il foglio della moda
La mia folla ignara, oppressa in vestiti di carne e cenere
La scuderia di carta dell’infanzia, gli abiti colorati come simbolo identitario, e oggi l’ascensore per l’inferno del “Macbeth” scaligero, di cui Davide Livermore rivela regia e intenzioni. Pensate per la politica di oggi
Atto primo, scena prima. Nel tinello di una casa medio borghese di Torino, c’è un bambino che indossa un berretto nero e una giubba chiassosa da fantino: scollo a V oro in campo viola, con maniche granata. Sprona i suoi cavalli, balzati veloci dalle gabbie di partenza. "Nel mio ippodromo battevo regolarmente, ma anche di venti lunghezze, i purosangue dell’Aga Khan. Avevo la più grande scuderia del mondo, li disegnavo e ritagliavo e diventavano veri. Incollati su mezze sfere, come i giocatori del Subbuteo: li facevo avanzare colpendoli con le dita". È la fantasia teatrale del regista Davide Livermore che iniziava a galoppare. Non si è più fermata. Merito di un’infanzia intinta nell’immaginazione collettiva dei dopocena di famiglia, privi di schermi televisivi. Di un’adolescenza in cui si incontrava con gli amici per comprare, in regime di colletta, un disco 33 giri da ascoltare insieme, creando un patrimonio di comunanza. Beneficiato dai suoi nonni che cantavano l’opera per fare spettacolo, trasmettendo il valore della lingua italiana. I pantoni che vestono la sua vita sono in parte ancora quelli: il granata del tifoso del Toro, il nero e l’oro che riverberano un’idea di eleganza, il viola della Viola Fiorentina, squadra del padre, indossato provocatoriamente (panciotti e pochette) anche in teatro, per testimoniare che: "Sono finiti i tempi in cui temevamo il colore dei paramenti sacri di Quaresima, perché in quei giorni a noi artisti non ci pagavano". All’eclettismo della palette cromatica del Direttore del Teatro Nazionale di Genova - già cantante, attore, direttore della fotografia, insegnante che crede nelle connessioni tra musei, accademie, teatri e scuole - si sono aggiunti il verde inglese e l’arancione: "Colorarmi è divertente. Se non fai qualcosa che ti dà piacere, perché hai paura di sembrare altro rispetto a quello che sei, ti smarrisci. Faccio rientrare il tutto sotto la dicitura: beh è artista…".
Prima della Scala, il Macbeth spiegato dal suo regista Davide Livermore
Per la quarta volta consecutiva, Livermore è il regista della Prima del Teatro alla Scala di Milano, la sera patronale di Sant’Ambrogio, 7 dicembre. Affidargli la messa in scena del Macbeth, con libretto di Francesco Maria Piave, non poteva che ridestare in lui l’intimo animo risorgimentale e repubblicano di Giuseppe Verdi. "Oggi è interessante parlare di bramosia del potere, quello che soddisfa uno a discapito della patria oppressa”, dice al Foglio. “Negli ultimi 27 anni, dalle elezioni del 1994, la parola fascismo sembra bandita. Non se ne può più parlare, quando invece è ideologia fuori legge per la Costituzione italiana. Di fronte a fatti palesemente fascisti, invece di condannare senza distinguo si va sempre a fare il bar sport. Il focus del climax emotivo della campata drammaturgica verdiana è il coro, non la voce del solista. In questo caso i costumi hanno un ruolo fondamentale nell’identificare il gruppo compattandoli come oppressi vestiti di carne, il colore dell’umanità, sporca di cenere e dolore. È una comunità che si deve destare. Il focus è l’orrore e il rischio del potere assoluto".
Non stupisca la verve. Livermore è un ayatollah dell’idea che il teatro siano metri quadrati in cui tutto è possibile e un alfiere del valore della militanza culturale: "È fondamentale nella nostra vita di artisti. Bisogna prendere coscienza di quanto esserlo significhi essere soggetti politici nella società". Lezione acquisita e impartita da direttore artistico del Teatro Baretti, quartiere San Salvario, oggi luogo della movida torinese ma, quando iniziò ad occuparsene nel 2002, crogiolo di tensioni da frontiera multietnica: "Come tutti gli avamposti di confine è stato illuminato dalle differenze, che con il tempo rivelano ricchezze".
