il foglio della moda - Pubblicità&Co

È iniziata l'era dell'autenticità a tutti i costi. Ecco come cambia la pubblicità

Facile dire “ciao maschio”, più difficile immaginare a cosa porterà la mutazione già in corso degli uomini e delle donne

Paolo Landi

Uno dice i social e Fedez con lo smalto, ma come facciamo con gli spot old macho degli amari e dei profumi degli stessi stilisti che sulle passerelle la raccontano in stile agender?

C’è stata l’epoca prima dei social, quando la pubblicità era uno dei termometri che davano conto delle variazioni di temperatura della società: l’ultimo libro che in Italia se la prendeva con l’advertising come veicolo di stereotipi uscì nel 2015, sette anni fa, a riprenderlo ora in mano sembra un reperto archeologico: lo aveva scritto Maria Nadotti, traduttrice e consulente editoriale, e lo aveva intitolato “Necrologhi” (Il Saggiatore).

 

Eppure l’occhio allenato di Nadotti aveva visto giusto perché, tra le donne nude con i tacchi a spillo che ancora in quegli anni pubblicizzavano qualunque cosa, avevano fatto capolino “maschi efebici” che giacevano distesi, “un po’ odalische, un po’ passione di Cristo”. Maria Nadotti aveva colto il vulnus della pubblicità, la sua antropofagia. La pubblicità si è sempre nutrita di corpi, perché consumare voleva dire sentirsi vivi; lei nell’eros vedeva tanathos e in quelle immagini ammiccanti, prorompenti di vita, scorgeva la morte dei corpi veri, degradati a feticci, strumenti per propagandare beni di consumo low cost. Dal 2015 in poi, con Facebook e Instagram ormai sdoganati ed entrati nell’uso comune, era iniziata la fase dell’esaltazione dell’autenticità, oggetto oggi di una disamina implacabile del sociologo Gilles Lipovetsky, che ha appena pubblicato “Le sacre de l’authenticité” (Gallimard, 2021, presentato in anteprima italiana al Foglio della Moda, in una lunga intervista pubblicata lo scorso novembre).

  

Prima, alcuni modelli venivano additati alle masse come la perfezione da raggiungere, quando accumulare merci garantiva la felicità e il sogno sembrava incarnarsi in corpi di seducente perfezione. Ora, in quest’era in accelerazione tecnologica, ogni giorno ne sappiamo un po’ di più sull’uomo e siamo in grado di tradurre gli stereotipi in forme espressive che vanno al di là di una conoscenza limitata ai luoghi comuni. Se prima una donna nuda che vendeva un aspirapolvere ci indignava, ma sopportavamo inerti la sciocchezza dell’”uomo che non deve chiedere mai” oggi la situazione si è rovesciata. Dopo il cowboy della Marlboro messo in crisi già nel 2006 dai due mandriani innamorati di Ang Lee nei “Segreti di Brokeback Mountains”, la figura del padre da imitare consegnata alle masse di milioni di follower è quella di Fedez, che tiene il biberon con cui nutre la figlioletta Vittoria con una mano dalle unghie smaltate multicolori.

  

Il fashion film brasiliano “Iara”, in concorso al Fashion Film Festival 

     

È iniziata l’era dell’autenticità a tutti i costi, l’uomo deve servire la tecnologia con una docilità profonda, e rispondere quindi all’imperativo social di essere se stesso con la medesima fedeltà servile con cui la donna accettava di essere rappresentata come madre, moglie e oggetto sessuale. Il consenso passa attraverso la consapevolezza personale e i modelli vincenti per milioni di follower sono le donne e gli uomini che si sono liberati dallo stigma patologico del “genere”, tanto che il transessualismo sarà oggetto probabile di una prossima serie su Netflix. Già invade Tik Tok con la potenza del trend, mentre cambiare il pronome o il genere sui documenti d’identità sarà presto nemmeno più un diritto da rivendicare, piuttosto una norma da applicare. Appare perciò sorpassata la pubblicità del profumo di due stilisti che, sulle reti della tv generalista in via di estinzione, mostra un macho a torso nudo come quello di una volta, accompagnato dalla musica testosteronica di Ennio Morricone.

 

L’era dell’autenticità integrata non è per niente scalfita dal “meglio di un uomo” come lo intendeva la vecchia pubblicità, che ha messo del tempo per mostrare in tv famiglie arcobaleno, ma alla fine si è dovuta piegare alla realtà: il genderfluid e il non-binario domina sui social e forgia generazioni di ragazzi, mentre il profumo di “c’era una volta il West” sarà annusato solo dal segmento anziano che ancora si informa con i tg delle 20. Una forma inedita di identità soggettiva si affaccia sulle piattaforme tecnologiche, quasi completamente emancipata dalle idee fisse di femminile e di maschile, concentrata su un sentimento di sé effimero, nomade, reversibile, anzi, “versatile” per usare la connotazione sessuale preferita dai nativi digitali. La prevalenza delle immagini narcisistiche nei social trasforma tutto in pubblicità, niente a che vedere con pratiche autoriflessive di tipo psicologico; ballando su Tik Tok, ognuno vende se stesso secondo la cultura della soddisfazione immediata, esporsi per vendersi, per seguire le istruzioni degli influencer baciati dal successo.

 

È ovvio che gli stereotipi della virilità tradizionale ne risultino bombardati ed è strano che il #metoo non si sia ancora accorto che, mentre è in atto sui social una femminilizzazione del maschio, si assista contemporaneamente al restauro dell'immagine di una donna molto vicina ai paradigmi arcaici. Un corpo modificato da filtri e artifici e addobbato secondo il conformismo social, taggato con brand commerciali e scaraventato dagli hashtag in aggregazioni tematiche politicamente scorrette, ricaccia la donna nell’universo androcentrico dal quale sembrava si fosse faticosamente affrancata. Maschi femminilizzati e femmine tornate ad interessarsi al piacere di sentirsi donne: sui social la pubblicità si estetizza nello spettacolo ostentato dell’inutilità.

 

Il consumismo nell’era pre-digitale aveva una finalità analogica: spingeva ad acquistare sempre più merci, perché solo nel possesso risiedeva la felicità. Ora la soddisfazione sta tutta nella virtuale possibilità di mostrarsi, una vita migliore può essere esibita senza che sia vera; quello che si vende non è nient’altro che un gioco estetico e decorativo e il paradosso è che questo estremo bisogno di individualità si accompagna in realtà a una inquietante dipendenza dagli sguardi degli altri. La pubblicità analogica, che ancora si vede sulle pagine delle riviste e sui cartelloni in affissione, è come oscurata da questa sovraesposizione dell’io digitale, che scompagina metodi e forme dell’interpretazione. Perché quello che conta e che dovremo imparare ad analizzare, sono i milioni di frammenti e di slogan che ci accompagnano nelle nostre second life, un lavoro più difficile, nell’era dei corpi che si vendono, dello scagliarsi contro chi usava un corpo per vendere.

 

Facile dire “ciao maschio”, e guardare con curiosità antropologica gli uomini che compaiono nelle pubblicità televisive dell’amaro Averna: più difficile immaginare a cosa porterà la mutazione già in corso degli uomini e delle donne, verificabile h24 sui social dei Ferragnez, che stanno allevando due figli, un maschio e una femmina, nell’amore nuovo di una intimità sovraesposta e nel volenteroso tentativo di essere (o sembrare) un padre e una madre diversi da quelli che hanno avuto loro.