Ghali e un'occasione persa di fare cultura sulla moda
Siamo il paese che meno di tutti ha capito come e quanto sia importante riciclare e dare nuova vita a vecchi capi. Da musicista trentenne ci saremmo aspettati un impegno etico pari almeno a quello stilistico
E se la smettessimo tutti di fare gli ipocriti sulla produzione di moda e imparassimo finalmente a riconoscere come stanno le cose? Per quale motivo la stampa, e poi magari i consumatori, devono storcere il naso perché Blumarine si prepara a reimmettere sul mercato i colli di visone ricondizionati dei twin set di moltissimi anni fa, sostenibili sotto ogni punto di vista, e invece applaudiamo senza fare una piega la collezione selezionata da Ghali con cui intende rifarsi il look la Benetton, proprietaria di milioni di ovini e di bovini nel Sudamerica e con un fronte aperto da decenni con la comunità locale dei mapuche per il diritto di pascolo nelle zone?
Per quale motivo non valorizziamo aziende che utilizzano filati smessi, che riciclano vecchi tessuti oppure usano fibre man made a basso impatto ambientale e facilmente recuperabili come il Tencel, o la stessa viscosa, mentre invece continuiamo – noi sempre succubi del piano Marshall - a sostenere il cotone, una pianta altamente impattante sui terreni e molto meno igienica di quanto si creda?
Per quanto tempo, quousque tandem, andremo avanti a farci raccontare la fola del “noi usiamo cotone organico” quando in tutto il mondo il cotone organico prodotto non supera l’1 per cento della produzione e la stessa Benetton dichiara sul proprio sito che “nel 2020 il cotone biologico ha rappresentato l’8 per cento della produzione di capi in cotone”?
Eppure. La prima giornata di pre-presentazioni, incontri stampa, varie ed eventuali in attesa delle sfilate delle collezioni primavera-estate di Milano Moda Donna e di Lineapelle che debuttano fra poche ore, mette l’accento sul tema fondamentale della sostenibilità e soprattutto della circolarità. Al salone della conceria e delle pelli naturali, derivati vegani compresi, si fanno i conti da anni con un cliente che vuole sapere tutto della filiera e non osa aprire bocca sulla pelle animale perché continua a mangiare carne e sa che milioni di gropponi all’anno, non lavorati e conciati, produrrebbero un inquinamento mostruoso (il settore, come dicono da Unic, è anzi in ripresa e i volumi di produzione sono cresciuti del 20,7 per cento su base annua, il fatturato settoriale del 25,3 per cento e l’export del 28 per cento, benché il recupero a valori pre-pandemici non sia ancora avvenuto). Ma nessuno osa dire "Beh" sull’inquinamento prodotto da tutti i capi usa e getta che ci mettiamo in casa, e sulle centinaia di abiti che conserviamo per decenni senza nemmeno buttarli in un cassone per la differenziata. Produciamo e consumiamo troppo, è arrivato il momento di dirlo. Soffochiamo il pianeta, animali compresi, con le nostre t shirt, per non parlare delle borsine di tela presuntamente ecologiche che ormai raccogliamo a centinaia (quante ne possediamo?).
Grandi brand, come Gucci, racconteranno nei prossimi giorni il proprio impegno per diminuire il numero di capi in circolazione, valorizzando quelli delle collezioni passate; marchi relativamente nuovi, come Vitelli del giovane Mauro Simionato, sfileranno per la prima volta, sostenuti dalla Camera della Moda, per raccontare il loro progetto di recupero e riuso, con tessiture e agugliature artistiche, filati smessi e vecchie maglie. Etro lavora da anni con aziende di tessili di recupero. Ma nel paese che meno di tutti ha capito come e quanto sia importante riciclare e dare nuova vita a vecchi capi (Camera Moda ci comunica che in Italia il tasso di raccolta e recupero di abiti smessi è dell’11 per cento contro il 75 per cento della Germania), abbiamo invece Ghali che ci racconta come la sua “grossa fan base si aspetti qualcosa da indossare”, però senza “trascurare la musica”.
Intendiamoci, la collezione è molto gradevole, lui in tutta evidenza un bravo ragazzo; ma da un trentenne con la grossa fan base e messo lì per quello, ci saremmo aspettati un impegno etico pari almeno a quello stilistico, così come ce lo saremmo aspettato da un’azienda che vanta uno score di disastri raramente eguagliabile (forse lo ricorderete, anche senza Patagonia o Ponte Morandi si trovarono etichette Benetton perfino fra le macerie del Rana Plaza). Sarebbe stata l’occasione giusta per una nuova campagna sul riuso e il riciclo di capi usati come quella che portò nudi sui manifesti Luciano Benetton quasi trenta anni fa. E invece abbiamo la fan base e invece di educarla cerchiamo di venderle ancora un cappellino e una felpa.
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