il foglio del weekend
Dal lusso all'arte. Il Metaverso di Dior è a Parigi, ed è tutt'altro che virtuale
Un complesso di diecimila metri quadrati al 30 di Avenue Montaigne che accorpa la tradizione, la storia, l’attualità, e il futuro della maison. A colloquio con il ceo Pietro Beccari
Insieme con gli arredi di Leproust e di Eames e con un grande dipinto di Joe Bradley esposto all’entrata, la Suite Dior di 30 Avenue Montaigne conserva un Renoir appartenuto al fondatore che, prima di cambiare lo stile e i desideri di moda delle donne avide di bellezza e di sogno dopo gli orrori della Seconda guerra mondiale era stato un entusiasta, acutissimo e sfortunato gallerista d’arte. L’appartamento privato, affacciato su un giardino pensile di rose e meli in onore della Normandia di origine di Christian Dior, rivestito di legno d’acero, mica, onice, a tratti di pelli e piume, che l’architetto Peter Marino ha composto su una tavolozza di colori legati alla storia della maison come il grigio argento e il beige, è prenotabile per una notte e infatti è già molto prenotato anche per l’anno prossimo da clienti che provengono dalla Germania, dagli Stati Uniti, dal Ghana come dall’Egitto (una coppia di Dusseldorf ha scelto di trascorrervi l’anniversario di matrimonio). Nella più eccentrica e lussuosa delle possibili “notti al museo” del mondo, offre insieme con sei assistenti, cuoco compreso, le chiavi d’accesso al complesso di diecimila metri quadrati al 30 di Avenue Montaigne che, fra boutique, museo, gioielleria, ristoranti, archivio, atelier di sartoria e di gioielleria per la prima volta riuniti, accorpa la tradizione, la storia, l’attualità, e certamente il futuro della maison fondata nel 1946 da Christian Dior.
E’ anche la pietra miliare dei primi quattro anni di gestione di Pietro Beccari come amministratore delegato. Ne parliamo nel suo ufficio al 127 degli Champs Elysées: un divano grigio a isola, qualche poltrona di design, appoggiata sul muro una grande tela dell’artista ghanese Amoako Boafo, collaboratore del direttore creativo di Dior Homme, Kim Jones, per la collezione primavera-estate in corso, acquistata per folgorazione e in attesa di essere trasferita in uno chalet in costruzione in Val Gardena. Dal lusso non è possibile recedere, e Beccari ne è la prova vivente. Alla metà dei primi anni Duemila, questo calciatore mancato, nato e laureato a Parma, era direttore generale di Henkel. Giovane, sposato con la fidanzata di sempre, Elisabetta, tre figlie. Dopo i primi colloqui in Lvmh, Yves Carcelle, l’amministratore delegato di Louis Vuitton di grande visione scomparso nel 2014, lo convinse ad accettare la posizione di vicepresidente esecutivo marketing e comunicazione del brand, che significava cambiare vita, abitudini, città, con la seduzione del lusso: “Disse che scegliere questa strada avrebbe modificato il mio saper vivere e il mio gusto, e aveva ragione. Negli anni mi sono arrivate tante offerte per posizioni di vertice di grandi aziende del mass market, ho sempre rifiutato: solo nel lusso sei a contatto con direttori creativi interessanti, con artisti, con grandi designer. La moda non è abbigliamento, è cultura”.
Christian Dior fu tra i primi a sostenerlo, con tenacia. Educato al bello e al gusto per i fiori e i giardini da una famiglia di grandi mezzi poi andata fallita, per avviare la propria attività aveva scelto nel 1946 un hotel particulier in una strada che, per secoli, aveva ospitato grandi distese di verzure e maison un po’ louches. Fino alla fine del Settecento, l’avenue Montaigne aveva infatti fama sinistra e si chiamava l’Allée des veuves, il viale delle vedove: sarebbe diventata residenziale e chic con l’Esposizione universale. Il palazzo all’angolo di rue François 1er, fatto costruire nel 1865 dal conte Walewski, figlio naturale di Napoleone I e di Maria Walewska, doveva avergli trasmesso quelle vibrazioni che per lui, soggiogato per tutta la propria esistenza dalle premonizioni e dall’arte divinatoria, erano indispensabili. “Mi sarei stabilito qui e da nessun’altra parte”, scrive infatti nelle sue memorie. Gli permise di farlo il generoso contributo dell’industriale tessile Maurice Boussac che, dopo le ristrettezze della guerra, doveva riportare in auge il desiderio di stoffe sontuose e quel giovane era in grado di metterne fino a quindici metri in una sola gonna. Dior avrebbe concluso la sua straordinaria carriera e la sua vita in dieci anni, dal 1947 del “New Look” a un disgraziato soggiorno a Montecatini nell’agosto del 1957 che la sua veggente gli aveva sconsigliato di fare. Lo trovarono morto per un attacco di cuore nella sua stanza. Da allora, nel palazzo parigino si sono susseguiti sei direttori creativi, da Yves Saint Laurent a Marc Bohan a Gianfranco Ferré, il primo dell’èra Arnault, quindi John Galliano, Raf Simons e Maria Grazia Chiuri dal 2016. Beccari ci arrivò nel 2018, chiamato a Parigi dopo il successo del rilancio di Fendi dal patron “che è molto diverso dall’immagine del professore di matematica e del finanziere agguerrito che ne avete voi giornalisti” e che “no, non mi ha mai chiesto quanto avrei speso per questa impresa: gliel’ho detto io l’altra sera a cena, dopo l’apertura”. Percorse i sette piani dalle cantine alla terrazza.
