Il Foglio della moda
Sono gli uomini, e non le donne, a guidare l'evoluzione nella moda
Ipotesi per una riscrittura dell’economia del sistema, del suo export ma anche della sua sfera di influenza culturale. Spoiler: la fluidità dello stile ha rafforzato di poco quella che è una tendenza immutata da cinquecento anni
Passano gli anni e le stagioni, si moltiplicano i mercati e le chance per l’export, le mamme imbiancano e i figli si femminilizzano, ma la sostanza è sempre la stessa: sono gli uomini, e non le donne, a guidare l’evoluzione nella moda. Durante il primo lockdown, sfidando metà dei colleghi maschi che non volevano crederci perché certi pregiudizi sono duri a morire ed è molto comodo crogiolarsi nella certezza che vanità e il desiderio di sfoggio siano peccati femminili, dedicai due settimane buone alla dimostrazione scientifico-economica del ruolo svolto dagli uomini e dal loro shopping nell’affermazione della moda d’alta gamma nell’ultimo secolo e principalmente del made in Italy. Il genere maschile, dopotutto, aveva goduto per millenni, e tuttora godeva, di una franchigia modaiola importante, suffragata da migliaia di dipinti, incisioni, diari, libri di casa che dimostravano come lo stesso avesse sempre amato abbigliarsi riccamente, testimoniando il proprio potere anche con accessori e dettagli di lusso. Le fonti hanno certificato sempre più spesso come, anche nei contesti meno benestanti, le prime spese di abbigliamento fossero destinate ai maschi, insieme con il boccone migliore: le ragazze, confinate fra quattro mura, potevano contentarsi degli zoccoli e delle zampe del pollo.
La medievista francese Odile Blanc, nella sua analisi “Parades et parures” (1999), ha portato per esempio a supporto della nascita del “corpo di moda” attorno alla figura maschile fatti storici incontrovertibili, a partire da una legislazione che, in buona parte dell’Europa fino a tutto il Cinquecento e non di rado anche oltre, assegnava al marito o al padre la scelta, l’acquisto e la proprietà delle vesti indossate dalla moglie e dalle figlie a meno che le stesse non venissero loro espressamente donate. Le donne, in sintesi, non erano le proprietarie del proprio guardaroba, al punto che lo stesso poteva essere impegnato al Monte di Pietà o essere venduto in caso di necessità.
Negli ultimi anni, alcuni storici inglesi hanno prodotto inoltre una serie di documenti cinquecenteschi di natura privata da cui si evince come fossero gli uomini, nei loro spostamenti per affari, ad acquistare in via pressoché esclusiva panni e gioielli per la famiglia. Per quale motivo, se l’impiego femminile è tutt’oggi ampiamente minoritario rispetto a quello maschile perfino in Europa, con il sud Italia addirittura all’ultimo posto nell’intero continente (32,2 per cento), il ruolo maschile come apripista di nuove tendenze e nuovi mercati avrebbe dovuto scemare dai tempi in cui alle donne era perfino impedito di fare le sarte?
In quella breve ma intensa battaglia di cifre e dati condotta nel 2020, coinvolsi l’ufficio studi di Camera Nazionale della Moda, di Smi-Sistema Moda Italia, la piattaforma Euromonitor e le prime grandi imprese italiane esportatrici di moda, a partire da Zegna. Ne venne fuori che avevo ragione: pur spendendo ancora in media un terzo in meno rispetto alle donne in abbigliamento, gli uomini guidavano nei nuovi mercati gli acquisti e l’affermazione dei marchi del lusso, a partire dai cosiddetti “beni personali” come gli orologi.
A dispetto della progressiva affermazione della cosiddetta “moda fluida” che andava affermandosi nell’Occidente democratico e nell’Oriente dei giovanissimi affluenti, cambiando un po’ il quadro generale (quando parliamo di inclusione e trasversalità, non teniamo mai conto di continuare a valutare il mondo solo dal nostro punto di vista: in via generale, verrebbe da dire che certe prese di posizione dei brand di moda in Italia o negli Usa non godano della stessa benevolenza in Russia o in Arabia Saudita e che per molti debba essere un bel problema dover adattare il proprio registro semantico a seconda della posizione ufficiale dei governi per continuare a vendere sneaker e borsette), gli uomini continuavano infatti a spendere per primi e di più. Erano insomma, e ancora, i “breadwinner”, i “porta-pane-a-casa”, e in senso lato i “portatori di novità” nel proprio entourage, avvalorando il celebre aforisma della macchietta cinematografica vanziniana, il commendator Zampetti: “Lavoro, guadagno, pago, pretendo”.
La ricerca della Camera Nazionale della Moda permetteva di ascrivere all’abbigliamento maschile, e non a quello femminile, l’affermazione del made in Italy a partire dagli Anni Cinquanta. Purtroppo, fare un paragone fra lo sviluppo dell’export maschile e femminile di moda alto di gamma italiana era, ed è, molto difficile perché, con rare eccezioni, nel 1967 i primi dieci brand di oggi per notorietà e fatturato erano agli albori della propria storia, oppure non erano ancora nati o attualmente non sono più in attività (è il caso, per esempio, delle Sorelle Fontana).
