Il foglio della moda
L'eredità difficile delle grandi dive. La riflessione con Maurizio Galante
C’era un tempo in cui le gran signore ordinavano un capo in base al suo fruscìo, per l’effetto. Oggi vogliono che sia instagrammabile
Nel 2020, un ironico destino ha ordito una trappola contro Andrew Bolton, curatore del Costume Institute al MET di New York, che ogni anno sceglie il tema della mostra da cui prende origine anche il celeberrimo Met Ball, il gran ballo inaugurale organizzato da Anna Wintour che, ahinoi, ormai pare più adatto al gossip - “ma come s’è conciata?” – che allo standing sociologico a cui aspira. Nell’anno in cui il tempo si è fermato, Bolton ha scelto di intitolare la mostra Fashion and Duration, per esplorare come gli abiti generino associazioni che confondono passato, presente e futuro (da maggio è stata poi rimandata a novembre, ma in modalità molto sottotono). Punto di partenza: l’utilizzo del concetto di durée concepito dal filosofo Henri Bergson, secondo il quale “la durata è la stoffa stessa della realtà”, idea che fece storcere il naso agli storici e a chi confidava nelle magnifiche sorti e progressive: detestarono l’idea di una temporalità interiore, impossibile da misurare, in cui tutto si sovrappone nella liquidità della coscienza e non svanisce nel nulla, ma si accumula ed è indivisibile. Poteva andare storto agli intellò dell’epoca, ma è una definizione perfetta per quell’espressione della creatività umana che, con il tempo, forse intrattiene la relazione più controversa: la moda. Da cui, chiacchierata necessaria con chi, in questo tempo bergsoniano, sincretico, si muove con abilità massima e grazia schiva, Maurizio Galante.
A Milano, dal 22 al 27 febbraio, a Palazzo Crivelli verranno venduti in un’asta organizzata da Il Ponte gli abiti più importanti e scenografici del guardaroba di Valentina Cortese: molti di questi, come un’incredibile stola di rondini in seta «piccolissime, cucite a mano una per una, così da suggerire uno stormo in volo quando la toglieva» sono appunto di Galante, couturier ormai naturalizzato parigino. È forse meno noto in patria che in Francia dove, al contrario, è così amato da essere stato insignito del cavalierato de l’Ordre des Arts et des Lettres dal ministero della cultura per il contributo all’industria della moda d’Oltralpe. Ma Galante lavora a tempo pieno anche come designer: da poco, per esempio, ha finito di allestire il bookshop del Musée Carnevalet, wunderkammer cittadina che contiene la camera da letto di Marcel Proust, il ritratto di Madame de Sévigné di Claude Lefèbvre, la gioielleria Fouquet progettata da Alfonse Mucha, la prima dichiarazione dei diritti dell’uomo.
Ha realizzato gli interni del primo hotel fluttuante sulla Senna, l’Off Hotel, così come del primo ristorante galleggiante di Alain Ducasse. “Questa trasversalità di interessi mi mette di fronte a una relazione diversa con la dimensione temporale: se un abito, anche prezioso e amatissimo, comunque si toglie, una poltrona, una lampada o un elemento d’arredo hanno vite più durevoli, dunque sono progettate con uno spirito diverso”. Ma che senso ha, davvero, avere ancora un atelier per la couture? “Di sicuro è più in linea con la mia sensibilità, sebbene debba ammettere che le clienti sono molto cambiate. Un tempo arrivavano da me signore che, per prima cosa, chiedevano come fosse la voce di un tessuto. Sì, la voce: ogni tessuto ne ha una e quelle clienti sapevano che, a seconda dell’entrata che avrebbero voluto fare a una grande soirée, tutto partiva dall’aspetto sonoro delle loro mise. Per esempio, con Valentina Cortese, si partiva da una sua emozione che, insieme traducevamo in un colore, in taglio, in una materia che corrispondesse a un determinato gesto. Erano donne che interpretavano gli abiti, non come oggi, in cui gli abiti interpretano le donne. Oggi sono interessate a un abito che sia bello, ma soprattutto instagrammabile. Ma non sono né un nostalgico né un passatista: semplicemente i linguaggi cambiano e a ogni passaggio inevitabilmente si perdono delle cose ma se ne acquistano altre: a me, per esempio, diverte la freschezza, anche una certa incoscienza nel portare gli abiti che fino a trenta, quarant’anni fa, non c’era”. Ripeto: oggi, qual è il senso? “Mi lasci finire. Sto cominciando a collaborare con il ministero della cultura dell’Arabia Saudita per non perdere le tradizioni di lavorazioni tessili che altrimenti andrebbero dimenticate: ho già fatto lavorare ricamatrici nordafricane per dare loro un lavoro, ora cerco di impiegare le donne degli emirati per far sì che non perdano l’uso di un punto che si usava per cucire le tende, che si chiama “padu”. Anche questo è una relazione con il tempo perché se è vero che, in generale, viviamo in un’epoca dove tutti i piani storici s’intersecano, è anche vero che, con il tempo, tutta una grande sapienza popolare rischia di estinguersi”. Cosa unisce il suo lavoro, quando disegna un oggetto rispetto a un abito? “Alla fine, si tratta di far fare delle esperienze, sia con un vestito o, per esempio, un piatto: quando sono diventato, a un certo punto, responsabile della sede commerciale e del ristorante del museo d’arte moderna di Lussemburgo, ho chiesto a Gaetano Pesce di progettare un sandwich, ho commissionato un flan a Yayoi Kusama, un plissé di cioccolato a Roberto Capucci e a Missoni un gomitolo di fili colorati di zucchero. E anche quella è stata una delle più grandi soddisfazioni della mia carriera. La sartoria, la gastronomia, il design: tutto deve raccontare una storia, possibilmente la nostra. E chi se ne importa della funzionalità: nessuno ha più “bisogni”, ma tutti abbiamo desideri”.
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