Il foglio della moda
L'inclusività ai vertici della moda è migliorata, ma c'è ancora tanto lavoro da fare
Seconda edizione dell’osservatorio annuale sul lavoro femminile in collaborazione con PwC. Aumentano le donne nei cda: Cucinelli, Ferragamo e Tod’s ai primi posti. Ma la strada verso la parità è ancora lunga. Non solo nell’abbigliamento
“La tendenza mi pare al costante miglioramento: non bisogna guardare solo al cammino che ancora resta da compiere, e che è certamente lungo. Ma tutte quelle freccette che puntano verso l’alto, quei segni positivi, mi sembrano l’indicatore più efficace di un costante miglioramento”, dice il presidente della Camera della Moda Carlo Capasa dopo la lettura dei dati che emergono dalla seconda edizione dell’Osservatorio sul lavoro femminile nella moda, dalle addette alla produzione, le sarte, fino alle componenti dei collegi sindacali, sviluppato ancora una volta da PwC Italia con la collaborazione del “Foglio della Moda”. Lo scorso anno, sempre a maggio che è un po’ il “mese delle donne”, venne lanciata la prima analisi, coinvolgendo tutte le associazioni della moda e della filiera produttiva, da Confindustria Moda, e in particolare SMI, a Cna, UNIC e Camera Moda: dimostrammo che, grossomodo e in sintesi, la posizione delle donne nel sistema non era, percentualmente, troppo diverso rispetto alla fine dell’Ottocento, e che ancora molte posizioni lavorative erano sostanzialmente precluse alle donne.
Un anno dopo, e di questo dobbiamo ringraziare non solo la legge Golfo-Mosca, ma anche un movimento trasversale di opinione per l’inclusione e la diversità che, in tutta evidenza, non è fatto di sole parole, la situazione è un po’ cambiata, in meglio, ai vertici. Benché l’Italia sia ancora lontana dalla media europea, dove la percentuale di donne nei consigli di amministrazione è del 32,7 per cento, nell’ultimo anno in Italia abbiamo assistito a una crescita dell’11,6 per cento di presenze femminili, che porta la media al l 25,6 per cento. Nel 2021, i best performer della ricerca guidata da Erika Andreetta, partner di PwC Italia per l’area luxury e consumer goods, sono Brunello Cucinelli (con sei donne nel cda), a pari merito con Salvatore Ferragamo. Segue Tod’s con cinque signore in consiglio, fra cui Chiara Ferragni, una scelta che fece versare molto inchiostro per la lungimiranza di Diego Della Valle. “Sono certo che, ai prossimi rinnovi, vedremo la quota salire ancora”, aggiunge Capasa, “anche perché la presenza femminile nei consigli inizia a dimostrare la propria validità in termini di risultati. Si sta sciogliendo un vulnus che, da una parte, non rendeva evidente alle aziende l’importanza di avere componenti femminili ai vertici delle cariche sociali, e dall’altra non metteva nemmeno le donne nella condizione, o suggeriva loro l’idea, di candidarsi”.
Secondo le analisi PwC effettuate sulle visure di cinquantasette aziende associate alla Camera Nazionale della Moda Italiana, tre donne su dieci sono entrate negli organi societari del comparto (30,4 per cento di rappresentanza femminile), segnando una crescita del 7,8 per cento sul 2020. Alta anche la presenza dei procuratori: i migliori risultati riguardano Bulgari e Dolce&Gabbana, con 30 donne, seguite da Loro Piana con quindici. Alla base della piramide del lavoro nella moda, le cose sono invece sostanzialmente invariate. Nel comparto del tessile-abbigliamento, l’occupazione femminile si concentra prevalentemente nella fascia di età dei quaranta (32,8 per cento) e dei cinquanta (32,4 per cento), mentre è decisamente minore sotto ai 29 anni (9,8 per cento) e attorno ai trenta, dove non arriva al venti per cento. La manodopera nella moda è femminile ed è pari al 59,8 per cento: quasi 7 donne su 10, cioè 69,3 per cento, sono operaie, a fronte di una quota dello 0,9 per cento di donne quadro e dello 0,3 per cento di donne dirigenti. Osserva Silvia Damiani, vicepresidente del gruppo fondato dai suoi nonni e che guida con i fratelli, occupandosi sia di gioielleria sia dell’arte del vetro con Venini, che la sua è “un’azienda molto “al femminile”: il 68 per cento dei nostri collaboratori”, spiega, “è costituito da donne, presenti in ogni dipartimento, dalle risorse umane al merchandising, al legale, alla comunicazione, ma anche alla logistica. Abbiamo una donna alla guida di uno dei mercati a maggiore espansione, la Corea del Sud”. Damiani, che ieri ha preso parte alla mattinata di presentazione e discussione dei dati della ricerca presso la Torre di PwC, è stata non a caso premiata dalla Regione Piemonte e dal Ministero del Lavoro nell’ambito del progetto “Aziende che investono sulle donne”.
