La giornata della Terra, il cambiamento climatico e noi che compriamo da Shein
Sul colosso cinese della moda usa e getta milioni di ragazzine e di donne soddisfano i propri sogni di poliestere a spese di migliaia di persone sfruttate, e decine di fondi li sovvenzionano
Armani nel nuovo sito spiega che l’acquisto è un fatto politico e che un imprenditore “ha delle responsabilità". Il gruppo Kering sigla in Francia un’intesa con il ministro del lavoro per favorire l’educazione e l’inserimento di giovani svantaggiati. Ma poi c'è il fenomeno iper-fast fashion del momento (valutato 100 miliardi di dollari) al centro di infinite controversie per violazione dei diritti sui marchi, dei diritti umani, della salute e della sicurezza
Nei momenti topici della parabola umana sulla Terra, Giorgio Armani tende a prendere decisioni condivisibili, ad applicarle e a renderle pubbliche, nel caso qualcuno volesse prendere esempio, ispirarsi, migliorarle. Nel febbraio del 2020, per esempio, annullò, primo fra tutti, le sfilate, per non esporre a rischio di contagio Covid i propri ospiti. Meno di due mesi fa, a tre giorni dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, fece sfilare le proprie modelle in silenzio, perché il lavoro di tutti andava difeso, com’era giusto, ma non si dava proprio il caso di festeggiare a suon di musica.
Oggi, Giornata Mondiale della Terra, lo stilista ha presentato il nuovo sito Armani/Values, esplorazione e sintesi dei valori che sono alla base delle azioni di stile e delle sue scelte imprenditoriali attorno a tre sezioni principali, Persone, Pianeta e Prosperità, inclusive di voci come le molto contemporanee “autenticità” e “sostenibilità” e la molto antica e pregevole “disciplina”, aggiungendo come un imprenditore “abbia delle responsabilità nei confronti di tutti, e debba essere un esempio e un sostegno”, basando il proprio lavoro su “valori solidi”. Nell’ambito di questi valori e di questi gesti (“la moda può contribuire al rinnovamento in atto”), l’acquisto diventa dunque fatto politico, evidente anche a chi volesse negarlo o a chi storcesse il naso di fronte all’apparentamento fra i due universi semantici dell’acquisto, cioè del consumo e del sistema capitalistico, e della politica, cioè del bene e della cura della cosa pubblica.
Anche a non conoscere la geopolitica economica della moda, in parole povere le azioni legate al tessile e all’industria dell’abbigliamento che alla fine del Settecento provocarono, per esempio, il crollo dei regni indiani e la progressiva affermazione della Compagnia delle Indie, cioè della Corona Britannica, sul subcontinente, questi ultimi mesi, con la chiusura dei negozi dei brand del lusso in Russia e la “battaglia delle Chanel” fra la maison francese e le socialite putiniane, ci hanno reso molto evidente quanto la moda giochi un ruolo fondamentale nell’immaginario collettivo e possa indirizzarne le azioni quotidiane.
Sempre di oggi, per esempio, è la notizia che il gruppo Kering, dopo aver comunicato un primo trimestre dell’anno a 4,95 miliardi di euro di fatturato, +27,4 per cento, trainato dalle performance spettacolari di Saint Laurent e Balenciaga, e dalla buona crescita di Gucci, ha siglato in Francia un’intesa con il ministro del lavoro per favorire l’educazione e l’inserimento di giovani svantaggiati, ovvio preludio ad azioni simili in altri paesi.
Insomma, la moda lavora con multipli di 16, però re-investe parecchio in riforestazione, salvaguardia della biodiversità, inclusione, cultura, aiuto alle comunità di sostegno, nel caso di Armani, fra i tanti, la Comunità di Sant’Egidio e l’Opera san Francesco. In gergo e con la solita esterofilia, si definisce tutta questa attività “give back”, cioè restituire i propri privilegi, condividerli, dare il buon esempio, che fra l’altro è anche l’unico modo per continuare a garantirsi gli investimenti dei fondi internazionali. La gente che guarda alla moda di prima fascia, al lusso, proprio questo si aspetta: che “restituisca”. Magari non può permettersi di acquistarla, ma forse proprio per questo non le fa sconti, come a qualunque “ricco”.
