Il Foglio della moda
Un certo mondo calza sneaker
Girotondo di imprenditori. Covid e tendenze hanno squilibrato il già precario equilibrio dei distretti calzaturieri, sempre più produttori conto terzi. Non è una buona notizia. Urge piano nazionale, e anche rilancio dell’immagine
Arriva il momento in cui le cose vanno dette per quelle che sono, e una realtà calzaturiera in cui ci si rallegra di lavorare conto terzi per i grandi brand e solo poche decine di marchi nazionali hanno un posizionamento di marchio sufficiente per competere nella prima fascia dei mercati internazionali non è affatto una situazione di cui rallegrarsi. Il rischio che il made in Italy perda progressivamente di competitività per tornare alla situazione ante-bellica o addirittura settecentesca, quando i viaggiatori del Grand Tour si compiacevano di farsi cucire scarpe e stivaletti dai ciabattini napoletani e milanesi, salvo poi lamentarsi perché le calzature, pur bellissime e morbide come guanti, avevano poca durata sulle strade accidentate di allora mentre volevi mettere le scarpe tedesche con la galoscia di metallo per non dire gli zoccoli, è troppo forte perché non si debba cercare di porvi rimedio o di trovare soluzioni alternative. Direte voi, che importa se non tutti possono sfoggiare il proprio nome sulla Madison Avenue e in avenue Montaigne, purché si lavori tutti ché già non sarà garantito nel momento in cui il governo toglierà il blocco dei licenziamenti. E invece no: da una parte, un tessuto industriale di terzisti vive costantemente in una situazione di incertezza e di sudditanza contrattuale; dall’altra, la rilevanza d’impresa è fondamentale per lo sviluppo del Paese nella sua totalità, per la sua immagine e per il suo ruolo. E’ della massima importanza che un numero consistente, rilevante di nomi italiani continui a svettare sulle insegne delle strade del lusso mondiale, e che questa produzione continui a rappresentare un’eccellenza certificata e verificabile con blockchain, campagne nazionali, iniziative a sostegno del settore.
In questo ultimo anno e mezzo, chi lavora come terzista ha perso in media il 30 per cento del fatturato; chi con il solo marchio proprio ha quasi dimezzato il giro d’affari; nell’ultima stagione tutti segnalano una piccola ripresa, a partire da Andrea Brotini della Pakerson di Firenze, clientela privilegiata in Russia, che per il “suo” distretto fiorentino, votato all’eccellenza e al posizionamento nella fascia più alta del mercato, vede, anzi, un recupero deciso. Ma l’impressione, avvalorata dai dati, è che la piccola scossa di questi ultimi mesi non sia sufficiente per compensare un cambiamento che è in buona parte strutturale. I calzaturieri italiani che abbiamo intervistato in occasione dell’apertura della novantaduesima edizione di MICAM, il grande salone sospeso a causa della pandemia da un anno e mezzo e che il 19 settembre riparte con seicento espositori e “più ottimista e pieno di energia di sempre” come dice il presidente di Assocalzaturifici Siro Badon, fotografano una realtà molto più complessa, articolata e multiforme di quanto chiunque di noi, pur avvezzo alle dinamiche del settore, potesse immaginare. Vi convergono infatti fattori in grado di rivoluzionare un sistema, come e in primo luogo il progressivo spostamento dell’asse produttivo dalla cosiddetta “calzatura civile”, diciamo la decollétée e il mocassino fondo cuoio, alla sneaker, che favorisce le regioni più attive e lungimiranti su questa fascia, dunque in prevalenza la Puglia e in particolare un nome indicato da tutti come il vero arbiter di questi anni a calzata sportiva e comoda, e cioè la Leo Shoes della famiglia Filigrana a Casarano in provincia di Lecce, cento milioni di fatturato, una bella sede di design lungo una strada eponima, che crea le sneaker per almeno venti brand fra cui Golden Goose e Gucci, oltre che un marchio in proprio abbastanza rilevante da poter sostenere la sponsorship di una squadra di volley come il Modena.