Damiani ne va molto orgogliosa, come peraltro Angelica Visconti, vicepresidente di Ferragamo, a sua volta presente ai lavori a Milano: nel consiglio dell’azienda fiorentina spiccano nomi rilevanti come Anna Zanardi Cappon, executive coach e advisor di C-Level di quasi venti società di Fortune 500 Global. “Il femminile nelle aziende è un tema che mi è caro, provenendo da una famiglia con una forte esperienza in questo senso”, sorride Visconti pensando non solo alla sua formidabile nonna, Wanda Ferragamo Miletti che diede all’azienda l’impulso internazionale di cui gode tuttora, ma alle zie come Fiamma troppo presto scomparsa, a Giovanna e alla sua mamma, Fulvia, mancata da pochi anni, donna di grande creatività. “Oggi Ferragamo non è soltanto una delle aziende best performer per rappresentanza femminile nel consiglio, ma vede anche il 60 per cento delle posizioni manageriali occupate da donne e una valorizzazione del talento femminile a circa il 67 per cento della popolazione aziendale”, osserva
Quasi sette donne su dieci nella moda sono operaie. Le dirigenti non arrivano all’1 per cento
Non è però il caso di rallegrarsi troppo. Il gap con la media globale ed europea è ancora elevato: fra i player internazionali, secondo fonte Mediobanca ma che la sola presenza di Francesca di Carrobio di vertici di Hermès Italia o di Francesca Bellettini a quelli di Saint Laurent testimonia, la Francia è in testa con il 41,7 per cento di donne nei board, seguita dagli Stati Uniti (37,9 per cento) e dal Regno Unito (36 per cento). Come osserva Andreetta, “mi auguro che nel prossimo futuro la situazione possa migliorare ulteriormente e che sempre più aziende percepiscano il valore delle azioni portate avanti in sinergia”. Un tema sottolineato anche dal sottosegretario per la Cultura Lucia Borgonzoni, che ha aperto la mattinata di lavori e che poco tempo fa fece inserire nei fondi per le imprese culturali e artistiche del Mise l’artigianato artistico, con un fondo di 40 milioni in due anni. Ora arrivano le misure del PNRR, “un’occasione per colmare le disparità ancora esistenti”, dice, annunciando come “presto usciranno dei bandi del Ministero della Cultura che destineranno fondi pari a 155 milioni di euro per la transizione digitale e green delle imprese culturali e creative, che includono per la prima volta anche il settore moda. Il fattore uguaglianza di genere sarà dunque tra quelli premianti per l’assegnazione delle misure”. Resta però e comunque, sottolinea, un fatto culturale su cui bisogna lavorare ogni giorno”.
Non solo in Italia, comunque. A livello globale, nel 2021 sono state nominate poco più di 80 nuove CEO donne nel settore fashion, valore in flessione rispetto alle 100 nomine di AD femminili registrate nel 2020, secondo la classifica di Nextail. Non è un caso che in Italia, le donne raggiungano posizioni apicali nella moda soprattutto, o quasi esclusivamente, nel caso nascano o diventino imprenditrici, e il caso più eclatante di questi ultimi anni, si dovrebbe dire l’unico che abbia superato i cento milioni di fatturato, è quello di Elisabetta Franchi, straordinario esempio di tenacia e simpatia, non a caso diventata un fenomeno anche sui social. Lo scorso anno, lesse i risultati della ricerca e ammise, in un post rimasto celebre, di aver riflettuto molto sulla presenza femminile nella sua stessa azienda. Forse non faceva abbastanza, forse avrebbe potuto migliorare. In realtà, nella sua Betty Blue spa, ragione sociale il cui nome affonda le radici nella storia di una bambola molto amata, il personale femminile si avvicina all’80 per cento. Quest’anno però, come è venuta a raccontare al convegno, sono state introdotte due dirigenti donne, una delle quali nell’area molto delicata, e di solito preclusa o disattesa dalle donne per la disponibilità temporale che richiede, del commerciale. “È una grande responsabilità creare posti di lavoro e lo è ancora di più riuscire a mantenerli perché dietro a ogni mio collaboratore c’è una famiglia”, osserva Elisabetta Franchi. “Con l’idea che le imprese debbano valorizzare il capitale umano e favorire le uguaglianze, mi sono impegnata per aumentare la presenza di donne anche nei ruoli di rilievo. Le donne hanno risorse straordinarie e facendo sistema possono arrivare a grandi risultati”, dice, ammettendo che, però, per affiancarla seleziona donne che abbiano già raggiunto la maturità e non abbiano cioè impegni familiari invalidanti.