La fondazione della Giorgio Armani, che pure è stato determinante sia nell’affermazione del sistema moda italiano all’estero sia nell’evoluzione dei codici della moda maschile e femminile, data infatti 1975, mentre Fendi, che venne inaugurata nel 1925, avrebbe aperto la prima boutique all’estero, negli Stati Uniti, solo nell’ottobre del 1989 e in quel 1967 non aveva ancora differenziato la propria offerta oltre le pellicce, mentre Brioni era presente sulle grandi arterie di Manhattan fin dal 1952, quando la moda femminile italiana iniziava a sfilare nella Sala Bianca di Palazzo Pitti.
Solo Max Mara, fondata nel 1951, sembra smentire questa tendenza, avendo aperto la prima boutique in Cina ancora nel 1988. “Per quasi tre decenni, non c’è traccia di moda femminile nelle nostre esportazioni”, diceva il presidente della Camera Nazionale della Moda, Carlo Capasa, sottolineando come il vero cambio di passo, quasi un’equiparazione fra il mercato del tessile-moda maschile e femminili, non arrivi prima del nuovo millennio e grazie alla progressiva diversificazione dell’abbigliamento maschile dal formale al casual e lo streetwear, un dato peraltro sottolineato anche da una ricerca condotta da Dockers, il marchio del gruppo Levi’s che trent’anni fa inventò il “casual Friday”, in Francia, Spagna, Gran Bretagna e Turchia.
Chi viaggia e lavora di più detta lo stile. E non sono le donne
Euromonitor segnalava invece negli ultimi anni tassi di crescita maggiori nel consumo maschile di moda rispetto a quello femminile, sulla spinta di un’offerta più ampia, fluida, meno formale, più adeguata a nuovi modelli di vita e di comportamento maschile. Comunque la si mettesse, nel mondo gli uomini continuavano a viaggiare di più, a lavorare di più fuori casa, dunque a dover “apparire” per primi. Tre anni dopo quella fotografia, a causa della pandemia i ragazzi viaggiano molto di meno, acquistano di più online o entro i confini del proprio paese, ma sul fronte acquisti di moda la situazione non è cambiata granché, se non per una progressiva femminilizzazione o uniformità genderless delle proposte fra le fasce più giovani e un rafforzamento degli acquisti maschili fra quelle più mature.
Lo scorso novembre, Confindustria Moda segnalava come l’export di moda maschile fosse aumentato del 16,4 per cento nei primi nove mesi dell’anno, a 3,8 miliardi di euro (con i mercati extra Ue cresciuti al 54,9 per cento, la Cina addirittura dell’81,3 per cento), mentre l’esportazione di moda femminile nel primo semestre, dunque a dati purtroppo non comparabili ma comunque significativi, era aumentata del 27,6 per cento a 4,3 miliardi, con una crescita vicina al cento per cento per la Cina. La distanza da quel rapporto “uno a tre” di pochi anni fa si andava assottigliando a favore degli uomini. Le grandi tendenze dell’anno erano invece state focalizzate dalla piattaforma Lyst, e indicavano fra le macro-tendenze dell’anno appena trascorso la ricerca sui social delle gonne da uomo (+138 per cento quella di Louis Vuitton: Signore, quanto sono ignoranti questi ragazzi a ritenersi tanto trasgressivi per l’uso di un capo di abbigliamento che, Occidente a parte, è prassi comune in molte altre civiltà da qualche millennio) e delle collane di perle per uso maschile (Vermeer, Rembrandt, il primo Duca di Buckingham ritrsatto da Van Miereveld con quel ruscellare di molluschi sulla corazza, perfino il capitano Cook tre secoli prima di Harry Styles e A$ap Rocky: gli stessi ragazzi andrebbero portati nei musei un po’ più spesso, avere ridotto le ore di studio della Storia dell’Arte è stata una scemenza).
A Pitti Uomo e Milano Moda Uomo, in corso in questi giorni, vanno configurandosi le tendenze per il prossimo inverno, e sia il numero uno della kermesse fiorentina Raffaello Napoleone, sia il presidente di Camera Moda Carlo Capasa, dichiarano al Foglio della Moda che i confini fra la moda maschile e quella femminile vanno facendosi sempre più fluidi, non tanto e non solo per una questione ideologica, quanto per la maggiore incidenza di accessori come sneakers, sacche o borse unisex (le tote bag) fra gli acquisti dei giovani. “Le influenze, ormai, sono sempre più trasversali, e toccano diversi campi, dalla moda alla musica, basta vedere il fenomeno dei Maneskin”, dice oggi Capasa: “Continua a essere una forte componente tradizionale, ma la moda è fatta dalle avanguardie”.
Aumentano dunque le cosiddette proposte genderless, dominate da capispalla, tute e t shirt, ma sono gli accessori a guidare l’evoluzione de-sessualizzata della moda. Almeno fra i clienti più giovani. Fra quelli, generalmente più adulti, della couture, le cose vanno diversamente, come sottolinea il responsabile internazionale di CNA Antonio Franceschini: “Sulla produzione personalizzata, la couture, l’uomo continua ad essere il leader”, dice, conscio come, per molte delle piccole sartorie che aderiscono all’associazione, i trunk show organizzati all’estero rappresentino la prima, se non l’unica, possibilità di farsi conoscere, esibendo tagli di stoffe e stili con la stessa cura dei sarti di trecento anni fa. Si tratta, ovviamente, di sistemi distributivi e di comunicazione molto diversi rispetto a chi, come ha fatto perfino il multistore romano Dan John, investe in novemila metri quadrati di terreno virtuale nel Metaverso, in attesa di lanciare eventi e collezioni virtuali NFT per il proprio avatar, ma che parlano sempre e innanzitutto al maschile.