Il Foglio della moda
Nessuno diventa sostenibile da solo
Non basta che i tessuti rispettino tutte le norme perché il capo finale sia adeguato alle attese e allo story telling che lo sostiene. Nella filiera produttiva è necessario che ognuno faccia la sua parte. Gran girotondo di numeri uno del sistema in occasione del primo convegno del Foglio della Moda a Novara, sviluppato con Banco BPM
Tempo non bellissimo ma tutti contenti perché, dopo cento giorni di siccità, il Ticino dava segni di sofferenza e anche i due laghi più belli, il Maggiore e il lago d’Orta, iniziavano a perdere lo splendore delle acque immote in cui si specchiano isole e palazzi favolosi per assumere le tonalità giallastre della steppa. Nella giornata del 31 marzo, nello storico Palazzo Bellini, ricco di collezioni d’arte dove anche Napoleone Bonaparte studiò i piani della battaglia di Marengo, ha preso le mosse un discreto tentativo di mettere insieme tutte le forze della filiera moda per discutere di sostenibilità di processo, partendo dalla supply chain e dalla logistica che a Novara, città quasi più lombarda che piemontese per contiguità di interessi e scambi, sono diventate leva di crescita per molte altre attività, a partire dall’immobiliare. Abbiamo chiesto a tutti di esprimere il proprio pensiero e i propri desiderata in un breve testo. Eccoli.
La Transizione green deve essere un progetto di network
Nell’economia del futuro, la sostenibilità sarà un pilastro fondamentale. Ciò nonostante, ancora oggi, non siamo giunti a una definizione univoca di che cosa sia realmente. Per quanto riguarda il Tessile, Moda e Accessorio, per esempio, sia i grandi brand sia i clienti tendono a focalizzare l’attenzione sul prodotto finale, spesso non considerando che questo può essere sostenibile solo se lo è tutta la filiera che lo ha prodotto. Le sfide che l’industria del Tessile, Moda e Accessorio in Italia si trova ad affrontare sotto questo aspetto sono molteplici. Da un lato, è necessario implementare e rafforzare i percorsi di transizione ecologica che sono stati avviati, consapevoli che questa non debba essere considerata solo una voce di costo ma una vera e propria leva strategica per tutto il TMA. Allo stesso tempo, occorre comprendere che una transizione, perché sia concretizzata, richiede tempo e importanti investimenti che, spesso, sono difficilmente ipotizzabili per le piccole e medie imprese che compongono la nostra filiera.
La sostenibilità oggi, per noi, deve quindi essere una sfida di sistema da affrontare collettivamente. È necessario infatti spalmare i costi di questa transizione lungo tutta la filiera, da monte a valle, sia perché altrimenti non saremo in grado di compiere i necessari passi avanti in questo senso, sia perché sarà tutta la filiera a poter godere della sostenibilità come valore aggiunto. Per questo sarà fondamentale far passare il messaggio che un prodotto è realmente sostenibile solo se tutto il suo processo di produzione è realmente sostenibile. Riuscire a far riconoscere formalmente che è nel processo di produzione che si racchiude il senso della sostenibilità è fondamentale perché questo concetto sia accolto anche da brand e consumatori finali. Ciò rappresenterebbe un vantaggio strategico fondamentale per il comparto rappresentato da Confindustria Moda, perché la filiera italiana è l’unica, oltre a quella cinese, ad essere integrata da monte a valle ed è quindi la sola in grado di garantire stringenti parametri di sostenibilità lungo tutto il processo produttivo. A livello europeo sta evolvendo il dibattito su cosa sia realmente la sostenibilità. Come sistema Paese sarà fondamentale far pesare la nostra voce in merito, perché non si raggiungano conclusioni da cui altri mercati potrebbero trarre vantaggio. Puntare con forza in questa direzione permetterà infatti alla nostra industria del Tessile, Moda e Accessorio di guadagnare terreno nei prossimi anni anche a livello internazionale.