Permangono, anzi con il Covid e il graduale spostamento del grosso degli acquisti verso le scarpe sportive in gomma si sono accentuate, molte differenze fra i sette distretti italiani della calzatura. Dal nord a sud opera infatti la fascia lombarda di Vigevano e Parabiago, per intenderci le due zone, rispettivamente concentrate su calzatura maschile e femminile, dove lavorano Moreschi e Fratelli Rossetti, e dove producono le loro calzature da infarto Manolo Blahnik, Christian Loubutin e Jimmy Choo; poi, il Veneto della Riviera del Brenta, che iniziò a farsi un nome prima del Rinascimento con quelle inarrivabili chopine alte cinquanta centimetri (severamente vietate alle dame in ogni stato che non fosse la scandalosa Serenissima) e che ora serve le principali griffe mondiali, da Dior a Fendi, sfolgorando anche per un paio di griffe originarie come Ballin e René Caovilla. Quindi, la Romagna di san Mauro Pascoli con Giuseppe Zanotti, Pollini, Cesare Casadei, Sergio Rossi, Gianvito Rossi, Baldinini; la Toscana fra Firenze e Arezzo, le Marche del Maceratese e di Fermo, zona della calzatura maschile d’eccellenza, la Campania fra Aversa e Avellino ma con ovvia concentrazione attorno all’importantissimo distretto conciario di Solofra, la Puglia appunto nel Salento, terra di calzature in gomma e caucciù e di una delle poche produzioni che non abbiano risentito di alcuna crisi, e cioè le scarpe di sicurezza, assemblate in parte in Albania dove tanti posseggono fabbriche e impianti, per un totale di circa 4100 aziende e 72mila addetti, che però al momento nessuno riesce a quantificare con estrema precisione perché la conta post-Covid non è ancora stata fatta. Il più significativo di questi divari fra un territorio e l’altro è quello salariale, che forse nessuno, e nemmeno le istituzioni, ha mai preso davvero in considerazione.
Quando, nella moda, si parla di costo del lavoro, si citano immancabilmente la Cina, il Vietnam, alla Polonia, alla Turchia, la paradigmatica “concorrenza cinese”. E invece, la prima concorrenza è intramuros. Quando Valentino Fenni, titolare della Dada di Grottammare e vicepresidente di Confindustria Centro-Adriatico, segnala che fra le “sue” Marche e la Puglia, la produzione di un modello di calzatura similare può variare anche del 20 per cento, indica un problema che meriterebbe l’apertura di un tavolo nazionale, o almeno una seria discussione fra i calzaturieri stessi. E’ curioso che nessuno, nella periodica denuncia delle differenze salariali fra nord, centro e sud, e nella segnalazione degli incentivi messi a disposizione del Mezzogiorno per favorire l’impresa locale, abbia indicato che le differenze nel costo della produzione sono diventate un problema evidentissimo per molti settori dell’industria attive sul conto terzi, in particolare in anni difficili come questi. “La verità è che nessuno vuole parlarne davvero” osserva Fenni, che ora paventa un ulteriore rischio, e cioè un possibile ritorno dell’industria italiana alla “mera funzione logistica” se, dopo averne sfruttato il know how e il rispetto delle norme comunitarie su smaltimento rifiuti, riciclo, etica, le multinazionali trovassero le stesse condizioni altrove, cioè in paesi dove il costo del lavoro è inferiore. In anni di attenzione spasmodica per la sostenibilità, di cui sono peraltro le aziende produttrici a farsi carico dei costi e degli investimenti, non i brand a meno che non posseggano poli produttivi propri, le aziende italiane possono ancora sentirsi relativamente sicure.
