Il Foglio della Moda
E poi arrivò il righello dell'encomio
Com’è successo che nel giro di una generazione i critici di moda sono diventati claque a comando e a metraggio. Cronache e ipotesi su un futuro possibile
Intuimmo l’inizio della fine dalla leggenda del righello. Leggenda di cui mai avemmo le prove, ma ogni mito non nasce forse da un granello di verità? Insomma: sembrava, si diceva tra gli addetti ai lavori, molto remunerativi nei primi anni Novanta, che quell’innocente strumento con cui si squadravano i fogli alle scuole medie servisse ai grandi stilisti per misurare la quantità di encomi ricevuti sui quotidiani dopo la sfilata, messa in paragone a quella dei concorrenti. E in questa tenzone ad avercelo più lungo, l’encomio, guai a essere superati per lunghezza dal rivale.
Partivano subito telefonate di iracondi uffici stampa che minacciavano di sottrarre paginate di inserzioni pagate magno pretio, dirette al capo della raccolta pubblicitaria: lo/la sventurato/a rispondeva. E da un lato prometteva al creatore danneggiato una pezza in forma di boxino sul suo ultimo accessorio, sul suo animale domestico o sul suo testimonial, mentre dall’altro si vendicava con solenni lavate di capo all’estensore dell’articolo, reo di errore matematico nella lode a metraggio.
Erano passati solo dieci anni da quando il medesimo creatore ingollava litri di Maalox mentre aspettava che i suoi emissari attendessero l’a#pertura delle edicole dopo lo show, confidando nella benevolenza delle dogaresse del giudizio, quelle potenti, quelle in grado di scaravoltare le sorti di aziende anche celebri: l’autorevole Adriana Mulassano del Corriere della Sera, la sarcastica Natalia Aspesi di la Repubblica, la concisa Paola Berti dell’Ansa, la lirica Lucia Sollazzo de La Stampa, l’apparentemente bonaria Lucia Mari de Il Giorno, l’intelligentemente perfida Pia Soli de Il Tempo. Eredi di Elisa Massai, Irene Brin, Maria Pezzi, erano signore competenti e argute, di ricche letture ma anche di un bagaglio di conoscenze tecniche in grado di spiegare perché un abito aderente vada tagliato sempre in sbieco, una mise d’alta moda mai dovrebbe avere una zip al centro-dietro, una giacca non possa mai fare una “gobba” sul davanti, se abbottonata.
Quando si beccavano delle querele per diffamazione, andavano tranquille per la loro strada perché esercitavano il sacrosanto diritto di critica: in un Paese che aveva stroncato l’ultimo Fellini, messo alla gogna perfino Giulio Andreotti, sistemato in naftalina autori come Moravia, Landolfi o Manganelli, non si poteva dire che una sfilata non era il massimo? Essù.
Essù un corno. Un decennio, e già la relazione tra giornalismo di moda e le maison che investivano in réclame era diventata “complicata” come gli status di certe coppie in crisi su Facebook. Il contagio, a essere sinceri, era partito dai periodici specializzati, come usava dire: i mensili e i settimanali femminili avevano inventato i publiredazionali, geniale trovata che arricchiva clienti ed editori. Piccola spiega: a chi volesse pro#pagandare il proprio prodotto senza avere la giusta squadra in grado di farlo professionalmente, il direttore proponeva il “groupage”: monografici di svariate pagine, dove l’indossabile merce veniva resa elemento notiziabile dalla volenterosa (e pagata a parte) redazione dello stesso giornale, con il risultato di un maggior intento di persuasione di una pubblicità tradizionale.
Ora il publiredazionale si chiama “advertorial” e non è più su carta ma sugli schermi dei computer, ha solo cambiato supporto. Per il resto, funziona uguale. Le cosiddette “quotidianiste” squadravano indignate le colleghe della stampa patinata, essendo le loro cronache non ancora raggiunte dalla pandemia propagandistica: si arroccavano alle sfilate in cupole simil-mafiose, raccontandosi stizzite come stormi di stylist assunte dalla rivista chic fossero state viste curare l’immagine di un marchio sia sulle passerelle, sia nelle campagne di advertising vere e proprie, spesso scattate dagli stessi fotografi della scuderia del giornale per cui lavoravano: un’operazione per cui magari non venivano ricompensate in denaro ma nell’acquisto di inserzioni. A loro volta, i direttori ricompensavano le griffe che li nutrivano con massicce bouffes di presenze negli editoriali, cioè quei servizi fotografici frutto di “libere scelte redazionali”, e destinati a informare le lettrici su tendenze e nomi ineludibili della stagione. Quando però si diffuse la leggenda del righello, divenne tutto chiaro.
Il mondo dell’informazione di moda si era uniformato, sia che fosse giornaliero sia che fosse in edicola a intervalli ricorrenti. Fuggirono le signore che sapevano, le prepensionarono, alcune andarono direttamente a lavorare in quelle aziende di cui – se fossero rimaste ai loro desk – avrebbero comunque dovuto, inesorabilmente, parlare bene. È stato allora che siamo diventati un benefit aziendale delle grandi firme, un gadget di buona scrittura e ottima compagnia ma obbligatoriamente privo di un’equilibrata capacità di valutazione? Certo, non giovarono all’obiettività neanche i rapporti personali, al limite dell’amicalità e oltre, i “pensierini”, l’abituccio chiesto in prestito «ma tienilo pure, cara, ti sta tanto bene», i party esclusivi e i weekend all inclusive, nel senso che si partiva per la magione dello stilista divenuto nel frattempo fashion designer con la valigia vuota, sicure di riportarla a casa strapiena.
E poi, cene e natalini, regali di compleanno, eventi, coccole. Per carità: nulla in grado di scatenare una Fashionopoli, quando proprio negli anni di Mani Pulite, l’allora presidente della Camera della Mo#da, Giuseppe Della Schiava, ci esortava a esprimere opinioni sui défilé sempre positivi «perché la moda italiana dev’essere difesa dai giornalisti italiani, come fanno gli americani con la loro» (aveva ragione: anche i critici di moda statunitensi più puntuti e velenosi sono compatti nel difendere la loro sempre più disutile fashion week). Però, ecco: è difficile poter stabilire la giusta distanza tra critico e opera, quando la sera prima si è andati a cena con l’autore dell’opera. Diventa antipatico, diventi antipatico: ti fanno sentire in dovere di disobbligarti e non è bello mostrare ingratitudine.
Alla Scala