Il foglio della moda - Previsioni
Il globale non è più sexy. Parola di McKinsey
“Si è creato un gap temporale tra fabbrica e mercato a cui gli imprenditori stanno cercando di reagire, consapevoli che la principale sfida sarà la logistica", dice Emanuele Pedrotti, partner e responsabile dell’Apparel, Fashion&Luxury per il Mediterraneo della società di consulenza
I colli di bottiglia creati dalla pandemia nelle catene mondiali di approvvigionamento stanno cambiando anche i tempi dell’industria della moda. I ritmi delle consegne sono rallentati dalle navi-container che, per caricare merci nei luoghi di produzione, perlopiù l’Asia, e navigare fino ai luoghi di consumo, principalmente Europa e Stati Uniti, da ormai due anni impiegano il doppio del tempo. Un andamento lento che svuota gli scaffali, fa aumentare i prezzi e riempie i magazzini di merci fuori stagione.
Se ne sono accorti anche gli influencer. Pochi giorni fa Chiara Ferragni, sulla quale si stanno peraltro appuntando nuovamente gli occhi delle società di private equity, ha annunciato che la sua “Collection” comunicherà d’ora in poi news e immagini di prodotto solo quando questo sarà disponibile nei negozi “perché chi lo acquista possa entrare subito a far parte di questo mondo”. Più che di un’innovazione, si tratta di un ritorno all’antico (in questi termini si comunicava agli albori della moda pronta, quasi un secolo fa, e la stampa sottoscriveva l’impegno a non rivelare nulla fino alla consegna delle collezioni di stagione nei negozi), però la sua ri-adozione dimostra che lo scollamento temporale fra produzione e mercato deve chiudersi. In un’epoca dove tutto corre veloce, e tutto viene subito trasmesso online, può infatti risultare frustrante aspettare mesi per possedere un abito che non ha più lo stesso senso rispetto a quando lo si è visto e ordinato. Ma se tutto questo non fosse un male e si rivelasse, invece, l’occasione per far tornare le produzioni vicino ai luoghi di consumo? Quella che fino a poco fa sembrava un’ipotesi sta diventando sempre più una prospettiva concreta, come emerge da questa chiacchierata del Foglio della Moda con McKinsey.
Non bisogna dimenticare che dieci dei primi venti “super winner” del settore moda e lusso hanno origini europee e che quindi, dal punto di vista dell’offerta, il Vecchio Continente rimane una solida base e un motore creativo per l’intera industria. E lo dimostrano i risultati di Lvmh di Bernard Arnault, che ha archiviato il 2021 con un record di fatturato a 64,2 miliardi di euro, in crescita del 44 per cento rispetto al 2020 e del 20 per cento rispetto al 2019. “Alcune aziende stanno pensando seriamente a come rendere più flessibili i processi produttivi per mantenere i prodotti in linea con la domanda dei clienti”, dice Emanuele Pedrotti, partner e responsabile dell’Apparel, Fashion&Luxury per il Mediterraneo di McKinsey. “Si è creato un gap temporale tra fabbrica e mercato a cui gli imprenditori stanno cercando di reagire, consapevoli del fatto che la principale sfida da superare quest’anno sarà quella della logistica perché i blocchi persisteranno forse fino al 2023, andando a pesare sui margini di profitto”.
A livello globale, circa la metà delle aziende ha sofferto a causa delle interruzioni della catena di approvvigionamento (una su otto ne è stata colpita gravemente), mentre il 67 per cento di prevede di aumentare i prezzi il prossimo anno, a causa appunto della supply chain, che rischia di mettere a rischio il ritmo della ripresa. Per capire la portata del fenomeno, basta ricordare le immagini delle navi in coda nel porto di Los Angeles, o le strozzature nel canale di Suez. Dopo anni, all’improvviso è apparso tutto chiaro: un processo produttivo eccessivamente globalizzato è fragile. “Le navi che durante il periodo più acuto della pandemia erano rimaste completamente ferme e vuote nei porti europei, con il recupero della domanda sono ripartite tutte insieme per andare a caricare le merci nelle regioni asiatiche e consegnarle negli scali di smistamento, causandone il congestionamento”, prosegue Pedrotti. “In più, la carenza di materie prime come l’energia e il cotone ha contribuito a dilatare il tempo che passa tra un ordine e la sua posa sullo scaffale”. Esempio: “Per produrre una t-shirt occorrono 10-15 minuti, ma se già prima servivano mesi per farla arrivare sui mercati, adesso i tempi sono raddoppiati”.
Da qui nasce l’idea di un cambio di strategia soprattutto da parte delle imprese occidentali che essendo più lontane dai luoghi di produzione rischiano di perdere il controllo dei tempi del processo e di andare in corto circuito. I conti sono presto fatti: mediamente (e nonostante gli apparenti rinnovi ogni quindici giorni), una collezione resta in vetrina per sei mesi, pari a centottanta giorni. Per smaltirla tutta occorre vendere poco meno dell’1 per cento al giorno; ma se l’azienda ha perso un mese per aspettare la merce, avrà accumulato in magazzino scorte pari al 20 per cento. Questo genera non solo un’inefficienza del singolo produttore, ma aggrava i problemi di sostenibilità ambientale dell’intero settore tessile che, da solo, è responsabile del 6 per cento delle emissioni globali di C02. Bisognerebbe trovare un modo per esaurire tutte queste scorte considerando che le norme in Europa sono state rese più rigide (in Francia, per esempio, da qualche anno è vietato bruciare le rimanenze). “Per riportare le tempistiche sotto controllo si sta ragionando su come riaccendere i processi produttivi che da decenni sono stati delocalizzati dai paesi occidentali nelle regioni a basso costo di manodopera, un po’ com’è successo con le mascherine di cui ci siamo scoperti completamente sprovvisti quand’è scoppiato il Covid. Questo farebbe ripartire consistenti investimenti in impianti manifatturieri e farebbe aumentare l’occupazione”, dice il partner di Mckinsey.
Ma è un passo accessibile per tutti? “Il ripensamento della catena globale del valore è cominciato già prima della pandemia perché la guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina e la spinta alla transizione ecologica avevano reso meno conveniente per alcuni settori manifatturieri avere gli impianti dall’altra parte del mondo. A fronte di quanto è successo con la pandemia, anche le case di moda potrebbero considerare più vantaggioso riprendere il controllo del ciclo produttivo facendo leva sulle nuove tecnologie e sulle opportunità offerte dal mondo digitale. Vedremo soprattutto robot-sarti, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale e l’uso di strumenti analitici per implementare nuovi tipi di processi che consentano un mix equilibrato tra impiego di capitali e intensità di lavoro. Ma soprattutto potrebbe essere superato il problema delle rimanenze e del loro impatto sull’ambiente grazie alla capacità di soddisfare in tempo reale gli ordini che sempre di più arriveranno via internet”.
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