Moda revolution
Senza più clienti russi, bloccati o sanzionati, l'universo del lusso si riposiziona
Nel mondo della moda che, in Italia, vale lo 0,9 per cento del pil, si torna a parlare di mercato americano e di esclusività
Forse ha ragione chi, come noi del Foglio da più di un mese, si dice convinto che al crollo del regime russo contribuirà la frustrazione dei rich russian kids, i figli viziatissimi dell’oligarchia russa con le loro carte di credito no limits ma al momento inservibili, da anni di stanza nella “decadente Europa occidentale”, come dice Vladimir Putin al popolo che non può permettersi l’eterna vacanza a Montecarlo e che dunque può scaldarsi di integrità morale al sol dell’avvenire. Qualche giorno fa, superando in severità perfino la stretta sanzionatoria di Bruxelles, la maison Chanel ha fatto sapere di aver limitato la vendita dei propri capi, accessori e gioielli ai cittadini russi in ogni città del mondo, a meno che non provino, documenti alla mano, di non essere residenti nella madrepatria e di non avere intenzione di esportare i propri acquisti in Russia. Dovranno insomma dichiarare per iscritto di voler fare uso personale dell’eventuale modello di borsa 2.55 che intendono acquistare, come tossici con la tentazione dello spaccio o buyer di moda disonesti che praticano il cosiddetto “mercato parallelo”.
Al di là delle borsette cesoiate a favore di telecamera che hanno fatto il giro del mondo senza suscitare solidarietà ma solo un forte sdegno (“davvero state assassinando le borsette mentre i vostri connazionali ammazzano la gente vera?”, ha scritto uno dei più potenti giornalisti del sistema, Tim Blanks, sul proprio account Instagram), voleste leggere che cosa scrivono i rich kids sui social in queste ore, vi trovereste una lunga lista di improperi equamente distribuiti fra gli attori di questo ignobile conflitto, mescolati al vittimismo e all’accusa più praticata dall’occidente di oggi, cioè la discriminazione. “Siamo discriminati perché russi”. In effetti, sì. E qualcosa ci dice che siano parecchi, i commessi e le direttrici di boutique per nulla desolate di non poter più vendere uno spillo a questi clienti di celeberrima maleducazione. Una piccola soddisfazione, certo, anche un danno commerciale, chi lo nega, ma che in luoghi come Forte dei Marmi o Portofino ambivano a levarsi da anni e a prescindere dall’invasione dell’Ucraina, che ha solo esacerbato animi già irritatissimi da lunghe stagioni di scorribande alcoliche, devastazioni di terreni e boschi per scopi privati e in spregio alle leggi regionali saldate con multe ridicole, ricostruzioni di proprietà storiche in agghiacciante stile russo-rinascimentale nella totale acquiescenza dei comuni.
In Costa Azzurra, da anni, i russi non possono più acquistare proprietà: in Italia ci siamo invece fatti obnubilare dal denaro sonante, basta vedere che cosa è successo sulla sponda del Lago Maggiore gestita dalla regione Piemonte, dove ogni tanto qualche oligarca sparisce nel nulla lasciando le bruttezze architettoniche incompiute, gli operai non pagati, migliaia di alberi estirpati e i comuni con un palmo di naso. A Menaggio, sul lago di Como, è notizia di pochi giorni fa, dei vandali hanno dato alle fiamme la villotta in ristrutturazione, sequestrata, del presentatore televisivo pro Putin Vladimir Solovyev: è stata un’azione dimostrativa, ha detto il sindaco dopo aver fatto spegnere prontamente le fiamme e iniziato a contare i danni che ora toccherà a lui pagare, come tutte le spese di mantenimento dei beni congelati agli oligarchi in Italia, una piccola clausola di cui gli anonimi dimostratori sarebbe bene che venissero informati.
A questo risentimento certo piccino ma covato da anni che, come in tutti i conflitti, sta riemergendo centuplicato dalle immagini degli orrori veri delle atrocità commesse dall’esercito russo in Ucraina (rendendo fin troppo reali le parole del pianista russo Alexander Malofeev sui lunghi strascichi che questa guerra lascerà nel sentimento mondiale nei confronti del suo popolo), deve però e per forza corrispondere un recupero delle posizioni dei settori industriali italiani del bello in altri mercati e con altri clienti, pena il dissesto di un sistema che, in Italia, vale lo 0,9 per cento del pil.
