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Fra corpo e anima

“Privatamente”. Virgil Abloh e il valore immenso di una morte discreta

Fabiana Giacomotti

La moda, che vive di palcoscenico, ha una incredibile capacità di mantenere la barra dritta quando vede arrivato il momento della fine. Conosce quella che Seneca chiamava “l’arte di morire”: ultimo interprete Virgil Abloh

Virgil Abloh, morto ieri pomeriggio a 41 anni per una forma rara e aggressiva di tumore, un angiosarcoma cardiaco, aveva scoperto la propria malattia nel 2019. Aveva diradato la propria presenza sulle passerelle da meno di due mesi fa, dopo aver ceduto la maggioranza del brand che aveva fondato a Milano nel 2013, Off White, a Bernard Arnault. Fra pochi giorni lo aspettavano a Miami per l’apertura di un negozio di Louis Vuitton, di cui era direttore creativo della linea uomo. Quando è planata sulle scrivanie virtuali la notizia della sua scomparsa da parte dei vertici del gruppo “Lvmh, Louis Vuitton e Off White sono devastati dall’annuncio della morte di Virgil Abloh domenica 28 novembre a causa del cancro contro il quale aveva combattuto privatamente per diversi anni”, ho pensato al valore immenso di quell’avverbio. “Privatamente”. Il creativo che aveva rivoluzionato non solo il nostro modo di intendere lo streetwear ma la stessa nozione di “collaborazioni” e “contaminazioni” tanto di moda adesso, quell’uomo gentile che lascia una moglie e due figli piccoli, combatteva intimamente, da solo, in silenzio, contro una malattia che ti divora il petto.

 

Non lo sapeva nessuno, davvero, anche se da qualche tempo appariva sempre più smagrito, e da qualche settimana non appariva affatto. “Siamo tutti scioccati da questa terribile notizia”, ha detto Bernard Arnault, patron di LVMH. “Virgil non era solo un designer geniale e visionario, era anche un uomo dall’anima splendida e di grande saggezza. Pensiamo tutti ai suoi cari per la perdita del loro marito, padre, fratello, figlio e amico”. Privatamente. C’è un solo modo per lasciare con dignità le scene, ed è questo. La moda, che vive di palcoscenico, che comunica ogni minuto della propria parabola, ha una incredibile capacità di mantenere la barra dritta quando vede arrivato il momento della fine e capisce che combattere è inutile. Combatte anche in silenzio. Conosce quella che Seneca chiamava “l’arte di morire”.

 

Franca Sozzani, di cui fra pochi giorni ricorre il quinquennio dalla morte, Alber Elbaz, Karl Lagerfeld: quest’ultimo soprattutto, perché è a lui che Virgil Abloh veniva paragonato. Un addio privato, senza agonia condivisa. Morti in silenzio, come in uno spegnersi improvviso che tale non era, ma che tale veniva lasciato credere: vedevi Franca Sozzani consumarsi, una sfilata dopo l’altra, un evento dopo l’altro. Ti guardava con quei suoi occhi chiarissimi, chiedendoti col silenzio di non dire niente, di non guardare, neanche, di non inscenare la pietà. Lei inscenò solo, grandiosamente, il proprio addio. Ma dopo. Quando non ci sarebbe più stato quello sguardo, lo sguardo degli altri che, anche con le migliori intenzioni, fruga, analizza, esprime. Quando gli altri avrebbero potuto vedere solo una spoglia, e quella spoglia sarebbe stata niente. Un simulacro, ovvero l’essenza stessa della moda.

 

La vita ci stata data a patto di morire, scriveva Seneca, che è l’osservazione definitiva e anche una delle poche che troverete non solo nella nostra, ma in quasi tutte le culture. Ieri sera, mentre riassumevo i fatti importanti della vita di Virgil Abloh – nato a Rockford, nell’Illinois, da genitori di origine ghaniana, laureato presso la University of Wisconsin–Madison, master in architettura, quindi stagista da Fendi, collaboratore di Kanye West, fondatore di Off White con Claudio Antonioli, direttore creativo delle linee uomo di Louis Vuitton dal 2018, uno fra le cento persone più influenti di Time – pensavo che sul modo migliore di morire non abbiamo quasi letteratura. C’è quella pagina bellissima che Giuseppe Tomasi di Lampedusa, lui stesso già prossimo alla morte, affida al principe di Salina nel Gattopardo: durante il famoso ballo in cui ha presentato in società la futura nuora, Angelica, don Fabrizio osserva un quadro di Greuze nello studio del principe di Ponteleone, “La morte del giusto”, e si domanda se le figlie si strapperebbero i capelli affrante come nel dipinto, dicendosi però certo che le lenzuola sarebbero meno pulite. Sporcizia, sudore, disfacimento. Ritrarsi, nascondersi, è l’unico modo per allontanare quel ricordo negli altri. La separazione perfetta fra corpo e anima, fra idea e materia. Farlo “privatamente”.

 

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