L’idea di fare della boutique e del museo un percorso unico, in una percezione sincretica fra passato e futuro, a Beccari venne entrando appunto nella “cabine” di prova che ora si può vedere dall’alto, camminando sopra un pavimento di vetro, in una sorta di tuffo alla Lewis Carroll in un mondo parallelo: “Era diventata un deposito, piena di cartoni: gli uffici erano tanti, stretti, vi finivano le cose dimenticate. Ma lì pulsava ancora il cuore di Dior ed era un peccato non dirlo, non farlo vedere. Abbiamo dei filmati degli anni Cinquanta che testimoniano la storia di quelle stanze”.
Si va a visitarle, entrando dalla rue François 1er. I film sono in mostra lungo la Galérie Dior, il percorso museale studiato da Nathelie Crinière che comprende la ricostruzione dell’ufficio del couturier. Ai francesi piace mettere in mostra scrivanie e uffici. Quella di Balzac, a un chilometro di distanza, è meta quotidiana di folle adoranti. Di fronte alla scrivania Terzo Impero di Dior, i visitatori sostano almeno quanto davanti agli abiti da ballo in mostra nel salone, sotto la volta delle costellazioni, forse qualche minuto in più. “Abbiamo restaurato anche il salone dove Dior riceveva gli amici al termine del défilé”, racconta Beccari, e “una salle à manger che può accogliere fino a dieci persone. Puoi entrare negli atelier, visitare gli archivi da solo: il non plus ultra del lusso”. Sorride. “Quando abbiamo deciso di intraprendere questa avventura, la maison non aveva il potere economico di oggi. C’è chi dice che abbiamo triplicato, chi dice quadruplicato il fatturato (il bilancio del gruppo Lvmh non è diviso per brand ma per métier, cioè per settori, benché analisi private sostengano che il marchio sia passato dai 3 miliardi di euro del 2017 ai 5,8 miliardi dell’anno scorso, con previsioni di crescita fino a 7 per l’anno in corso, grazie al traino di paesi a grande crescita come, per esempio, la Thailandia, ndr), ma in quattro anni ne abbiamo fatta di strada. Quando sono andato dal signor Arnault e gli ho detto che per mettere in atto il mio progetto avrei dovuto chiudere la boutique numero uno al mondo, spostare gli atelier che non erano stati mossi di un millimetro dal 1947, così come i saloni della haute couture, e che avremmo dovuto dislocare per anni quattrocento persone non sapevo bene dove, avrei potuto sentirmi dire di no. Adesso, tanti mi chiedono se replicherò questo modello altrove. La risposta è no. Qui senti la presenza di Dior nei muri; qui hai questo dono dell’autenticità, della credibilità che oggi, epoca di social, è fondamentale. Con l’autenticità, diceva, puoi creare delle emozioni anche senza volerlo”. E’ incredibile come la storia tenda a ripetersi e nella città che nei primi decenni dell’Ottocento lanciò le grandi superfici commerciali della moda e del commercio di lusso, dal Bon Marché di Aristide Boucicaut che ispirò a Emile Zola “Il paradiso delle signore” alla Samaritaine che oggi è un’altra delle grandi scommesse di Arnault, oggi risorga, in epoca di e-commerce e di seduzione del Metaverso, un palazzo di esperienze sensoriali, cioè reali, e di rifugio discreto dal traffico della grande arteria commerciale parigina degli Champs Elysées. Come il Bon Marché, con le sue sale di lettura e per il tè, rappresentò il primo “porto sicuro” per le signore che nel XIX secolo volevano incontrarsi fuori casa e non potevano farlo nei caffè o tantomeno nei cabaret raffigurati da Degas, questo indirizzo di avenue Montaigne, con il suo giardino d’inverno e la patisserie immersa fra mughetti e narcisi bianchi, evoca la funzione primaria di questa forma di commercio, che non è di vendere ma di intrattenere: “Insomma, ho realizzato l’anti-metaverso”, osserva ridendo. “In realtà, sto esplorando