Il Foglio della Moda
“Nessuno ha speso in fasto quanto me. Tranne Luigi XIV”. Intervista a Manfred Thierry Mugler
Il massimalista della moda mondiale racconta al Foglio come nacquero i costumi del “Macbeth” per la Comédie Française a cui tutti guardano ancora adesso, trentasei anni dopo. “Mi piace lavorare sui contrasti. Ma in totale libertà. Se devi spiegare un abito, quell’abito non funziona”
L'annuncio è stato dato stanotte sull'account Instagram ufficiale "Manfred Thierry Mugler", dal suo direttore della comunicazione e agente Jean Baptiste Rougeot: "Con immensa tristezza comunichiamo la morte di monsieur Thierry Mugler, avvenuta domenica 23 gennaio. Che la sua anima riposi in pace". Aveva 73 anni, viveva perlopiù a Berlino, fino al 24 aprile sarà aperta la mostra antologica "Couturissime" al MAD di Parigi, che ripercorre la sua carriera e le sue infinite innovazioni. Ufficialmente, la morte è avvenuta per cause naturali. Genio della teatralità della moda, couturier di Madonna e Sharon Stone per anni, creatore di una famiglia olfattiva con il suo profumo più noto, Angel, da tempo Mugler si occupava quasi esclusivamente di progetti teatrali. Per questo, è in memoria di un suo straordinario "Macbeth" andato in scena al festival di Avignone nel 1985, lo intervistammo in occasione della "Prima" scaligera di Davide Livermore e Riccardo Chailly, per il numero del "Foglio della Moda" di dicembre, dedicato al costume teatrale e alle sue influenze e ai suoi scambi su e con la modalità. Monsieur Mugler non rilasciava facilmente interviste, ma il tema gli piacque. Ve la riproponiamo.
Verso la fine della chiacchierata, quando ormai abbiamo toccato il tema “progetti futuri” e si è parlato del Teatro alla Scala, dove dovrebbe approdare in una prossima stagione con il suo balletto con McGregor, “A divine transformation”, riflessione sull’animale-uomo e il genere sessuale, Manfred Thierry Mugler si lascia sfuggire che il suo Macbeth per la Comédie Française, caposaldo dell’immaginario shakespeariano datato 1985 a cui tutti i costumisti del mondo continuano a guardare prima di mettersi al lavoro sul testo e l’opera, “fu lo spettacolo più costoso dai tempi di Luigi XIV”. Per un attimo penso di essermi persa uno spettacolo magnifico sul re Sole per tutti questi anni, che disdetta. Invece no. Mugler intende proprio Luigi XIV di Borbone, il monarca che istituì il teatro nell’autunno del 1680: voleva accordare ai comédiens français il monopolio delle recite in città contro gli odiatissimi italiens che dominavano le scene da un buon secolo, e la prima opera che venne rappresentata, all’hotel de Guénégaud, fu la “Fedra” di Jean Racine, tragedia su un’altra donna vittima delle proprie pulsioni in cui gli uomini interpretano, diciamola tutta perché è così anche in Macbeth, ruolo di comparse o di utili strumenti nello svolgimento della trama.
Che sia priva di nome proprio e venga identificata solo attraverso il titolo onorifico nulla toglie anzi, aggiunge, a questa lettura: è lei l’agente, la mente, la “titolata” a indirizzare l’azione. Lei il super-io del marito: ed è proprio per questa lettura superomista, eccessiva, del portato sociale e autocelebrativo della coppia, che trentasei anni fa, chiamato dal regista Jean Pierre Vincent per un Festival di Avignone entrato nella storia, Mugler spese senza risparmio per quella che considera “la tragedia umana ultimativa”, la messinscena “esplosiva” delle pulsioni più sotterranee dell’animo: “Un’opera cupa, senza redenzione, senza amore, che ci spinge a guardare nel nostro abisso personale”. I costumi grandiosi - in pelle, laminature d’oro, chiodi, cristalli, costruzioni arditissime attorno a forme che attraversano tre secoli, dal tardo Cinquecento al Settecento - sono in mostra fino al prossimo aprile al Musée des Arts Décoratifs del Louvre, in una sala dedicata al termine di un tripudio magnificante del corpo femminile, nell’ambito dell’evento itinerante “Couturissime”, dedicato al genio di quest’uomo che intuì l’evoluzione spettacolare della moda, mettendo in scena show mirabolanti (e in un caso a pagamento, per migliaia di persone), quando ancora altrove parevano eccessive le spalline imbottite di Joan Collins.