Ed è così che, in queste settimane, si è tornati a parlare di moda e Stati Uniti. Non che ce ne fossimo mai dimenticati, in verità: da sempre, gli Stati Uniti sono stati il primo mercato di esportazione della moda italiana, quello con cui abbiamo stretto i rapporti nel 1951 della leggendaria sfilata fiorentina a casa del marchese Giovan Battista Giorgini, fondatore di Pitti, senza averli mai allentati. Per anni però, sapete come va con la gratitudine, ci siamo cullati nell’idea che altri blocchi di paesi o di “regioni” avrebbero sostituito l’America del nord come destinazione privilegiata e che Guangzhou avrebbe soppiantato Chicago nella spesa pro capite in beni di lusso. Avevamo anche coniato interessanti acronimi, tutti ormai dimenticati. All’inizio dei Duemila furono i paesi Brics. Brasilerussiaindiacinasudafrica, si imparava a recitarlo come una litania, carica di promesse. I nostri esportatori di abbigliamento strinsero accordi con ricche signore di Rio de Janeiro che avevano costruito mall a cento metri dalle favelas, protetti da nugoli di guardie armate, e che erano pronte a scommettere su un prossimo, anzi immediato, abbassamento dei dazi proibitivi sui beni occidentali. Nel 2005, la moda tutta si trasferì a Rio per “celebrare”, il verbo para-religioso in voga nel sistema in luogo del più prosaico “festeggiare”, il Calendario Pirelli scattato da Patrick Demarchelier. Diciassette anni dopo, il grande fotografo di cui il mondo conobbe l’esistenza grazie “Al diavolo veste Prada” (“Miranda, c’è Patrick al telefono”) è scomparso, i mall vista casupole di latta giacciono abbandonati come il teatro di Fitzcarraldo nella giungla, mentre la crescita a doppia cifra del lusso nell’epoca Lula (chi l’avrebbe detto, eh?) si è arrestata con lo scandalo Rousseff e con l’elezione alla presidenza di Bolsonaro. Al momento, l’unico prodotto di moda che continui a connettere il Brasile al resto del pianeta sono le ciabatte di gomma Havajanas. Designer brasiliani di nome, non pervenuti: la scuola di moda Marangoni, ormai un marchio internazionale, ha aperto una filiale a Miami nella speranza di attrarre ricchi studenti dal Sudamerica. Insomma, ci rivedremo con un mercato interessante fra qualche decennio, forse. Nonostante i volenterosi tentativi, l’India non uscirà mai dal sistema delle caste, mentre è noto che la moda per fiorire abbia bisogno di mobilità sociale, quindi nulla si muove a Mumbai e New Delhi, a eccezione dei marchi mass market, di qualche brand di borsette e del mercato del denim. Il Sudafrica dove tutti andavamo a scattare servizi di moda perché costava di meno boh: come piazza per la moda stanno crescendo decisamente meglio i paesi del centro Africa, in primis la Nigeria, i cui buyer frequentano Pitti con assiduità e infinita eleganza (sì, un giorno bisognerà affrontare la dicotomia fra chi attraversa il Sahara per rischiare la vita su un barcone e i ricchi che acquistano moda nord-occidentale fino alla couture parigina e anche la moda dei sofisticatissimi designer locali, ma tendiamo tutti a far finta di niente). Della Russia si sa: negozi sprangati da Mosca a San Pietroburgo, le multinazionali del lusso pagheranno gli stipendi ai dipendenti locali ancora per un mese; poi, se la prendessero pure con la Duma (a tutti i dipendenti ucraini è stato invece offerto il trasferimento a Parigi o Londra, appartamento incluso). Alle spalle del Duomo di Milano, è chiuso da mesi il grande attico da cui il pur simpaticissimo Mickhail Kusnirovich, con moglie e collaboratori al seguito, curava gli interessi del suo impero commerciale Bosco dei Ciliegi; alle ultime sfilate milanesi di febbraio, mentre i compratori ucraini si dicevano convinti che la guerra non ci sarebbe stata fino al pomeriggio del 23, non si vedeva già più in giro un solo buyer russo. Gli ordini non avrebbero potuto comunque essere evasi e al momento sono tutti, ovviamente, bloccati, benché in generale valessero meno di quanto si potesse credere osservando lo sfoggio sfacciato e rumoroso degli expat. In realtà, consumavano tutti in occidente o quasi.
