La moda è sempre costretta a giustificare la propria esistenza
Armani, Gvasalia, Valentino: bene che si dissocino ad alta voce dalla guerra, ma domandatevi perché non chiediamo a ogni altro settore industriale lo stesso, continuo, autodafé
“Rispondiamo a questo momento nel solo modo che conosciamo: lavorando”, annuncia attraverso gli altoparlanti alla platea seduta al Carreau du Temple di Parigi il direttore creativo di Valentino, Pierpaolo Piccioli, prima di far uscire la prima modella di una splendida, rigorosissima collezione inverno totalmente rosa acceso, fucsia: colore dell’energia, della voglia di vivere, dell’amore gioioso. “Abbiamo scelto di non farci paralizzare dalla paura della guerra, tenendo sempre a mente che il privilegio della nostra libertà oggi è più grande che mai”.
Poche ore prima, un creativo che ha conosciuto davvero la guerra, Demna Gvasalia di Balenciaga, georgiano, aveva fatto sfilare l’ultima modella con un abito “blu Ucraina” al termine di uno show battuto dal vento e dalla neve (“questa sfilata non ha bisogno di spiegazione. È dedicata al coraggio, alla resistenza, alla vittoria dell’amore e della pace”).
Una settimana fa, Giorgio Armani aveva mostrato a Milano la propria collezione in silenzio, in omaggio alle prime vittime di una guerra che, purtroppo, ne conta a centinaia di nuove ogni giorno. Bene ha fatto Piccioli a dichiarare - certo un po’ genericamente ma che cosa avrebbe potuto dire in alternativa - che “l’amore è la sola risposta”, e che la moda è unitarietà di intenti e dunque espressione d’amore. Benissimo ha fatto Armani, che ha vissuto in prima persona un conflitto mondiale, a scegliere la strada carica di significato del silenzio. Bene hanno fatto tutti. Ma forse vi sarete accorti che in questi ultimi dieci giorni nessun altro settore industriale ha sentito il bisogno, tanto meno il dovere, di dover giustificare il proprio lavoro davanti alla platea internazionale. Di dover sostenere la propria volontà di mostrare il risultato di sei mesi di attività e di voler continuare a produrre nonostante una guerra in corso in Europa. Di dare ancora lavoro a migliaia di persone a prescindere dai bombardamenti dei russi in Ucraina. Ma a nessun altro comparto industriale, nemmeno a quello della cosmetica, il mondo chiede di giustificare la propria esistenza continuando a flagellarsi. Alla moda, che sconta le proprie pene dal 456 avanti Cristo, anno di emanazione delle prime leggi contro il lusso, e che in occidente è passata sotto le forche caudine della morale cattolica contro lo sfarzo che la stessa chiesa cattolica non si preoccupava invece di mostrare, si richiede invece un autodafé continuo. È pur vero che nessun altro settore industriale, e nemmeno culturale, sviluppa un rapporto altrettanto stretto con la personalità di ciascuno e interagisce allo stesso modo con la percezione e l’evoluzione della società attraverso simboli e feticci, ma i dubbi che tutti si pongono in queste settimane sull’opportunità o meno di parlare e scrivere delle sfilate in corso nel mondo dimostra che moda e società occidentale non sono ancora venuti a patti l’una con l’altra.
L’altro giorno parlavo via Zoom con un’industria del food italiano che ha fabbriche nell’est europeo, e ho chiesto se stessero pianificando degli aiuti, l’invio di derrate in Polonia, per esempio, a favore dei profughi. Sguardi stupiti, silenzio totale. Eppure, hanno fatto del calore umano una delle chiavi della loro comunicazione e del loro successo. La moda internazionale, quella tanto divisiva ed escludente, si è invece subito messa a disposizione. Come tutti, anzi prima di tutti, ha fatto donazioni, inviato aiuti, devoluto cifre importanti a favore della Croce Rossa o dell’UNHCR: Armani, Kering, OTB hanno stanziato milioni di euro accanto a Intesa Sanpaolo, Pirelli, Amplifon, al gruppo Angelini che ha donato centinaia di migliaia di medicinali e Coldiretti con le sue quattro tonnellate di cibo. I grandi brand, con poche eccezioni, hanno annunciato di aver interrotto i rapporti e le consegne sul suolo russo; lo stesso stanno facendo anche grandi catene del largo consumo e i giganti dell’hi tech benché sia probabile, vogliamo essere onesti, che le difficoltà logistiche del momento giochino un ruolo significativo nella decisione di tutti di sospendere gli affari con la Russia e siano state abilmente reinterpretate e diffuse con una narrativa positiva e “pagante” almeno sul piano dell’immagine.
Due giorni fa, una trasmissione radiofonica nazionale ha annunciato l’intervista a una stilista ucraina a cui avevano bombardando la casa mentre sfilava a Milano e a me con un garrulo riferimento al “settore della frivolezza”. Sì, forse il mondo non avrà bisogno di nuovi vestiti e, come notava Natalia Aspesi in un suo commento per Repubblica domenica, nel momento in cui un’umanità a noi vicina si trova ricondotta alla propria essenza primitiva, nascita-morte, maschi addestrati per uccidere-femmine abili alla cura, e anche noi ci poniamo domande sul senso e sul modo del nostro vivere, inizia a trovare fuori luogo i cicalecci sul genere, sulla schwa e su tutti i nostri distinguo di società ricca, pigra e, come osservano genericamente tutti i non occidentali da anni, corrotta (“la guerra, nel sangue, obbliga a una tregua dalla smania di catalogazione, dal chiacchiericcio senza soluzione, a un ritorno, si spera molto breve, all'essenziale”). Sì, il nostro modo di vivere litigioso e incattivito ci sta sfuggendo di mano. Ma il nostro modo di vivere sta cercando falsi capri espiatori. Questa stessa società che fino a ieri sfilava a suon di musica, come musica si trova ancora e per fortuna nei teatri e nel bar sotto casa, non ha bisogno di nuovi vestiti e di nuove cattedrali del consumo, ma non ha nemmeno bisogno di nuove auto (anzi) o di nuovi arredi per la casa, di nuovi cosmetici, dolci al cioccolato e di un soggiorno alla spa. Non ha bisogno quasi di nulla se non del pane e dell’energia per farlo, oltre che di un tetto sopra la testa e della possibilità di conservarlo integro. Ma non per questo chiediamo a tutti i settori dell’industria del bello di intervenire in prima persona ogni giorno contro i mali del mondo.
Alla Scala