Ercole Botto Paola
Vicepresidente Confindustria Moda
Che cosa significa nella moda restare umani
Parlare oggi di sostenibilità è far fronte a una necessità di oggi, radicata in un presente molto incerto e instabile. Per alcuni anni, la visione comune si è spinta a guardare alla sostenibilità come una scelta per preservare il nostro pianeta per le generazioni future. Il nostro pianeta ci sta dicendo che a repentaglio non c’è solo il futuro di chi verrà dopo di noi, ma il nostro. Stiamo vivendo anni difficili, complicati, pieni di sfide. E una delle sfide che come Presidente di Camera Nazionale della Moda Italiana, sin dall’inizio del mio primo mandato, ho sempre sentito di dover accogliere è stata quella di pensare a come un’industria così importante come quella della moda potesse re-immaginarsi ed evolvere in una maniera che fosse più armoniosa e rispettosa, molto in funzione della forte spinta che veniva dai brand nostri associati. Quando parliamo di sostenibilità non pensiamo solo ed esclusivamente alla componente ambientale del problema. Essa rappresenta una fetta importantissima della questione, ma oggi la parola sostenibilità deve diventare per tutti un concetto più esteso, che va ad interessare i rapporti e le relazioni sociali, il rispetto dell’individuo e dalla sua umanità. Sono orgoglioso di poter affermare che la nostra associazione è stata pioniera nel comprendere la necessità di attuare un cambiamento sostenibile all’interno di tutta la filiera.
Sono passati già dieci anni dalla pubblicazione del nostro Manifesto per la sostenibilità nella moda italiana, uno strumento prezioso che in dieci punti ha definito azioni concrete che le aziende del nostro sistema hanno potuto compiere in un’ottica di implementazione di pratiche di rispetto ambientale e sociale. Due anni più tardi, nel 2014, abbiamo fondato il Sustainability Committee (composto da Giorgio Armani, Gucci, Prada, Valentino, a cui, in un secondo momento, si è aggiunta Versace) e il Sustainability Working Group (composto da Bottega Veneta, Fendi, Moncler, Giorgio Armani, Gucci, Loro Piana, Max Mara, Prada, Salvatore Ferragamo, Valentino, Versace ed Ermenegildo Zegna), che sono diventati fondamentali per la creazione di gruppi di lavoro efficaci, grazie ai quali abbiamo potuto lavorare su tantissime tematiche legate alla sostenibilità in diversi ambiti, a partire dalla gestione dei prodotti chimici e al trattamento dei pellami fino al mondo del retail e a quello della responsabilità sociale. Lungo questo percorso abbiamo prodotto documenti importanti, linee guida utili, cariche di concretezza e sempre rivolte a supportare le aziende della nostra industria con chiarezza e funzionalità. Nel 2019 abbiamo pubblicato il “Global Sustainability Report - Sustainability matters, but does it sell?”, un report pionieristico realizzato in partnership con McKinsey Milano che ha messo in luce come le attività di marketing nell’universo del retail trovino grandi benefici quando abbinate alla promozione di contenuti di sostenibilità. Lo stesso anno, CNMI ha compiuto anche un altro importante passo con la pubblicazione dell’Inclusion and Diversity Manifesto, documento che indica un percorso di trasformazione delle politiche aziendali al fine di renderle più inclusive.
Nel 2020, abbiamo lavorato con Fair Wage Network sui “Social Sustainability Report” e “Social Sustainability Roadmap” focalizzati a promuovere eque retribuzioni e una maggiore sostenibilità sociale sul posto di lavoro nella filiera del lusso. L’anno successivo, invece, abbiamo dato avvio a un progetto con Mygrants, “Fashion Deserves the World”, che, in un’ottica di accoglienza di migranti e rifugiati politici, ha lo scopo ultimo di agevolare l’inserimento nelle realtà industriali e creative italiane di nuovi talenti internazionali, mentre insieme a EFI (the Ethical Fashion Initiative – ITC) abbiamo lanciato il primo ESG Due Diligence and Reporting Framework per l’industria della moda, ospitando il Milan Climate & Fashion Talks, nel quale si è discusso il rapporto tra moda e crisi climatica in vista del COP26. Oltre ad esserci impegnati concretamente per la formazione di figure professionali nell’ambito della sostenibilità, creando con il Milano Fashion Institute il Master di primo livello in product sustainability management, la nostra attenzione è fortemente indirizzata a comunicare la sostenibilità attraverso eventi di impatto mediatico globale. Uno su tutti, la creazione nel 2017 del primo Awards sulla sostenibilità della moda. Dopo 4 edizioni realizzate in collaborazione con Eco-Age, siamo felici di celebrare, con il nostro nuovo partner d’eccezione, l’Ethical Fashion Initiative delle Nazioni Unite, il debutto dei CNMI Sustainable Fashion Awards in programma il 25 settembre 2022. Il domani non può aspettare, dobbiamo agire ora.
