Operazione mani d'oro
Il senso dei distretti per il contemporaneo, fra valorizzazione del territorio, etica del lavoro e una certa attrattività popolare da recuperare. Perché anche agli istituti tecnici superiori serve un nuovo modello MasterChef
In una sera di metà agosto a Bari, ospiti del deus ex machina del marketing e del volantino promozionale Saverio Addante, che ne stampa oltre un miliardo all’anno e ora sta trasformandosi in media company con tanto di concessionaria, si chiacchierava di golden power con il responsabile del Fondo Salvaguardia Imprese di Invitalia, Paolo Alberto De Angelis che ha appena tirato fuori dalle secche la Corneliani, domandandosi se il made in Italy moda, finora non compreso nel piano, possa essere idoneo per un’azione di difesa da parte del governo. Gonne e scarpe settore strategico per il Paese? C’è da dire, come abbiamo analizzato nel terzo numero del Foglio della Moda, uscito a maggio, che la proprietà straniera, più che un freno o una distorsione, si è spesso rivelata un acceleratore fondamentale per lo sviluppo di uno di quei piccoli marchi senza governance e senza un vero management che reggono solo per la genialità del fondatore e fino a scomparsa dello stesso.
Vale però la pena di osservare, e la Corneliani ne è di certo un esempio, che la scomparsa di un’azienda, o l’eventuale trasferimento all’estero della produzione, non sono prive di ripercussioni su tutto quel particolare sistema di filiera che sono i distretti; una struttura capillare che affonda le radici nell’Italia dei comuni e delle gilde e che oggi viene osservata anche dagli analisti stranieri come un ineguagliabile plus. Certi vantaggi, però, si pagano, e negli ultimi vent’anni, anche senza l’apporto della pandemia di cui molti hanno comunque superato la fase acuta grazie alle piccole dimensioni, molti distretti hanno pagato tantissimo, spesso dopo averli provocati loro stessi, gli squilibri della delocalizzazione (a cui sta corrispondendo un reshoring in parte apparente, a uso di comunicazione), e anche della scarsa specializzazione, affiancata da una messe di pre-pensionamenti che il prossimo sblocco dei licenziamenti renderà epocale. Essere maestri, o anche solo bravi artigiani e piccoli produttori di eccellenza, richiede tempo, denaro, investimenti in formazione; doti per le quali non bastano certo le sfilate periodiche di Dolce&Gabbana nella tale o talaltra città, con tutti gli artigiani locali all’opera per riprodurre pari pari su seta o in intreccio affreschi e mosaici creati da altri straordinari artigiani e artisti migliaia o centinaia di anni fa.
“Le previsioni di Unioncamere ci parlano di un fabbisogno di circa 18.000 unità nel prossimo quinquennio, legato soprattutto ad artigiani e profili specializzati (se ne stima la necessità di 10.400). Ma dai segnali che ci arrivano in questo momento di ripresa delle attività notiamo un aumento considerevole di richieste per addetti alle vendite, che devono, tuttavia, essere molto più qualificati e formati, rispetto al pre-pandemia. In sintesi, per il futuro della moda e del lavoro, in genere, la parola d’ordine è “formazione”, non c’è più spazio per chi non studia e si specializza”, dice Gianni Scaperrotta, amministratore delegato di NHRG, società di ricerca di personale specializzata nei mestieri della moda, che periodicamente si lamenta con noi di essere alla ricerca di tagliatori, orlatori, programmatori per il tessile e di non trovarne nonostante i ricchi ingaggi. Vedete, il vero grande problema del settore manifatturiero è che manca di poise. Non è cool. Non è abbastanza hype, se non per quei pochi straordinari miti in grado di entrare nell’immaginario popolare o che, come un tempo Salvatore Ferragamo, diventano grandi aziende. Alla narrativa dei distretti e della “sapienza manuale” di cui tutti noi osservatori ci riempiano la bocca quando vogliamo impressionare qualche produttore straniero mancano ormai diversi fattori rilevanti, dei quali l’azionariato non è nemmeno il primo. Manca, appunto, l’attrattività, cioè