, personali e metaforiche che si nascondono in ogni linea, perché nessuno degli infiniti passaggi di questo lavoro, durato quasi un anno, vada sprecato o dimenticato. Fra molte decine suggerite da Ricuperati, Piccioli ha selezionato diciassette artisti italiani e internazionali per la loro storia, per il loro percorso artistico ma soprattutto umano. Esploratori delle tradizioni il cinese come Rui Wu, esploratori della memoria di una terra perduta quale è il ruandese Francis Offman, uomini “in transizione” come James “Jamie” Nares, oppure indagatrici dell’identità della donna come Benni Bosetto (Piccioli riesce a essere al tempo stesso un sostenitore del femminile e del ddl Zan così com’è, che in realtà sarebbero conflittuali su diversi punti come si è visto dalle reazioni di un numero nutritissimo di associazioni).
Ne sono nati ventidue abiti che sono opere di strepitoso artigianato e che in nessun caso si piegano alle tecniche della pittura o della scultura a cui si sono ispirate: il segno del carboncino è diventato ricamo, le campiture di colore sono state trasposte in inserti di tessuti e colori diversi, fino a centocinquanta su una sola, spettacolare cappa, oppure in stampe trasferite su seta. Un lavoro oggettivamente epico che, immerso in una sessantina di abiti in quei monocolori speciali, di quei verdi e mauve e rosa tardo ottocenteschi in cui Piccioli è maestro, hanno dato vita a una sfilata di infinite sovrapposizioni, anche di genere. Velature, pieni e vuoti di luce e di linee, gesti compositivi, traslati in un progetto di moda sperimentale e metamorfico che unisce i cappelli sormontati da lunghissime piume fluttuanti come tentacoli di meduse, eredità del primo Novecento che Piccioli ama rivisitare, con abiti che hanno richiesto fino a settecentoventi ore di lavorazione, e ci faceva sorridere che tutto questo andasse in scena a Venezia, dove nello stesso Cinquecento in cui si ampliava l’Arsenale era uso dire che vestire una dama equivalesse, in termini di costo, ad armare una nave.
Dice Ricuperati, con cui abbiamo chiacchierato a lungo, che la moda troppo spesso si è appropriata dell’arte semplicemente riproducendola come una stampa (non facciamo nomi perché la faccenda va avanti dai tempi di Paul Poiret e Tamara de Lempicka, ma ve ne verranno sicuramente in mente due o tre anche di molto recenti) o trasformandola in leva pubblicitaria (idem), e che questo è stato invece un processo di ri-conoscibilità e rispetto reciproco da cui è scaturita la collaborazione: artisti e sarte hanno collaborato “in una traduzione fra linguaggi diversi, in un passaggio complesso fra la natura bidimensionale della pittura e quella tridimensionale, spaziale dell’abito”.
Aggiunge Piccioli che la moda non è arte perché “quest’ultima basta a se stessa mentre la prima ha sempre uno scopo, una funzione, un utilizzo”. Per quanto ci riguarda, anche l’arte per l’arte, il cosiddetto estetismo morale alla Walter Pater, è una categoria intellettuale o per meglio dire una convenzione, e a vedere come due fra gli artisti coinvolti, l’altra sera si lambiccassero su come trarre partito dalla straordinaria occasione, letteralmente obnubilati dalla bellezza che la moda riesce a sprigionare quando ci si mette davvero come in questo caso, ma anche dal suo potere economico, ci è parso che il sognatore più grande, con la sua ansia di assolutismo, con il suo rispetto infinito e morale dei corpi, continui a essere Piccioli che alla fine di tutto, nel backstage allestito a pochi metri dall’“Olmo” di Giuseppe Penone, abbraccia commosso le sarte dell'atelier.
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