Carlo Capasa
Presidente Camera Nazionale della Moda Italiana
Le regole del business upcycled
Mi trovo spesso a riflettere sul fatto che siamo privilegiati a lavorare in una industry che produce sogni, che valorizza le competenze artigianali, che celebra e consacra il bello. Ma la moda ovviamente non è solo questo. Recentemente ha infatti preso spazio in tutti gli operatori del settore un senso di urgenza rispetto alle esigenze ineludibili della sostenibilità e questo grazie alla spinta delle nuove generazioni, che hanno posto le tematiche ambientali in cima alla propria scala dei valori. La moda deve infatti fare i conti con l’amara realtà che la catena produttiva e la supply chain che l’ha sempre caratterizzata è altamente inquinante per l’ambiente circostante. I processi industriali del nostro settore sono ad alto consumo energetico, producono emissioni inquinanti oltre a un’alta quantità di rifiuti difficilmente riciclabili, per non parlare della complessità della catena logistica e del conseguente impatto sull’ambiente. Ma se fino a qualche tempo fa il tema della sostenibilità non era in cima alla lista delle priorità aziendali, oggi siamo arrivati a un punto nel quale se un’azienda non esplicita in maniera chiara e credibile il proprio impegno per la tutela dell’ambiente e del pianeta rischia di trovarsi in qualche modo screditata agli occhi dei propri consumatori.
A partire dai grandi gruppi del settore, fino ad arrivare a piccole start-up che si affacciano sul mercato, la tematica della sostenibilità è diventata un argomento di engagement molto forte con la propria base clienti, tanto più efficace quanto credibile: nella misura in cui una dichiarazione di sforzo per la salvaguardia dell’ambiente sia reale e recepita come tale, questa riesce a tradursi in una percezione incrementale del valore del brand che se ne fa promotore. Ovviamente ambire a processi industriali totalmente green sarebbe pura utopia, ma allo stesso tempo ci sono dei passaggi pratici che possono avere un vero impatto sull’ambiente e allo stesso tempo suscitare nel consumatore finale il percepito che il proprio marchio di riferimento stia facendo un efficace lavoro di rivisitazione della propria value proposition in termini di prodotto finale e ciclo produttivo. Parlo dello sforzo verso la riduzione delle emissioni, della tracciabilità della filiera, la ricerca e l’utilizzo di materiali innovativi, lo sviluppo del concetto di “recycling” e “upcycling” e del seconda mano: tutti concetti che oggi hanno un ruolo fondamentale nello story telling del brand.
Come investitori, qualche anno fa ci siamo imbattuti in una storia aziendale straordinaria e unica, che per i tempi pareva quasi visionaria ed anticipatrice di quelli che sono concetti oggi sulla bocca di tutti, ma sulla quale con coraggio abbiamo deciso di scommettere. Due ragazzi in California erano ossessionati dall’idea della sostenibilità e il loro sogno era quello di dare una seconda vita a una delle maggiori icone della moda pop americana, il denim della Levi’s. Per inseguire questo sogno, hanno iniziato a battere a tappeto i molti mercatini della costa ovest degli Stati Uniti e i rivenditori di jeans usati alla ricerca dei capi più vissuti, ma che avessero addosso i segni e il fascino di una storia “unica” da raccontare, per poi rigenerarli, riconfezionarli e rilavarli facendoli tornare a nuova vita, e consegnarli con fit contemporaneo a un secondo (o forze terzo) proprietario. Un concetto di circolarità talmente semplice ed originale, da affascinare anche la stessa casa madre Levi’s, entusiasta di collaborare al progetto e di vedere sul mercato denim con la propria etichetta, ricostruiti e ricondizionati e quindi venduti a un pubblico di amatori come icone assurte a oggetto di culto.
Da quel momento in poi la storia del brand è evoluta e non si è fermata al mondo del denim ma si è allargata a numerose altre categorie, ma con la coerenza di perseguire sempre la stessa filosofia: inseguire il bello e dare vita ad un capo o a un tessuto “vintage” o “pre-used”, proteggendo e tutelando per quanto possibile il pianeta. A migliaia di capi e a molti tessuti è stata quindi data una seconda possibilità salvandoli dalla distruzione, sono state evitate una quantità infinita di emissioni nocive, sono stati risparmiati milioni di litri di acqua nel corso del processo produttivo a completo vantaggio dell’ecosistema. E i consumatori hanno premiato questo sforzo di coerenza verso la circolarità e la sostenibilità, contribuendo alla crescita del business, affezionandosi di volta involta alle storie dietro ai singoli prodotti, dimostrando quanto sia vero che oggi il cliente abbia voglia di immergersi e di sentirsi partecipe di un brand che abbia una filosofia positiva da condividere. Quando la sostenibilità è coerente e credibile, rischia di trasformarsi anche in un buon affare.