mancano scuole professionali che inorgogliscano i genitori almeno quanto gli studenti. Se il ministero dell’Istruzione sapesse ribaltare l’epica del “figlio dottore” a favore del “figlio artigiano” saremmo già a metà dell’opera. E poi manca una vera coesione fra settori o, per meglio dire, il famoso, sempiterno problema italiano del “sistema”. La formazione è anche uno dei punti per i quali si batte Antonio Franceschini, responsabile nazionale di CNA: “In un’ottica di medio termine va progettato al meglio l’utilizzo delle risorse del Recovery Fund. Gli interventi dovrebbero prevedere investimenti infrastrutturali per facilitare mobilità e connessione così come nella conoscenza rilanciando una stagione dedicata ai Centri di Ricerca e alla formazione professionale, prevedendo risorse per l’apprendistato duale”, cioè anche pratico. Meno spostamenti, maggior valorizzazione delle aree distrettuali, come è peraltro sempre stato fino al grande inurbamento seguito alla Ricostruzione. I distretti della moda, dice sempre Franceschini, rappresentano “un fattore di coesione territoriale ma anche di ascolto per il rilancio e l’innovazione”, e porta ad esempio due progetti che stanno prendendo avvio proprio in queste settimane: uno, per il settore calzaturiero, a san Mauro Pascoli, e l’altro, per il capospalla, nella regione dove meglio capispalla e calzoni si sanno fare, che è la Puglia, nel caso specifico Martina Franca, la cittadina del festival della Valle d’Itria e di Piano Lab quando, chiusi i chiostri e i pianoforti che l’hanno occupata a luglio e agosto, stanno arrivando i giromanica del progetto COATurier: “. Dobbiamo connettere le intelligenze artigianali, che sono il tratto tipico della qualità del Made in Italy, allargare lo sguardo, coinvolgere altri settori”, dice Daniele Del Genio, imprenditore di Martina Franca e Presidente Regionale Puglia e componente della Presidenza Nazionale di CNA Federmoda.
A san Mauro Pascoli, terra di calzature femminili molto avantgarde, si ci è inventati un logo che molto ricorda passi molto antichi: “Io sono Rubicone”. Grazie all’ICE, si è passato il guado della formazione professionale e multidisciplinare, che per molti piccoli imprenditori continua a rappresentare una scelta certo utile, ma anche impegnativa: un corso di marketing internazionale con lezioni frontali dedicate a innovazione e identità; marketing b2b e digitalizzazione, impresa 5.0 e sostenibilità oltre che laboratori interattivi. Una rete di 650 persone, circa il 20 per cento della forza lavoro del distretto. “Il near shoring, la produzione vicino casa, non è mai stata importante come adesso”, osserva il consulente d’impresa Alessandro Maria Ferreri, fondatore di The Style Gate. “Tantissime aziende hanno bisogno sia nella supply chain sia di certezze nella trasparenza e nella tracciabilità”. La regulation etica del lavoro, spinta dalle richieste del pubblico finale, è diventata un fattore di successo dirimente soprattutto per le grandi aziende. E la capillarità di mestieri e specializzazioni di un distretto territoriale, un punto di certezze e di sicurezza nell’approvvigionamento. Questo spiega, per esempio, la nuova manifattura di Bulgari nell’area di Firenze per la pelletteria, così come l’investimento di Fendi nell’ex fornace Brunelleschi Scandicci. “Sostenibilità”, puntualizza Ferreri, “non equivale solo a difesa dell’ambiente, ma anche alla difesa delle condizioni di lavoro”. La nominalità dell’artigiano e della sarta che ha realizzato, controllato, spedito un certo capo, punto di forza del progetto Valentino di Pierpaolo Piccioli ora imitatissimo ovunque. Come all’epoca delle gilde, sapere che madonna Sara o messer Ruggiero ha ricamato la nostra giacca è un punto di contatto, un momento di incontro con le figure all’altro capo del maglione che indossiamo che troppi anni di pura industria ci avevano fatto dimenticare. E di cui ora, pur con tutti i vantaggi dell’industria, non vogliamo più privarci.
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