Atto secondo. Scena prima. Questa volta siamo al Teatro alla Scala. Anticipiamo l’avventuroso spettacolo del Macbeth dopo aver sbirciato, in anteprima sullo smartphone a casa di Livermore, i bozzetti delle scenografie. C’è un incrocio "perché è dove le strade si intersecano che incontriamo il diavolo", che potrebbe essere quello di una Quinta Strada di Manhattan ma con uno skyline da megalopoli orientale: "Più che a Blade Runner penso a Inception di Christopher Nolan. Succedono cose eclatanti, fatti sonori che appartengono a un violento mondo atmosferico. Tuoni, lampi, un blackout improvviso, esplodono i semafori. E c’è una profonda ragione drammaturgica. Chi sono le streghe che svelano il futuro a Macbeth? Come entra da subito il sovrannaturale in questa vicenda? Abbiamo voluto creare un incubo psicologico che parte tutto dalla frustrazione del protagonista e lo porta a una sordida brama di potere. Abbiamo tre gruppi da dodici coriste come voleva Giuseppe Verdi, ma in più ci sono i mimi. Una massa di persone, con la felpa o con look immediatamente identificabili nella moda della nostra quotidianità, che all’improvviso si ferma, guarda e si spaventa: è la rappresentazione mentale e psicologica di cosa sia divinazione e soprannaturale. Perché il vaticinio funziona se faccio impressione, se il vaticinato finirà per ricondurre ogni rumore a quel fatto. La profezia è quello a cui noi vogliamo credere o abbiamo timore che accada. Ecco il suo meccanismo: è la più grande paura o il più grande sogno”.
Livermore è uno sperimentatore con la mente gremita d’idee provocatorie e la consapevolezza dei limiti. Lui fa solo quello di cui sa. E per spiegarlo estrae la metafora dei famigliari che non vanno mai convinti: "Avevo mio babbo che stava morendo, 21 anni fa. Ero di fianco al suo letto e arrivano dei parenti. Nota bene che non ero proprio agli esordi, avevo già cantato con Pavarotti, Domingo e Carreras, ma loro mi dicono: “Adesso è proprio il caso che ti trovi un lavoro, perché con questi coretti…”. Mi si crepò la faccia. Per me avevo già fatto un percorso importate, ma evidentemente non ero riuscito a comunicare al mio mondo".
Se la moda è davvero anche emozioni, l’insieme delle stesse non può che apparire come un vestito, un’arte visiva, per chi le trasmette e chi le riceve. Così nell’opera di Livermore ci sono gli abiti teatrali e quelli che rivestono l’animo umano, che non hanno minor valore scenico.
Creatore dell’ennesima potenza dello spettacolo lirico, con realtà aumentata e flusso musicale che si intreccia con la prosa, per il Macbeth ha gettato sul tavolo del gruppo di lavoro - direttore d’orchestra Riccardo Chailly, scene di Giò Forma, costumi di Gianluca Falaschi (intervistato a pagina 5 di questo numero), video di D-Work e coreografia Daniel Ezralow - una visione violentemente contemporanea del dramma shakespeariano. "La riconoscibilità delle emozioni nella nostra società prende il corpo narrativo, anche in ambiti inaspettati, sempre molto cinematografico. Il contenitore drammaturgico in qualche modo ha sempre questo riferimento visivo. Resto convinto che anche il più intransigente dei melomani, davanti a una bilancia in cui potesse mettere un chilo per ogni opera o un chilo per forma visiva: cinema, clip, televisione; farebbe pesare assai di più il secondo".
Il baritono Luca Salsi è Macbeth. Ma, non avrà nemmeno un secondo per sembrare un eroe guerriero che, spada in pugno, salva in battaglia la corona del suo signore Duncano, re di Scozia, per poi sottrargli il regno dopo averlo sgozzato. "Non ho nessuna intenzione di lasciargli questo lustro: mostro subito da dove viene, con Banco al seguito. Ovvero, dalla guerra, dall’avere massacrato persone, dalla scena di un omicidio. Uso l’ouverture per presentarlo nella sua efferatezza. Il suo lavoro è uccidere e da un killer che cosa ti vuoi aspettare?".
Quel che fatto è fatto e non si può disfare. E nel Macbeth il fare va in rima baciata con l’assassinare. Il destino che si compie non può essere rimediato, è incombente nella vita dell’uomo dove il perdono sfugge, l’assoluzione non è ancora presente e la coscienza assume una ferale rilevanza.