Filippo Cavalli
Director, Style Capital sgr
Le Pmi sono necessarie per una supply chain amica del pianeta
Le micro e piccole imprese e le imprese artigiane forniscono un contributo rilevante al sistema della moda in termini di addetti, fatturato e valore aggiunto: affrontare il tema della sostenibilità del settore senza tenere conto della sua reale strutturazione rappresenterebbe un gravissimo errore e non permetterebbe di raggiungere i risultati attesi. Alla moda corrisponde una consistente produzione e, di conseguenza, una importante generazione di esternalità negative, quali il rilascio e la diffusione di sostanze chimiche usate nel processo produttivo così come di microplastiche che alterano l’ecosistema, oltre che la gestione dei prodotti alla fine del ciclo di vita, e l’elevato fabbisogno energetico. La caratteristica labour-intensive rende poi il settore oggetto di fenomeni di distorsione nella distribuzione dei redditi, in cui l’inclusione sociale, la lotta alla povertà, il rispetto dei diritti umani e del lavoro devono essere efficientemente gestiti. Il valore economico, sociale e ambientale prodotto dalla sua filiera nella catena globale fa sì che l’Italia possa giocare un ruolo importante nell’identificazione e gestione sistemica dei percorsi di sostenibilità. La filiera italiana della moda è l’unica supply chain tuttora intatta: gode di un vantaggio competitivo unico dato principalmente da una tradizione manifatturiera e una creatività fondata sui precetti “circolari”.
Il tessile e la concia hanno adottato per motivi storico-culturali, ma soprattutto di valorizzazione economica, sin dalla prima rivoluzione industriale pratiche artigianali e creative di rigenerazione degli scarti di lavorazione che, grazie ai processi di sviluppo dei settori industriali, sono divenute la base per modelli di business oggi ben consolidati.La concentrazione delle imprese nei distretti industriali, poi, rappresenta una specializzazione produttiva nazionale. Luoghi geografici in cui le PMI sono agglomerate, i distretti hanno visto sorgere la specializzazione di una o più fasi di un processo produttivo in cui la qualità dell’operato è direttamente correlata alla rete di interrelazioni tra imprese che unite dalla condivisione delle conoscenze tecnico-produttive, operano per l’identificazione nei valori e negli obiettivi del distretto. La propensione al cambiamento non è solo una caratteristica, ma un’esigenza produttiva. Come componente chiave della catena del valore globale, le medie e piccole imprese italiane sono conformi alle pratiche circolari e alla gestione responsabile operando anche come fornitori dei leader di settore. È necessario il sostegno alla redditività economica dei modelli di business circolari e sono necessari specifici interventi rivolti al profilo burocratico-amministrativo in grado di sbloccare lo stallo dei mercati secondari del tessile, in particolare del riciclo, ed è necessario il potenziamento delle reti impiantistiche destinate al trattamento e alla valorizzazione dei rifiuti.
La strategia verso una società del riciclo che mira alla “chiusura del cerchio” deve rappresentare una struttura per un’efficace ed efficiente disciplina di ciò che nel passato ha rappresentato consistenti criticità. Rendere l’ecosistema tessile adatto all’economia circolare non equivale all’adattare l’industria alla circolarità: il momento storico richiede una efficiente gestione del cambiamento tale da non produrre effetti costrittivi nei confronti delle imprese del settore, soprattutto in quelle meno strutturate. Pensare all’economia circolare significa tener conto della dimensione d’impresa per non creare un gap fra chi potrà cogliere la sfida della transizione ecologica avendone i mezzi, le conoscenze, le capacità logistiche, tecniche e finanziarie, e chi invece ha in animo di essere sostenibile, ma non è nelle condizioni di seguire protocolli e processi di riorganizzazione e ricerca.