Centoquaranta creazioni, molte delle quali inedite (“mi piace la totale libertà creativa”), che ripercorrono la sua carriera dal 1973 al 2001, prima dell’abbandono delle passerelle e della ricostruzione, oltre che del proprio volto a seguito di un incidente in palestra, della sua stessa identità: Manfred è il suo primo nome. Parla di qualità di esecuzione di un abito con la stessa souplesse con cui parla di qualità della vita, e dell’importanza di viverla all’altezza delle proprie ambizioni, purché in armonia con sé e con gli altri. Uno dei costumi del suo Macbeth, un abito laminato d’oro che si ispira in tutta evidenza al celebre “Armada Portrait” di Elisabetta I, e che in scena si spaccava letteralmente in due, rivelando il corpo nudo, “piccolo, miserabile” di Lady Macbeth issato su un paio di calcagnini veneziani alti cinquanta centimetri, è stato giudicato troppo fragile per essere trasportato, e si è trasformato in un ologramma, “La disparition de Lady Macbeth”, di Michel Lemieux. “L’effetto in scena era grandioso”, racconta Mugler da Berlino, dove ora abita di preferenza, evocando il lavoro che fece attorno al personaggio della Lady, interpretandola come “una nuova ricca, avida di segni visibili del proprio potere”.
Per i primi due atti, era coperta di “perle enormi”, di seta, di cristalli, calata in sovrastrutture per le quali Mugler aveva recuperato forme antiche del potere vestimentario: i colletti a raggiera di pizzo del tardo Cinquecento, i verdugali o “guardinfante” e le gorgiere della corte spagnola del Seicento, i panier della metà del Settecento, ai piedi appunto le monumentali cioppine che alle dame della Serenissima imponevano il sostegno di due servi per poter camminare o, per meglio dire, strisciare come dei Golem lungo le calli. Enorme, sovradimensionato, a metà fra un replicante alla Blade Runner (ricordatevi, siamo alla metà degli Ottanta) e un guerriero medievale, era Macbeth, a sua volta “depassé, superato dalla propria ambizione”, il braccio persino affaticato dal peso della spada e del pugnale grazie al quale si è fatto strada. L’altro giorno in Rai, una delle sue muse, Simonetta Gianfelici, ora talent scout, la donna che interpretò in una sfilata un “abito-conchiglia” in velluto nero e raso rosa entrato nella storia, mi ha detto che di rado si è sentita più potente e in controllo di sé che negli abiti apparentemente impossibili di Mugler, nelle sue sperimentazioni di forme e di materiali. Empowered, per usare un altro termine ora di moda. Metallo, gomma, pezzi di motociclette, finta pelliccia fatta di piume e lana. Un amore infinito per la natura, ricreato con tecnica di make believe, del trompe l’oeil: un avanguardista del sostenibile. Donatella Brunazzi, attuale direttore del Museo del Teatro alla Scala, per molti anni sua longa manus in Italia, si commuove ancora al ricordo di quegli abiti, di quel rispetto totale per il corpo umano, a cui oggi il nuovo direttore creativo Casey Cadwallader, chiamato dal gruppo L’Oréal, sta cercando di dare un senso contemporaneo e, soprattutto, culturalmente approcciabile.
Il Mugler degli Ottanta non era un designer facile da vestire nemmeno nel pret-à-porter: indossare quegli abiti che tendevano a schiacciarti non richiedeva solo personalità, ma anche conoscenza e coraggio. “Per il mio Macbeth, gli atelier della Comédie Française raggiunsero il livello tecnologico e di sofisticazione che volevo con l’uso del pugno di ferro”. Pensate se lo stesso metodo venisse applicato oggi: ho visto con i miei occhi Gianluca Falaschi (qui l’intervista), vezzeggiare le temibili sarte dei laboratori Ansaldo della Scala come dive pur di assicurarsene i favori e convincerle ad eseguire quel certo taglio, quel tale ricamo, le asole fatte a mano come nella haute couture che il pubblico non scorgerà mai a venti, quaranta, cento metri di distanza ma che gli attori, come diceva Luchino Visconti che secondo leggenda pretendeva la biancheria vera nei cassetti, sanno invece di avere, e recitano di conseguenza in modo diverso, se non altro più autentico.