Duro ammetterlo, nonostante la ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti abbia da poco fatto approvare la Certificazione per la Parità di Genere che, ha ribadito all’incontro, “consentirà a tutte le imprese che portano avanti politiche per promuovere il lavoro femminile di avere vantaggi fiscali”. E’ il passo fondamentale evocato sia da Linda Laura Sabbadini, direttrice del Dipartimento per lo Sviluppo di Metodi e Tecnologie dell’Istat sia da Francesca di Carrobio, amministratore delegato di Hermès Italia, molto critica sulla cultura sociale di un paese che, peraltro, adora. L’azienda che offre asili, sostegno alle donne che lavorano, dice, deve godere di vantaggi e non essere penalizzata come accade ancora oggi. Assumere donne in un paese dove il congedo parentale sembra ancora una scelta impossibile per gli uomini è una scelta impegnativa, dice Franchi. Se si toglie il suo e pochi altri casi che hanno costruito una storia importante partendo da zero, il panorama è piuttosto desolante.
La Certificazione per la Parità di Genere aiuterà a defiscalizzare le imprese che assumono donne
Certo, c’è Miuccia Prada, che ha centuplicato il patrimonio e la storia di famiglia, dotandola anche di una rilevanza culturale mondiale che il negozio sotto la Galleria Vittorio Emanuele non avrebbe potuto nemmeno sognare. C’è Alberta Ferretti con la sua famiglia. Ma che fine ha fatto la generazione delle sarte e stiliste straordinarie come Iole Veneziani, Mila Schoen o anche delle Missoni, di cui non si riesce a vedere ancora un rilancio convincente? Per certi versi, appare più forte, come osservammo lo scorso anno in occasione della prima edizione della ricerca, la compagine delle comunicatrici. Emanuela Schmeidler, Karla Otto, Nora Parini, Isabella Errani, tutte a capo di grandi realtà e budget importanti che hanno ottenuto e sviluppato da sole. L’altra mattina, Errani ha organizzato la consueta presentazione in showroom: presentava le collezioni di trentacinque marchi. In pratica, sorridevano le visitatrici, un mini-salone White.
La situazione è migliore, e lo sottolinea il responsabile nazionale di CNA Federmoda Antonio Franceschini nelle piccole e medie imprese: oltre il 36 per cento delle pmi analizzate dalla ricerca dichiara infatti di avere un CdA con quota femminile superiore al 60 per cento, e quattro amministratori delegati su dieci sono donne. Nella filiera, dove le posizioni sono meno ambite, la manodopera femminile nel 2020 era pari al 59,8 per cento, superiore di oltre trenta punti percentuali alla media nel comparto manifatturiero nazionale nel suo complesso. In particolare, la quota dell’occupazione femminile nell’industria tessile è pari al 49 per cento, mentre raggiunge il 66,7 per cento nell’abbigliamento. A livello di qualifica, l’incidenza femminile più alta si registra nelle posizioni impiegatizie, dove le donne rappresentano il 67,5 per cento del totale degli impiegati e a seguire nei ruoli di produzione: il 58,2 per cento degli operai è donna così come il 58,1 per cento degli apprendisti. Più si sale, più le posizioni femminili si rarefanno: è già minoritaria la percentuale di donne “quadro”, pari al 37,6 per cento, e diminuisce ancora nei ruoli dirigenziali (22,6 per cento). Insomma, nel tessile-abbigliamento quasi sette donne su dieci (pari al 69,3 per cento) sono operaie, a fronte di una quota dello 0,9 per cento di donne quadro e 0,3 per cento di donne dirigenti. Nel settore conciario, certo specifico anche per l’impegno fisico che richiede, le donne rappresentano il 18 per cento dei lavoratori, per un valore assoluto di 3.109 addette di cui circa l’89 per cento è inquadrato con un contratto a tempo determinato. Solo il 9,3 per cento delle lavoratrici, a fonte UNIC, ricopre un ruolo esecutivo o dirigenziale nel comparto. Molte, spiega l’amministratore delegato di Lineapelle Fulvia Bacchi, lavorano nell’amministrazione o nei laboratori.
Per completare lo sguardo di insieme sull’occupazione femminile nella filiera della moda italiana, l’ufficio studi PwC ha diffuso inoltre un questionario per indagare la quota e il ruolo delle donne nei comparti produttivi delle PMI associate a CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato), CNMI, SMI e UNIC. Dall’indagine è emerso che per il 51 per cento del campione intervistato la percentuale di donne lavoratrici è superiore al 60 per cento, confermando la netta prevalenza femminile, mentre per il 70 per cento del campione la percentuale di donne lavoratrici è superiore al 40 per cento. Relativamente alle mansioni, il 41 per cento del campione registra un’occupazione femminile superiore al 60 per cento nel settore vendite, mentre per il 34 per cento la percentuale di lavoratrici supera il 60 per cento per le mansioni produttive. Relativamente agli ambiti presidiati, il 31 per cento delle donne nei ruoli manageriali lavorano nei dipartimenti di produzione, marketing (16,9 per cento) e finanza (14,5 per cento)
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