Antonio Franceschini
Responsabile Nazionale CNA Federmoda
L’Aggregazione in piattaforme, sfida per i terzisti
La sfida competitiva che il Made in Italy si troverà ad affrontare nel prossimo biennio sarà funzione della capacità di adattamento del distretto produttivo a un contesto quanto mai variegato. Fare fronte in modo efficace a fasi di discontinuità della domanda comporta per i brand una profonda revisione dei processi decisionali, al fine di riuscire a reagire in modo sufficientemente rapido a un contesto in continua evoluzione. Il modello tradizionale di Brand capofila, integrato verticalmente con la propria filiera, risulta particolarmente efficace nel caso dei marchi di grandi dimensioni che possono assorbire le competenze di un’ organizzazione interna e impostare un processo strutturato di coinvolgimento dei propri fornitori, integrando la logistica a monte e a valle. Il panorama competitivo del settore lusso offre tuttavia, oggi più di ieri, una moltitudine di marchi di media e piccola dimensione, che per stare al passo dovranno guadagnarsi credibilità investendo molto sulla visibilità e riconoscibilità esterna e avranno al tempo stesso necessità di specializzazione, competenze e qualità delle lavorazioni in area produttiva, senza potere necessariamente investire in strutture completamente dedicate, specie sulle categorie non Core. La parola chiave per questi ultimi e per molte realtà produttive italiane sarà ‘flessibilità’. Le tendenze già emerse nella fase pre-pandemica di sviluppo tecnologico, digitalizzazione e approccio più attento alla sostenibilità nelle filiere produttive, si sommano oggi a un incremento dei costi della materia prima e alla scarsità di risorse ad alta specializzazione. Questo si traduce in generale in una esigenza di aggregazione che permetta di mettere a fattore comune le competenze e che si concretizza da un lato in una verticalizzazione attuata dai Gruppi di lusso che acquistano i propri fornitori, e dall'altro, in operazioni di aggregazione condotte da fondi di investimento per creare piattaforme di ‘terzisti’ altamente specializzati in grado di dialogare con i marchi.
Micaela le Divelec Lemmi
Consulente di impresa
Offrire il lusso risparmiando tonnellate di carta
Nelle scorse settimane, abbiamo inaugurato il nostro primo polo logistico fuori dalla Sicilia, e abbiamo scelto Vimodrone, nei pressi di Milano. Era un passo necessario per raggiungere il nostro obiettivo primario per l’anno in corso: ottimizzare i tempi e i modi di consegna del marketplace Giglio.com, che riunisce e serve una community di oltre duecento boutique indipendenti per 2 milioni di visite mensili: evitando la spedizione separata di ogni singolo articolo, vogliamo risparmiare circa il cinquanta per cento delle nostre consegne nel mondo, con un grande vantaggio in termini di emissioni, in particolare verso Paesi come gli Stati Uniti e l’Asia Pacifico che per Giglio.com rappresentano il 42 per cento degli invii totali e, con l’Europa al 50 per cento, la quasi totalità del nostro business. Esiste “una via sostenibile” anche per la moda online: nel 2022 prevediamo di salvaguardare 240 mila spedizioni aggiuntive, che eviteranno lo spreco di 175 tonnellate di carta e l’immissione nell’atmosfera di 690 tonnellate di Co2.
Questo, insieme con l’uso di box riciclabili al cento per cento, rappresenta per noi un altro modo di tener fede ai valori e agli obiettivi che nostro padre Michele si diede quando, alla metà degli Anni Sessanta, in una Palermo già multietnica, inclusiva per ragioni storiche e per predisposizione, aprì la prima boutique di lusso. Alla metà degli Anni Novanta, con mio fratello Giuseppe, entrambi appassionati di Internet, allora nascente, intuimmo che l’e-commerce avrebbe potuto permetterci di sviluppare il business ben oltre i confini della nostra regione. In Italia, fummo i primi ad aprire un sito di vendita online: Amazon data 1995, noi 1996. Nei primi anni, il business non prese piede: i costi di spedizione erano ancora troppo alti ma, soprattutto, era troppo scarsa la conoscenza e la fiducia nel mezzo da parte dei clienti. Siamo decollati una decina di anni fa aprendo una nuova società dedicata, Giglio.com, sviluppando una tecnologia proprietaria e mettendo a disposizione dei nostri colleghi un marketplace in grado di raggiungere clienti in oltre 150 paesi. Attualmente, nel nostro gruppo lavorano 180 persone, di cui 110 ai servizi online; ci siamo quotati nel segmento Aim di Borsa Italiana nel luglio del 2021. Partire oggi con questo business sarebbe impossibile. Durante le fasi difficili della pandemia, abbiamo capito però che sovrapporre esperienza digitale e fisica, come è stato fatto per molti anni e come stavamo perseguendo anche noi, non è più attraente per il cliente finale: per questo, stiamo ristrutturando la prima boutique, dove Giglio è nata, in un’ottica totalmente analogica. Gli spazi di vendita fisici, oggi, devono essere unici, irripetibili, con un fantastico display e un servizio d’eccellenza. Per questo, non abbiamo voluto una archistar, ma uno studio di giovani architetti siciliani, in grado di valorizzare i materiali della nostra terra e la nostra cultura.
