Il Foglio della moda
Il temporaneo addio al tacco 12
Dice Gherardo Felloni, direttore creativo di Roger Vivier, che l’attuale passione per le calzature comode è solo un effetto post - Covid e che ci riprenderemo presto. Lui è già all’opera col fetish e le tinte forti
L’apparenza baldanzosa e un po’ teatrale di Gherardo Felloni, direttore creativo di Roger Vivier molto somigliante a Francesco Tamagno, il grande tenore ottocentesco primo interprete dell’Otello di Giuseppe Verdi e, nota a margine, anche il primo ragazzo padre dello star system nazionale (non volle mai rivelare il nome della madre della figlia Margherita, insomma un bel tipo), è smentita dalla sua passione per due dei luoghi più reconditi dell’Isola del Giglio dove trascorre le vacanze e dove l’abbiamo rintracciato per questa intervista sul ritorno della fibbia. Scendono i tacchi e contestualmente aumentano i decori, gli embellishment come li chiamano gli americani e la fibbia, dalla fibula latina che è derivazione diretta di figere, cioè fissare, è tornata ad arricchire le scarpe di lusso, accessori per i quali una linea austera e spoglia sarebbe difficile da far comprendere al vasto pubblico o, per meglio dire, da giustificare nel prezzo. Non a caso, la doppia fibbia in Swarovski è stato l’elemento che ha reso un modello simil-Birkenstock nere il sandalo forse più venduto delle ultime collezioni di Roger Vivier, in un ossimoro visivo che, in parafrasi modaiola, suona più o meno così: non sono una sciattona calata dal Palatinato Renano, ma una sacerdotessa dell’eleganza dégagée.
D’altronde, come diceva Christian Dior, di cui Felloni è stato direttore creativo della divisione calzature fino al 2014, “il dettaglio è importante quanto lo è l’essenziale perché, quando è inadeguato, distrugge l’intera creazione” e, volendo dar credito alle parole spese dall’esperta di gioielli Bianca Cappello nell’unico testo contemporaneo dedicato a questo dettaglio (“Storia della fibbia fra moda e gioiello”, Skira), oltre ad assolvere uno scopo funzionale, la fibula o boucle in francese, sempre un derivato latino da buccola o anello, è stata usata per comunicare, attraverso i materiali e i decori, precise informazioni riguardanti chi la indossava e la comunità di cui faceva parte. La fibbia di oggi, soprattutto se usata sulle calzature o sulle borse, assolve alla stessa funzione e mostra lo stesso gradiente di vanità di cui si inorgogliva il celebre dignitario dandy del regno di Carlo I, Samuel Pepys, in un passaggio del suo celebre diario, datato 1660: “Oggi ho iniziato a mettere le fibbie alle scarpe”. Non è una annotazione da poco per la storia del costume, in quanto segnala il progressivo abbandono delle gale di pizzo, delle rosette e dei grandi fiocchi alla francese a favore di un elemento decorativo più sobrio ma non meno ricercato e anche, in un certo senso, rappresenta un momento dirimente per la futura di Roger Vivier, che proprio a quel genere di fibbia, larga, rettangolare, in uso presso i puritani, si rifece per la sua calzatura più celebre e ancora rielaborata, la Pélerine, portata alla fama da Catherine Deneuve in Belle de jour.
In estate, Felloni abita il Faro delle Vaccarecce, che possiede e di cui cura personalmente l’orto e il giardino, e una residenza specialissima, sconosciuta ai più, che si raggiunge solo in barca e dove si ritrova, per ricaricarsi, il meglio dell’intelligentsjia nazionale e anche qualche celebrità canora mondiale, fra libri, asinelli per le escursioni, uscite in gozzo e lezioni di yoga (no, non ve ne sveliamo il nome visto che ha solo una quindicina di stanze, bungalow compresi, e si fa vita di comunità, altrimenti siamo punto e a capo). Quando la pressione dei turisti sull’isola si fa eccessiva, chiede accoglienza nel luogo segreto; quest’anno Felloni non ha trovato posto, per cui è rimasto al Faro e ci risponde dal porto, dov’è andato ad accogliere un amico. Immersi nel frastuono dei clacson, parliamo di creatività calzaturiera, di ispirazioni, di variazioni stagionali dell’altezza del tacco, che potrebbe sembrare un argomento frivolo non fosse che in Italia opera qualche centinaio di tacchifici, fra cui le due star Monti e Villa Cortese, e il passaggio da un modello produttivo basato su un’anima in acciaio alta centoventimillimetri a una struttura piatta in caucciù o polimeri potrebbe rivelarsi esiziale per chi non avesse la forza di riconvertirsi sull’onda della tendenza o di saper elaborare, come fanno appunto i migliori, quel genere di architetture da passeggio per le quali la gente richiama immancabilmente l’opera d’arte e la “scultura”.
Felloni, quarantenne aretino, figlio d’arte, collezionista di gioielli ottocenteschi con un debole per i cammei, che porta spesso al collo, ha visto trascorrere un numero di stagioni modaiole abbastanza numerose per ritenere quella attuale una fase transitoria. A ogni buon conto, nella sua collezione per l’inverno ha inserito un paio di stivaletti vertiginosi con il bordo di marabù e uno stivale al ginocchio con un platform da dominatrice. “Credo che l’attuale sia momento di passaggio, in parte dovuto ai lockdown e alle molte giornate di smart working, in parte all’abuso dei tacchi dello scorso decennio. Molte donne ne sono stanche: cercano un nuovo equilibrio, anche in senso letterale”. Guidare la creatività di un marchio nato attorno alla sapienza del suo fondatore nella modellatura e l’ingegneristica del tacco – praticamente dopo il Seicento, secolo di follie calzaturiere, si passa direttamente ai Cinquanta del Novecento con Vivier – non deve essere facile in anni di discesa delle scarpe verso terra. “Oggi che le donne indossano in prevalenza sneaker, modelli a pantofola e mules piatte, la sfida è – come logico - renderli speciali e unici”. Felloni, che ha disegnato una nuova fibbia anche per la borsa Viv Choc (“le faccio realizzare nelle Marche, dove il gruppo Tod’s ha la sua rete di fornitori”), ritiene che l’eccentricità, l’eccesso, l’esagerazione, in tema di calzature siano tutti concetti non dati: “Quando le disegni, le scarpe sembrano tutte estreme: la settimana dopo, sono già consuetudine”.
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