Già, gli attori. Racconta Mugler da Berlino, dove vive oggi, che ebbero qualche iniziale perplessità a calarsi e ingabbiarsi in quei costumi che ne trasformavano le proporzioni: “Poi si resero conto che i volumi e il peso davano al loro gesto e l’interpretazione che cercava il regista”. Al Mad di Parigi sono esposte anche le straordinarie streghe a cui, facendo due conti, direi si fosse ispirata anche Sibylle Ulsamer quando, nel 1990, vestì il Trio per la parodia dei “Promessi Sposi” e Tullio Solenghi interpretò una donna Prassede rasata, stretta del busto, chiusa nella propria grettezza dalla gorgiera che, all’epoca, si chiamava sprezzantemente “lattuga”. Le streghe di Mugler “delle prefiche borghesi”, la cui magia viene attivata dall’esercizio della maldicenza, più che dalla negromanzia, combinano in un incredibile scontro semantico le insegne del perbenismo con i tratti vestimentari delle fuoricasta, delle reiette: Sotto il bustino delle brave massaie hanno le gonne bruciate dal fuoco, sopra il coletto pieghettato il capo rasato delle traditrici. Sulla spalla sono marchiate a fuoco, come le ladre, come Jeanne de Rémy de Valois, l’intrigante dello scandalo della collana. “Mi piace mescolare i clichés”, dice ancora Mugler, che negli anni ha esplorato “l’esplosione dei contrasti” sia nei suoi spettacoli per il Cirque du Soleil (“Zoomanity”, 2003), sia per il tour mondiale di Beyoncé nel 2009, “I am…”. Due anni fa, vestì le curve ipertrofiche di Kim Kardashian da sirena, gocce d’acqua ruscellanti sul corpo, per il Met Gala. Dice che gli “artisti non creano puntando a un obiettivo preciso”, pena il rischio di ripetersi. Settantenne palestratissimo nato a Strasburgo, da ragazzo avrebbe voluto fare il ballerino: arrivò a Parigi a caccia di un ingaggio. “Però tutti volevano i miei disegni (li vogliono tuttora: quelli che vedete in pagina sono il frutto di un accordo raggiunto con la Comédie Française che li centellina); mi sono avvicinato alla moda e così mi sono avvicinato alla moda, che negli anni Settanta era davvero uno strumento potentissimo. Ho capito allora che grazie a essa avrei potuto dare vita a spettacoli straordinari”.
Come tutti gli artisti, e anche molti designer meno liberi di lui che non osano dirlo, detesta il marketing: “Quando ha iniziato a guidare e a dirigere il mio lavoro, trasformandolo in un sistema, in un meccanismo, mi è parso evidente che fosse arrivato il momento di cambiare”. Può permetterselo, presumibilmente, grazie alle ricche royalties dei profumi. C’è una famiglia olfattiva, i “gourmand”, i golosi, che prende addirittura il nome dalla sua fragranza più famosa, Angel, la prima ad impiegare l’etilmaltolo, la molecola aromatica usata nella pasticceria: un profumo che trasforma le donne in invitanti bigné. “Non ho mai avuto limiti mentali ma, visto che gli uomini tendono a ingabbiare i propri sogni, sono sempre stato percepito come esterno al sistema della moda”. Certamente a quello degli Anni Novanta, che mirava a una crescita di massa e alla facilità d’uso della moda e dell’abito mentre Mugler scattava l’immagine di Claude Heidemeyer sdraiata sull’aquila del Chrysler building e no, non era un effetto speciale. Il sistema della moda di oggi, che ha differenziato il proprio approccio e persegue lo show biz, sta rivalutando non a caso Mugler: a Parigi ho visto studenti accoccolati a terra a disegnare i suoi abiti perché-le-foto-non-bastano-e-ci-vuole-l’interpretazione personale. Mugler avrebbe apprezzato: detesta il bla bla attorno alla moda. “Se devi spiegare un abito, quell’abito non funziona”.
Alla Scala