Federico Giglio
Ceo, Giglio.com
Per diventare trasparenti basta un QR code
Il mercato è cambiato negli ultimi anni, diventando un ibrido fra digitale e fisico. Questo ci ha dato la possibilità di essere ancora più trasparenti e tracciabili: grazie alla tecnologia BCOME, abbiamo integrato la tracciabilità a ogni prodotto sul nostro sito di e-commerce, in modo che tutti, volendo, possano vedere e valutare quanta acqua abbiamo risparmiato, quanto risparmio di emissioni di CO2 abbiamo ottenuto, dove il prodotto è stato creato... Questo processo non è limitato al solo mondo digitale: ogni capo possiede un QR code che i clienti possono scansire per scoprire gli stessi dati. Tutto questo per una totale trasparenza nei confronti di chi acquista. Stiamo usando risorse naturali in una quantità 5 volte superiore a quanto la Terra produca. Per lavorare un chilo di cotone, che tutti pensiamo essere la fibra naturale per eccellenza, si utilizzano 2.500 litri d’acqua. Riciclare il cotone è invece un procedimento che non necessita di acqua. Per ricavare il fi lato dal petrolio occorrono diciassette passaggi chimici, dalle reti da pesca solo sette. Innovazione significa risparmiare acqua ed energia. Significa non solo fare cose nuove, ma anche fare quelle vecchie in modo nuovo.
Javier Goyeneche
Founder e ceo, ECOALF
Da Callaghan a Gucci, Novara è il polo sconosciuto della moda
Spiegare perché uno dei poli della produzione italiana e internazionale di moda si sia sviluppato a Novara è facile e difficile al tempo stesso: questa città si trova in una posizione ideale per la morfologia delle sue terre, ricche di corsi d’acqua un tempo indispensabili per l’industria tessile. Ma è soprattutto la sua equidistanza ideale fra Milano, Torino, i grandi passaggi alpini, l’incantata bellezza del Lago Maggiore e del Lago d’Orta e la luce del Monte Rosa che la irradia ogni sera ad averla resa un luogo perfetto al tempo stesso per la progettazione e la distribuzione di moda. Zamasport nasce nel 1966 dalla riconversione del Maglificio Augusto Zanetti, fondato all’inizio del Novecento; era l’azienda di famiglia, produceva maglieria intima. Noi facciamo parte della terza generazione di questa impresa che, in quegli anni di boom economico e di grandi cambiamenti sociali, lanciò la prima griffe del pret-à-porter italiano, Callaghan, chiamando a collaborare designer che avrebbero segnato la storia della moda italiana: fino al 1972 Walter Albini, quindi Gianni Versace fino al 1986, e ancora Romeo Gigli, che avrebbe guidato la creatività del decennio successivo, Scott Crolla e nel Duemila Nicolas Ghesquière, attuale direttore creativo di Louis Vuitton. Qui, nel nostro stabilimento costruito sui bordi del canale Quintino Sella, e di cui abbiamo preservato la struttura originaria, svilupparono la propria idea di azienda. Talvolta, come nel caso di Versace o di Gucci, senza mai lasciare Novara.
L’idea di una linea di abbigliamento di Gucci nacque nelle stanze della Zamasport nel 1993, con Maurizio Gucci, Domenico De Sole e Carlo Capasa: era ancora un’azienda di pelletteria e accessori, non possedeva il know how per lo sviluppo dell’abbigliamento, dalla prototipia all’ industrializzazione delle collezioni. Li affiancammo noi, fino a quando Gucci decise per lo spin off, allontanandosi però di pochi chilometri. E’ qui ancora oggi, dove ha dato vita anche al più grande polo logistico d’Europa. C’è una cultura industriale che non si può inventare, e che si affina con gli anni, con il tempo, con la stima reciproca: Helmut Lang, Fendi, Katharine Hamnett. Guardandoci indietro siamo orgogliosi di essere stati loro partner, un percorso che conserviamo in un archivio automatizzato ricco di 4mila capi, così come adesso esserci concentrati sull’engineering per grandi brand e sulla selezione di giovani designer da introdurre nel sistema ci riempie di entusiasmo come sessant’anni fa. Scegliere un nome nuovo, identificare il Ghesquière, il Versace di domani non è facile, anzi è sempre una sfida. c’è qualcosa, però, che differenzia i creativi di allora da quelli di oggi, ed è la disponibilità a lavorare in e con l’azienda. Un tempo di trascorrevano qui anni interi, imparando ogni fase del processo; adesso siamo noi a doverli raggiungere nei loro uffici. E questo sì, cambia molto le cose.