Ma da oggi a cinque anni, il quadro potrebbe significativamente cambiare, anche per via di fattori esogeni come la possibile stretta fiscale di Beijing sui grandi patrimoni che - nonostante il presidente Xi Jinping non abbia ancora annunciato alcuna misura per bilanciare il divario fra ricchezza e povertà nel paese - presumibilmente imporrà ai big player di rivedere costi e piani distributivi per fronteggiare il clima di austerità in quello che, negli ultimi vent’anni, si è rivelato come il mercato più redditizio per i marchi occidentali. Alla fine dello scorso anno, le imprese del fermano-maceratese chiesero al Mef, e ottennero, le agevolazioni concesse alle aree di crisi industriali complesse: 15 milioni, di certo non sufficienti per risanare un’area che, nonostante vanti grandi realtà come il gruppo Tod’s, e nomi rilevanti della calzatura maschile come Santoni o Doucal’s, rischia non solo di essere costretta a cedere proprietà e know how, ma anche di perdere professionalità insostituibili: il timore, espresso anche in altri distretti, è che con lo sblocco di licenziamenti, vengano inevitabilmente prepensionati grandi artigiani senza che una nuova generazione sia pronta a sostituirli. Il sogno, confessatissimo, di tutti, è che si possa realizzare un processo di comunicazione popolare, modello reality show, che renda attraente, cool, insomma spendibile come percorso di studio e di lavoro, il mestiere di calzolaio come è stato fatto, negli anni, con quello di cuoco. Nessuno si nasconde che se i vari masterchef e cucine da incubo hanno avuto tanto successo, è perché a chiunque piace cimentarsi nella cucina mentre, a nostra memoria, ricordiamo che solo Daniel Day Lewis amasse chiudersi nella bottega d’Oltrarno del compianto Stefano Bemer per affinare l’arte della calzatura fra un film e l’altro.
Le favole della tradizione mondiale e la mitologia da cui prendono le mosse traboccano di scarpe, “L’amica geniale” di Elena Ferrante o chi per lei ha messo in scena la prima scarpara della storia, Lila Cerullo, ma trovate adesso un quattordicenne disposto al sacrificio di trascorrere anni ad apprendere l’arte dell’orlatura. Forse sarà per questo che il ministero dell’Istruzione ha in mente un piano di revisione dei programmi degli ITS, gli Istituti Tecnici. Mancherebbe davvero un’azione importante sui social e un bel reality, ancorché Assocalzaturifici ci pensi da tempo, cercando sponde presso le grandi reti digitali. Gianni Giannini, presidente di Doucal’s, denuncia nel frattempo la corte serrata che il gruppo Lvmh, pronto a impiantarsi nell’area, sta facendo ai suoi migliori artigiani: pagano molto, hanno un brand di posizionamento cosmico, sono inevitabilmente una fortissima sirena di richiamo. Non tutti la pensano come lui: dal Veneto, dove circa l’80 per cento delle aziende ormai lavora quasi esclusivamente per i grandi gruppi, Gilberto Ballin, presidente della sezione calzature di Confindustria Venezia e Rovigo, che in epoca pre-Covid fatturava in totale circa 2 miliardi di euro, ritiene che “con i brand si possa anche instaurare un rapporto di collaborazione estremamente proficua”. Osserva anche che la storia dell’industria del Brenta è sempre stata naturalmente portata all’internazionalizzazione: “Dopotutto, la prima vera azienda della zona, Voltan, nasce nel 1898, dopo l’esperienza del suo fondatore nelle fabbriche del nord America”: erano gli stessi impianti da cui Salvatore Ferragamo prese le distanze pochi decenni dopo, tornando a fare il calzolaio in Italia, ma Ballin puntualizza come “dopo la seconda Guerra Mondiale”, la produzione si sia così raffinata da essere diventata, appunto, partner d’elezione delle grandi griffe, a partire dal gruppo Lvmh, marchio e metro di paragone per tutti.
Dalla Lombardia, il suo omologo Diego Rossetti, dell’omonima famiglia di calzaturieri di cui chiunque abbia superato i quarant’anni ricorda il primo, centratissimo slogan internazionale (“un certo mondo cammina Rossetti”: correva la fine degli Anni Settanta e la griffe, come si definivano allora, apriva, prima italiana, una boutique in Madison Avenue), osserva come parte dell’attuale situazione di squilibrio nel settore sia dovuta, oltre che alla contingenza e al confronto con “i colossi”, a un cambio generazionale non sempre facile o foriero di successi. Tranne poche eccezioni e pur con tutti i secoli di storia che abbiamo detto alle spalle, il tessuto calzaturiero nazionale, come quello di moltissimi altri settori, è infatti figlio degli Anni Sessanta e dei “ciabattini diventati imprenditori” che da san Mauro Pascoli evoca il direttore generale di Pollini, Marco Piazzi, ancora perdutamente innamorato delle “opere di ingegneria” che escono dal distretto e che sono, non a caso, le predilette dalle popstar (un giorno arrivò in visita all’Università Sapienza Zanotti con le scarpe ideate per Lady Gaga: l’aula magna intera si alzò in piedi precipitandosi alla cattedra per toccarle, in venerazione feticista). I fondatori stanno in gran parte cedendo lo scettro in questi anni, non di rado senza sapere a chi o senza troppo entusiasmo nel farlo. La produzione conto terzi è parsa dunque a tanti la soluzione più efficace per limitare i rischi.