E poi ci sono fenomeni come Shein. Per i pochi che non lo conoscessero, diciamo per gli stiliti, per gli snob dello smartphone e per chi non avesse in casa ragazzini che hanno scaricato la app, abilissima nel decrittare i loro gusti e offrire esattamente i capi che vorrebbero in quel momento a prezzi impensabili, Shein è il fenomeno iper-fast fashion del momento. A dire il vero, venne lanciato ancora nel 2008 a Nanjing da un giovane imprenditore, Chris Xu, ed era specializzato in quegli atroci abiti da sposa cinesi venduti sottovuoto (tagli la plastica, il tulle sintetico si gonfia in una nuvola di odori chimici) che ogni tanto comparivano perfino nelle fiere della sposa italiane. Chi scrive, perfidamente e senza poter immaginare il seguito, fece scattare un servizio su quegli involucri piatti che al primo colpo di forbici si gonfiavano come cigni arrabbiati. Allora Shein si chiamava ZZKKO, a pronunciarlo in italiano suonava quasi come una parolaccia e il mondo occidentale era così obnubilato da Zara ed H&M, proprio in quegli anni in pieno boom di collaborazioni prestigiose con Karl Lagerfeld e Alber Elbaz, da non rendersi conto di quel copiatore da mercato che cresceva un semestre dopo l’altro, aggiungendo via via prodotti di lingerie, accessori, profumi, mentre cambiava progressivamente nome da Sheinside a Shein.
Ve la facciamo breve: complice la pandemia, nel 2020 il brand è stato il più discusso su TikTok e YouTube e il quarto più commentato su Instagram: vende in 220 paesi, ed è al centro di infinite controversie per violazione dei diritti sui marchi, dei diritti umani, della salute e della sicurezza. Direte voi, i fondi internazionali lo snobberanno. Bien le contraire. Poche settimane fa, Bloomberg l’ha valutato 100 miliardi di dollari, quasi sette volte tanto quanto valeva nel 2020, grazie alla raccolta di nuovi finanziamenti da General Atlantic, Tiger Global management, IDG e Sequoia Capital China. Togliete pure Sequoia che mostra già i propri valori fondamentali nel brand e prendete General Atlantic: nel suo portafoglio di fondo “ad alto contenuto filantropico”, “fonte di ispirazione per Bill Gates”, compaiono aziende come Roadrunner, “soluzioni smart per il riciclo e lo smaltimento rifiuti”, PTSolutions, “terapie fisiche per gli ospedali” e perfino Chess.com, “destinazione online per l’apprendimento degli scacchi”. Tutte cose nobilissime. E poi c’è sempre Shein, che a questo punto vale più di Zara ed H&M insieme, oltre ad essere l’e-commerce più popolare del mondo, alimentato da un sistema di intelligenza artificiale e di profilazione grazie al quale le proposte che ricevete voi non sono quelle che riceve vostra figlia.
A proposito. Chi è il maggiore acquirente dei prodotti Shein? Ca va sans dire, i ragazzini che fino all’altr’anno protestavano contro il riscaldamento del pianeta ad opera delle multinazionali, viva Greta Thunberg. Shein li ha ghermiti, carpiti, sedotti fra una Dad e l’altra: una collega della Rai dice di non sapere come convincere la figlia sedicenne che il ciarpame usa-e-getta di cui si è riempita il guardaroba (per procurarsi un abito alla settimana bastano la paghetta e una serata di baby sitting) costa moltissimo non solo al pianeta, ma ai lavoratori che prestano la propria opera al colosso.
Lo scorso anno, l’organizzazione indipendente Public Eye ha condotto un’inchiesta nel tentativo, in buona parte fallito, di far luce sul sistema, individuando fra diciassette aziende fornitrici della provincia di Guangzhou condizioni disumane di lavoro, fino a dodici ore al giorno per sette giorni alla settimana, con un solo giorno di vacanza al mese, paghe miserabili, tessuti di qualità infima eccetera eccetera, compreso un classico del tema dai tempi dell’incendio dell’8 marzo 1908 nella fabbrica di abbigliamento di New York in cui erano tenute, sotto chiave, duecento operaie: i locali sbarrati, senza uscite di emergenza.
Dunque, milioni di ragazzine e di donne soddisfano i propri sogni di poliestere a spese di migliaia di persone sfruttate, e decine di fondi li sovvenzionano mentre Zara e H&M perseguono le stesse dinamiche dei brand del lusso – sostenibilità, bilanci ambientali – e perdono terreno. Oggi è la Giornata Mondiale della Terra, prima di cliccare sul tasto “buy” di Shein ricordatevi che la sostenibilità non è solo Gucci che pianta l’ennesimo albero, non è un’azione che dipende solo dagli altri. La sostenibilità siamo, innanzitutto, noi che compriamo o meno.
Alla Scala