Paolo Greppi
Presidente, Zamasport
Svolta green? Sono da rivedere i parametri finanziari
Dall’outsourcing al controllo della filiera. Dalla pura immagine alla tracciabilità come valore di brand. Negli ultimi tre anni, il sistema della moda si è capovolto: il “just in time”, la velocità di esecuzione, la terziarizzazione che consentiva di liberare risorse finanziarie, hanno perso straordinariamente di forza con la pandemia; in questo ultimo mese, il conflitto russo-ucraino ha ulteriormente accelerato il processo. Il nuovo mantra, per la industry come per il cliente, è l’origine di quello che produce e di quello che acquista. La conoscenza. È diventato capitale far sapere dove si acquistano le materie prime, come queste si lavorano e si assemblano, come si distribuiscono e si consegnano, e rendere questo racconto attraente e coinvolgente. Questo progressivo coming out etico è guidato dai giovani che, pur non potendo sempre o ancora accedere a certi brand, hanno non di meno dettato a tutto il sistema il cambio di passo a cui stiamo assistendo e di cui siamo parte attiva.
Non è per caso che non solo i marchi del lusso, ma anche quelli del fast fashion, stiano cambiando le proprie politiche di produzione e di distribuzione, talvolta secondo modelli e schemi molto significativi. Non c’è più spazio per il greenwashing e grazie alle certificazioni che aziende di ogni dimensioni, comprese le pmi, chiedono e ottengono, lo sforzo per limitare in ogni modo gli impatti negativi sull’ambiente è dimostrabile e quantificabile. Il controllo è molto importante, come dimostrano le progressive acquisizioni di aziende manifatturiere da parte delle multinazionali del lusso e come il mio stesso gruppo ha fatto acquisendo Montura, brand tecnico dedicato agli amanti della montagna, sostanzialmente un’azienda autarchica visto che ogni fase del processo produttivo viene svolta internamente. Per gli imprenditori della moda, il lato negativo di questa evoluzione sarà, come ovvio, la riduzione dei margini: l’efficientamento di questa parte delle nostre attività sarà la grande sfida del futuro. Al momento, prevedo Ebitda più contenuti. Ma dopotutto, perché questo dovrebbe essere percepito come un coefficiente negativo se la posta in gioco è così rilevante per il pianeta e per noi? Sarebbe importante che gli investitori e gli analisti rivedessero i propri parametri di giudizio, tenendo conto dell’evoluzione dell’intero comparto.
Claudio Marenzi
Presidente e ceo, Herno
Presidente di Pitti Immagine
Per Kering l’Italia è il paese dove investire ancora
Kering è un gruppo che ha subìto una profonda trasformazione negli ultimi dieci anni, puntando costantemente a migliorare l'efficienza operativa dei propri marchi, sia in termini di IT, nuove tecnologie, e-commerce, gestione della supply chain e della logistica. Negli ultimi anni, il gruppo è cresciuto in modo significativo e a ritmi molto rapidi. Questa traiettoria di crescita e l'evoluzione del business del lusso (in particolare l'ascesa dell'e-commerce e la necessità di consegne sempre più rapide) ci hanno portato ad avviare un'analisi approfondita dell'adeguatezza della nostra rete logistica, in chiave presente e futura. Abbiamo deciso di ripensare il nostro modello, investendo in strutture ad hoc in Europa, Nord America e Asia. Per quanto riguarda l'Europa, avevamo bisogno di un nuovo centro globale di distribuzione all'avanguardia, che offrisse una maggiore capacità di stoccaggio, spazio per la scalabilità e la capacità di soddisfare le crescenti richieste di interconnessione con i principali hub di trasporto.
Costruito a tempo di record, il nuovo polo logistico globale a Trecate si estende per oltre 162.000 metri quadrati e combina tecnologia e automazione all'avanguardia, scalabilità, innovazione sostenibile e funzionalità per il benessere dei dipendenti. Questa nuova struttura ci consente di fare un salto di qualità, riconfigurando e rinnovando completamente il sistema logistico e modernizzando i nostri strumenti. Nel nuovo polo sono concentrati tutti i principali flussi logistici. Grazie a questo progetto, nel lungo termine, i costi unitari connessi alla logistica diminuiranno significativamente, così come i livelli di stoccaggio, e i tempi di consegna saranno drasticamente ridotti, il che garantirà una distribuzione più rapida attraverso tutti i canali, una migliore disponibilità dei prodotti, e scorte ottimizzate. Il tutto, in un’ottica realmente omnichannel. Non è casuale che questo sito si trovi a Trecate, in una posizione strategica tra Milano e l'aeroporto di Malpensa, al centro delle principali reti di comunicazione del Nord Italia. Per Kering l'Italia è un Paese come nessun altro. Non solo è un paese dove il posizionamento e la desiderabilità dei nostri marchi sono particolarmente forti e la sede di alcune delle nostre maison più rinomate. Ma è anche il Paese dove storicamente abbiamo sempre investito di più in capacità creative e artigianali. E con l'hub di Trecate, adesso anche in competenze logistiche.