Le esportazioni italiane di moda in Russia valevano 1,4 miliardi di euro all’anno su un totale già post pandemico di circa 92. Una cifra importante per chi, come i calzaturieri del fermano e un certo produttore marchigiano di abiti da sposa modello meringa per le irine di campagna, da decenni lavoravano solo con la Russia senza sforzarsi di diversificare mercati e produzione; veramente poco sul totale. Fra colli di bottiglia nella supply chain e nella logistica che stanno determinando un near-shoring produttivo in Europa, la Cina che a sua volta era cresciuta a doppia cifra per quasi vent’anni ha mostrato tutte le proprie debolezze con la pandemia, e lo fa tuttora con Hong Kong appena uscita dal nuovo lockdown. La scorsa settimana, alla prima giornata fogliante organizzata dal Foglio della Moda con il Gruppo Bpm a Novara, centro europeo della logistica e della prototipia di lusso, il presidente della Camera nazionale della Moda, Carlo Capasa, ha dunque evocato tutte le bellezze e le meraviglie del mercato statunitense, insieme con quello nipponico che sì, è ancora in flessione, ma rappresenta comunque una destinazione importante per chi, come per esempio Claudio Marenzi di Herno, ha un prodotto ben definito, di design, nuovo ma rassicurante. Nessuno fa previsioni: perfino l’Ice che il 25 febbraio avrebbe dovuto presentare le consuete analisi con Prometeia ha cancellato l’appuntamento, mentre in queste settimane il suo presidente Carlo Ferro interviene ai convegni parlando di “sentiment” invece che di dati. Ma è un fatto che chi, come Gianluca Isaia, ha continuato a scommettere sugli Stati Uniti e a riposizionarsi sull’esclusività, abbia già visto ripagati i propri sforzi: nel 2021 la grande sartoria napoletana ha registrato ricavi per 54 milioni di euro, in aumento a cambi costanti del 71 per cento rispetto al 2020, con un’incidenza dell’Ebitda pari al 13 per cento. “Abbiamo puntato molto al servizio retail”, dice l’imprenditore: sempre a cambi costanti, la crescita del canale è stata addirittura del 109 per cento, con un peso sul business complessivo pari al 43 per cento. Gli investimenti degli ultimi due anni hanno riguardato Sankt Moritz, Chicago, Londra, Miami, Toronto. Piazze frequentate dal cosiddetto “old money”, cioè e sempre Europa occidentale, Germania in testa, Usa e Uk. Gli ultimi dati diffusi da Confindustria Moda sui primi nove mesi di andamento dell’export italiano nel 2021, i più recenti, vedono infatti gli Usa in crescita del 43,2 per cento rispetto all’annus horribilis 2020, contro il 50,3 per cento della Cina. Con una differenza sostanziale, però: che fra New York, Los Angeles dove anche i conciatori di Unic stanno stringendo rapporti sempre più stretti con una nouvelle vague di designer e Miami dove da Isaia a Borsalino tutti stanno scoprendo un nuovo Eldorado, a settembre dello scorso anno il mercato valeva 5,2 miliardi di euro contro i 2,6 della Cina e 1,7 la Corea del Sud, altra destinazione privilegiata del momento, in crescita a sua volta quasi del 20 per cento. A favore degli Stati Uniti, come evidente, in questo momento di guerra in Europa giocano tre fattori: lo scudo militare, ma anche naturale, dato dalla posizione geografica; l’autonomia energetica, la disoccupazione quasi inesistente. Non è un caso che, nella nuova classifica di Forbes sui miliardari mondiali, nelle prime posizioni della moda figurino nomi storicamente legati agli Stati Uniti, che hanno retto bene anche agli ultimi due anni, come Giorgio Armani o, in crescita, Brunello Cucinelli. Il magnate francese del lusso, Bernard Arnault, che nell’ultimo anno ha aumentato la sua fortuna di 8 miliardi di dollari, rimane la terza persona più ricca del mondo con un patrimonio di 158 miliardi. Da poco, ha annunciato la ristrutturazione del palazzo di Tiffany sulla V Strada, su modello di Dior in Avenue Montaigne, garantendo agli americani che la memoria di Audrey Hepburn con il danish pastry e il caffè davanti alla vetrina di Tiffany nella celeberrima “colazione” non verrà offuscata. La stampa anglosassone si è già sdilinquita: “Breakfast, lunch and dinner”.
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