il foglio della moda
La regola del trecento
Sono le volte in cui bisognerebbe indossare un vestito prima di buttarlo (o trasformarlo). Come dice Maria Sole Ferragamo, che nell’azienda di famiglia ricicla gli scarti di lavorazione della pelle per farne gioielli
“Inizio a non tollerare più la parola sostenibilità: è un termine-slogan di cui nessuno più, ormai, riesce a definire confini e significato: io non vedo come un traguardo, non lo è mai stato per me. La mia non è mai stata una questione di scelta, ma di responsabilità”. Maria Sole Ferragamo preferisce di gran lunga il concetto di “bellezza” nella concezione platonica: «Il bello è lo splendore del vero». Molte altre citazioni, tutte edificanti («la bellezza educa al bene») verranno snocciolate durante la conversazione con una delle eredi della dinastia italiana di moda celebre soprattutto per gli accessori in pelle e i foulard in seta, fondata nel 1927 dal nonno Salvatore. Lei non lo ha conosciuto ma ci si si sente connessa dalla stessa missione salvifica: «Realizzo gioielli con gli scarti di lavorazione della nostra maison, lui raggiunse il successo durante l’autarchia con il sandalo “Invisibile”, connesso al piede dagli impercettibili fili delle lenze da pesca o le “Rainbow”, le prime calzature con plateau del XX secolo, realizzato in sughero dipinto nei colori dell’arcobaleno. Lavorando con quello che aveva a disposizione, aveva già anticipato la tendenza dell’upcycling, cioè rendere preziosi materiali di recupero con dosi massicce di tecnica e creatività».
Figlia di Leonardo Ferragamo e di Maria Beatrice Garagnani, antica famiglia del parmense, trent’anni, laurea in architettura al Politecnico di Milano a cui è seguito un Master in Design del Gioiello alla Central Saint Martins School di Londra, Maria Sole appartiene a quella generazione «per cui è praticamente sottinteso che un prodotto, soprattutto di lusso, sia a impatto zero. Nel 2017, quando ho fondato la mia linea di bijoux SO-LE Studio, il fatto che provenissero dai residui dei processi di confezione degli accessori era importante fino a un certo punto: semplicemente, li avevo a disposizione e ho deciso di utilizzarli perché non fossero sprecati. Proprio a Londra mi è stato fatto capire che il diritto e il dovere dei designer è quello di affrontare i problemi con un pensiero laterale, cercando il piacere là dove gli altri vedono solo rifiuti. Non è facile, ho cercato soluzioni innovative. Realizzo personalmente i prototipi e, per esempio, i miei primi orecchini, cui ho dato nome Tirabaci, volevo sembrassero spirali di metallo pesante, mentre in realtà sono leggerissimi perché di pelle laminata. È successo così anche con i bracciali tratti da un solo pezzo di pelle che diventano elastici grazie a tagli studiati ad hoc, o alle collane gorgiera che si dilatano sul collo: certo, mi hanno dato una grande mano gli artigiani di famiglia, che sono bravissimi anche se ho dovuto lottarci». E perché, visto che sono, per l’appunto “di famiglia” e, come dire, non tutti i giovani creativi e ambientalisti possono contare su maestranze del genere? «Perché, chiamandomi Ferragamo, prima mi ascoltavano per farmi un favore, poi concludevano che “non si può fare”: una frase che detesto come da bambina detestavo i “no” dei miei genitori, purché non fossero spiegati, giustificati, motivati».
Che il mondo dell’eleganza ad alto livello desideri dare una seconda chance a ritagli, avanzi di decorazioni e giacenze di magazzino, ormai è una propensione coltivata anche da altre griffe di aureolata dal mito dell’esclusività: vedi la griffe francese più assimilabile a Ferragamo, cioè Hermès. Grazie alle sperimentazioni della direttrice creativa Pascale Mussard, sesta generazione della famiglia, un centinaio di designer da mezzo mondo elaborano delle “ri-creazioni”, oggetti per la casa e piccoli gadget, per la linea “petit h”, tutta ricavata da residuati di fabbricazione. Certo, si aprono così anche nuovi orizzonti di fatturati e di mercato, con prodotti dai prezzi decisamente più accessibili, ma forse questa volta non è il caso di demonizzare il marketing: almeno nelle intenzioni sono progetti buoni e dettati da una giusta coscienza (naturalmente, se fanno guadagnare, ancora meglio).
Aggiunge Maria Sole: «Chi lavora nell’upcycling, in un certo senso riproduce quello che succede nella couture: c’è l’innovazione e l’artigianato, la qualità e la ricerca, soprattutto l’unicità: siccome sono tutti oggetti fatti a mano, non ce ne sono mai due uguali. Io e le mie amiche, tanto per farle un esempio, amiamo i capi vintage anche perché sappiamo che non troveremo mai un’altra vestita esattamente come noi: sicuramente è il risultato dell’affermarsi di quella di ciò che oggi chiamiamo “moda circolare”, ma è anche un modo per essere originali. Proprio come noto che tra gli adulti - tranne poche, sofisticate collezioniste -, non è più un tabù mettere in vendita, anche su piattaforme prestigiose, abiti e accessori già usati».
A chi le fa notare come tanti suoi coetanei o anche teenager frequentino i “Fridays for Future” e poi, per niente preoccupati di dare un dispiacere a Greta Thunberg, trascorrano il sabato pomeriggio in fila davanti ai negozi del fast fashion più inquinante che ci sia, Maria Sole contrattacca: «Il nemico non è il fast fashion, ma l’uso che ne fa. Se per andare a un party mi compro l’ennesimo top per poi usarlo solo altre due o tre volte prima di buttarlo, compio un errore. Bisognerebbe trattare un acquisto low cost con la stessa cura e attenzione con cui tratteremmo un capo costoso o un paio di scarpe importanti: la parola chiave è “longevità”, tanto che le esponenti più radicali della moda etica impongono di non buttare nulla se prima non lo abbiamo portato almeno trecento volte». E quando le si chiede dove sia l’anello che non tiene, in quale angolo dell’animo si nasconda la contraddizione tra la rincorsa al nuovo e la difesa di un pianeta ormai danneggiato, risponde netta: «Ci si fanno poche domande: chi ha fatto il mio vestito o le mie scarpe? Ne ho davvero bisogno o posso farne a meno? Quali conseguenze avrà l’ennesimo blitz di shopping? C’è bisogno di educazione, di informazione. Se ne parla tanto a proposito di bambini e di giovanissimi, ma in realtà siamo noi, i trentenni, futuri genitori, ad avere bisogno di lezioni da chi è più grande per età ed esperienza. Ne abbiamo la necessità perché i nostri figli diventino individui dotati di una coscienza, di un pensiero critico, di un senso di responsabilità». Se c’è una generazione che ha sprecato, scialacquato, dissipato le risorse della Terra, è proprio quella dei boomer.
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