Jean-François Palus
Direttore Generale, Kering Group
Dobbiamo Impegnarci a condividere i guardaroba
La nostra mission è sempre stata quella di rendere il seconda mano la prima scelta in tutto il mondo, che significa aiutare a cambiare le abitudini di consumo verso un'economia più circolare. Lo facciamo con un’app semplice e intuitiva dove le persone possono trovare gli abiti che amano e di cui hanno bisogno. È un modo conveniente anche per dare una seconda vita ai vestiti che non indossano più, nel nostro caso vendendo anche oltre confine, in una logica di community internazionale. Ci piacerebbe vedere un futuro in cui la moda si possa basare su principi di circolarità, longevità ed eliminazione degli sprechi, dunque non solo rivendendo, ma anche condividendo e noleggiando il proprio guardaroba’
Thomas Plantenga
Ceo, Vinted
Disegnati e prodotti in un raggio di cento chilometri
Il progresso (o l’idea di progresso) che l’intero sistema economico del pianeta ha messo in atto dal Secondo Dopoguerra e che sembrava essere ormai inarrestabile, si è infranto in un solo giorno per l’azione isolata di un solo paese, cambiando di colpo il corso della storia e, di conseguenza, rimettendo in discussione tutte le certezze e i capisaldi di un’economia che aveva fatto della globalità il suo motore principale. A tutti i livelli, governativi, economici e sociali, le ripercussioni ci impongono cambiamenti rapidissimi, ancor più rapidi di quelli che il sistema globale ha dovuto mettere in atto con la violenta irruzione del Covid. Le condizioni in cui ci si è trovati ad operare hanno determinato una spinta forte all’innovazione, soprattutto tecnologica, che per molti versi, ha fatto bene al sistema produttivo e ci ha indotti a una riflessione globale sulla necessità di una transizione ecologica ormai non più rinviabile ma che, per avere effetti davvero significativi, deve necessariamente riguardare tutti. Questo er due motivi: il primo è che il virtuosismo di alcuni non può e non deve essere vanificato da altri e, secondo, la sostenibilità implica dei costi aggiuntivi che non possono penalizzare chi li mette in atto e avvantaggiare chi invece, persegue nello sfruttamento del pianeta per trarne ingiusto vantaggio.
Centergross è nato 45 anni fa sotto il segno della sostenibilità, quando ancora questo termine non solo non era di moda, ma quando nessuno si preoccupava di mettere in atto certe pratiche. Eppure, gli imprenditori – oggi diremmo visionari – che ne determinarono la nascita, lo concepirono nell'ottica di ridurre l’impatto ambientale sgravando la città di Bologna da una quota enorme di traffico. Non solo. L’idea fondativa fu di costituire un grande centro alle porte della città che potesse avere tutti i servizi utili e necessari per favorire il commercio, i trasporti, la vendita, la distribuzione, la vita stessa dei lavoratori. E quindi dalla meccanica, alla logistica, dai servizi che qui si sono sviluppati anche e non solo, intorno a quello che è il modello di business che caratterizza maggiormente Centergross: il pronto moda. Oltre 400 brand operano mettendo in atto quella supply chain che oggi costituisce l’ossatura di ogni azienda che aspira ad avere successo. La somma delle nostre attività e dei processi produttivi è sostenibile sia in termini di produzione, in virtù di una filiera il cui perimetro non supera i cento chilometri, sia dal punto di vista della supply chain. Ma c’è di più: il pronto moda diventa ancora più strategico nel contesto odierno, poiché costituisce un argine, anche qualitativo, all'invasione del fast-fashion. Noi produciamo una moda Made in Italy, accessibile a chi non può permettersi i brand del lusso, ma che comunque rifiuta la mancanza di etica e di qualità. È un dovere dell’intero comparto moda trovare un equilibrio che consenta a tutti i segmenti che lo compongono di poter continuare a presidiare i propri spazi per soddisfare le rispettive clientele, perché il rischio è quello di concedere ulteriore campo alle multinazionali che delocalizzano in paesi in cui etica e sostenibilità non hanno diritto di cittadinanza.
Piero Scandellari
Presidente Centergross
manifattura