Come l’idea che la crudeltà decisionista sia la virtù dell’uomo. "Nel potere non riesce a non vedere che il suo machismo inappropriato. Ci sarebbero invece delle grazie che sono anche dei maschi, solo che non si ha il coraggio di viverle manifestamente e le si considera esclusiva femminile. Sbagliato, la grazia è virtù transgender".
Anche perché difronte al pallido dubbio di Macbeth proferito prima di pugnalare il re: “E se fallisse il colpo?”; risponde la sua Lady: “Non fallirai, se tu non tremi”. Lady Macbeth: sul palco della Scala sarà Anna Netrebko, il miglior soprano del mondo, che in carriera ha interpretato il ruolo con una sciarada di costumi: dalle sottovesti in luminosa seta grigia in pendant con lingerie di pizzo al Metropolitan Opera di New York, alla cotta di maglia dorata al The Royal Opera House. "Lady Macbeth è l’elemento seduttivo di quest’opera. Sono attirato da quanto fosse straordinariamente agguerrita e controllata emotivamente nella soluzione dei problemi. Muore perché travolta dalle emozioni, non controlla più il male. Non ne è più istigatrice, ne è sopraffatta. Freudianamente, si parla di un’impossibilità di poter reggere la rimozione. Lei non può che vivere un nichilismo autodistruttivo e verrà rappresentata piena di un’altissima eleganza che potremmo definire milanese. Quella che crea una riconoscibilità di casta anche all’interno del nostro essere apparentemente casual. Infatti, sappiamo significare, con piccoli segni distintivi, che io sono quello che si può permettere una cosa lussuosa e tu sei tarocco. Nell’umanità c’è sempre questo innato desiderio di creare solchi. E la moda crea solchi. Sottili e dolorose differenze sempre più grandi. Oggi è diventata anche fonte di reddito dei ragazzi che scambiano, vendono, comprano, moda. Commerciano in marchi attraverso aste online, perché il possesso è status. Salvaguardiamo l’ipocrisia sociale che non ci può far dire: io sono qui e tu sei lì. Eppure, lo facciamo ugualmente perché si vede da cosa indossi che non fai parte del club".
Guai a sbagliarsi, Livermore non è partecipe del luddismo anti fashion. Anzi, ha avuto dei flirt intellettuali che si sono trasformati in collaborazioni con Kean Etro (che per due Prime lo ha vestito), con i suoi amici appassionati di opera Domenico Dolce e Stefano Gabbana e infine con la maison Giorgio Armani. Nella sua regia etica ed estetica si fondono di continuo, ma sono la base di una provocazione. "Giudicare è la cosa più antica che possa esistere. L’arte va “sdata”, ovvero data all’ennesima potenza e non conservata dietro un vetro, immobile e stantia. La caratteristica fondamentale dell’opera è la distopia”.
Come allora rappresentare in modo immaginifico il Macbeth trasferendo contemporaneità?
Per esempio il castello di Caudor, dove la tragedia si consuma di continuo, è per Livermore una sorta di Trump Tower, edificata sul palco scaligero dalla realtà aumentata che sconfinerà per dimensioni anche nei palchetti laterali. Tutto renderà riconoscibile il nostro tempo. Palazzi, arredi e il design contemporaneo, con il suo lusso asettico, irromperanno nella scena della festa. Un ascensore, prima per il paradiso e poi per l’inferno, diventerà la metafora dell’arrampicata alla tirannide. "Una parte della nostra società si rifiuta di vivere l’arte nella sua contemporaneità e non riconosce il valore lo sforzo e la dedizione dei vivi. Si è sempre un po’ gelosi di chi ha voglia di immaginare mondi diversi e vive di creatività. Inserire l’idea di un potere che implode su se stesso con segni del nostro tempo serve a farci capire noi dove siamo rispetto a questi rischi. Serve a risvegliare la coscienza che parte dal singolo per diventare società civile".
Ma c’è un messaggio nella regia di Livermore che spiega più di ogni cosa, perché abbia senso attualizzare Macbeth, anche per chi non condivide il nuovo umanesimo post pandemico: “Per i giovani manager è più efficace di un dispendioso master alla Sorbona. Si vede rappresentato proprio tutto quello che uno non deve fare mai quando è un leader e ha la responsabilità della vita delle persone nelle sue mani. Comprendi che siamo esseri migliori nel momento in cui ci prendiamo cura della felicità degli altri. Altrimenti c’è solo una sterilissima misurazione del sé”.
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