in questi giorni, con un gruppo di specialisti di Los Angeles, anche questa dimensione. Credo che in futuro potremo scegliere capi e accessori attraverso il nostro avatar e che il Metaverso sarà una declinazione interessante dell’ecommerce; nulla, però, potrà sostituirsi all’emozione dell’esperienza reale”. Al primo piano della boutique dove ti invitano ad ammirare l’installazione di Paul Cocksedge che sembra fluttuare nell’aria come fogli di schizzi e figurini lanciati da un creativo impaziente e la rosa di Isa Genzken attorno a cui si snoda la grande scala, si apre il ristorante governato da Jean Imbert. Perché potessi provarlo, si è reso necessario l’intervento della direzione comunicazione. Mentre a duemila chilometri di distanza infuria la seconda guerra che l’Europa abbia conosciuto negli ultimi settant’anni dopo il Kosovo, in avenue Montaigne l’unica battaglia in corso è quella, discretissima, per assicurarsi il posto migliore in un ristorante dove la lista d’attesa è già di parecchie settimane. Aver inaugurato 30 Avenue Montaigne adesso è una bella scommessa, un azzardo anche di immagine.
La guerra in Ucraina è il grosso elefante che ci guarda nell’atrio grandioso. Ma Beccari, che dall’esperienza nel calcio ha conservato la consapevolezza dell’azione necessaria, cioè che dalla mischia non ci si sottrae andando a nascondersi, dice che l’inazione sarebbe la scelta peggiore. “Il mio pensiero va ai nostri dipendenti in Ucraina, dieci, che sono ancora a Kyiv: li avremmo anche portati via e assunti qui ma sono voluti restare; sono ragazze che hanno famiglia, con mariti chiamati alle armi. Abbiamo chiuso sine die anche i nostri negozi in Russia, quattro, continuiamo a pagare tutti. Sono momenti difficili, ma la nostra è un’industria è importantissima, per la Francia come per l’Italia, e va difesa. Solo in Dior abbiamo 10 mila dipendenti”.
Lvmh, nel mondo, ne ha attualmente 200 mila e, considerando la velocità con cui tutti i marchi del gruppo continuano a cercare nuovi affari (Beccari sta guardando a nuove possibili acquisizioni di atelier in Italia e Dior aprirà a fine anno un grande centro logistico nei pressi di Padova, disegnato dallo stesso Marco Costanzi che nel 2015 restaurò e riallestì gli spazi del Colosseo Quadrato per ospitare gli uffici di Fendi), potrebbero velocemente aumentare. Dallo scoppio della guerra, ma in buona sostanza in ogni momento drammatico della storia del mondo dai tempi di Catone, alla moda viene infatti chiesta una giustificazione della propria esistenza che viene invece risparmiata a qualunque altro settore produttivo. Negli stessi giorni in cui i brand sottoscrivevano donazioni milionarie a favore dell’Ucraina, e nel centro di Parigi gli stilisti si interrogavano sull’opportunità di condannare pubblicamente il conflitto e di inserire nelle proprie sfilate accenni all’orrore, alle porte della città sfilavano sui circuiti auto da centinaia di migliaia di euro nel disinteresse di tutti. Beccari osserva come questo pregiudizio sia particolarmente vivo solo in Italia: “Per la Francia la moda è un vanto nazionale, identitario: da poco Vuitton ha aperto un altro atelier a Vendome, restaurando anche l’abbazia, alla presenza del ministro dell’economia. In Italia ricordo invece solo un volenteroso tentativo di Matteo Renzi” di affrancare il Paese dal giudizio morale che circonda il settore. “Dovremmo essere orgogliosi, consapevoli del valore di questa industria”, come lo sono Oltralpe: “Anche io, italiano della provincia, da quando sono qui mi sento ambasciatore del valore della moda e di Dior che, se dovessi definire con una parola, sarebbe lo chic parigino”. Sono due, ma la prima sembra in simbiosi con l’altra.
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