“Il processo è iniziato ancora alla fine degli Anni Novanta”, puntualizza Rossetti, “e con il tempo, mutandone i rapporti di forza, ha squilibrato distretti che si basavano su relazioni e rapporti personali molto stretti”. Anche lui, come altri, ritiene dunque il distretto un valore da recuperare anche sul piano nazionale: “Abbiamo un problema di immagine che richiede un piano nazionale di ampio respiro”. Alla mitologia del distretto italiano, a cui gli osservatori stranieri dedicano saggi ponderosi e ammirati, dovrebbe corrispondere insomma un piano d’azione coordinato, anche perché, come osserva da Arzano Pasquale Della Pia, che già prima del Covid aveva chiesto alla Regione Campania di riconoscere lo stato di crisi per il calzaturiero “il potere di assorbimento dei grandi brand non è infinito, e non tutti possono fare conto sui grandi brand”. E’ cambiata la società, osserva, ed è cambiato il mercato da tempo: la polarizzazione sociale è più evidente, e vale anche per i prodotti. Da una parte c’è il mercato dei beni di lusso, dall’altro quello dei beni economici, popolari. E anche la produzione si è divisa: c’è appunto chi investe sui beni di altissima gamma, e non tutti possono farlo, e chi sceglie di produrre beni economici. Ma in questo caso la sfida con altri paesi è impari, perché noi rispettiamo le regole e il costo del lavoro. Facciamo bene a farlo, ma questo non ci rende competitivi con il resto del mondo”.
Dunque? “Dobbiamo sviluppare un distretto moderno, un polo della ricerca e dell’innovazione che offra garanzie sulla sostenibilità e l’innovazione digitale. Ci sto già lavorando con l’università Vanvitelli e la SSPI, la Stazione Sperimentale per l’Industria delle Pelli e delle Materie Concianti (che no, non è un istituto di nuova apertura, bensì una delle più antiche istituzioni del settore, visto che venne approvato con Regio Decreto nel 1885, ndr)”. Sarà per via della sua collaborazione con Bottega Veneta, ma da Della Pia, molto attivo in Confindustria, ha ben chiaro l’obiettivo a cui tendere, ed è la stessa Riviera del Brenta con i 20 milioni di scarpe di lusso prodotte all’anno, circa dieci volte quelle del distretto che rappresenta, e che pure comprende circa 650 aziende: nel progetto sperimentale intende coinvolgere una ventina di colleghi. In questa situazione largamente instabile, c’è anche chi continua a crescere e non ha subito minimamente gli effetti del Covid; anzi forse ha addirittura aumentato la produzione, ed è il settore delle calzature da sicurezza. Favoriti dalla legge 626 del 1994, i produttori attorno a Barletta hanno costruito negli anni quella che per tutti è la “safety valley” e che, come osserva Alessandro Porta, patron della Jeannot’s, fa girare numeri importanti. Il riferimento per tutti è la Cofra, nata nel 1938 come Cortelgomma dalla crasi fra il cognome del fondatore (Ruggiero Cortellino), e il materiale di riferimento per la produzione, passata genialmente all’utilizzo dei pneumatici dei camion militari subito dopo la guerra e oggi una media azienda da 130 milioni di euro di giro d’affari. Doveste fare un giro su Amazon, trovereste quasi esclusivamente le sue scarpe, niente male anche in versione sportiva come usa dire “civile”. Volendo.
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