Intervista via Zoom
La petite bande di Claudio Luti
Ci sono i due figli quarantenni al marketing e al retail, ci sono gli investimenti nel private equity. Ma la grande passione del patron di Kartell, acquistata con la liquidazione di Versace trentacinque anni fa, è la trasmissione di saperi che ha sviluppato con i suoi dieci designer di riferimento
Le conversazioni con Claudio Luti prendono sempre un’aria di vaghezza rilassata. Risponde sempre a tutto, anche ad argomenti relativamente antipatici per il momento che stiamo vivendo, come per esempio all’evidenza che entrare nel gruppo dei suoi designer di riferimento – una decina, gli stessi da vent’anni, che con il tempo sono diventati amici e con cui condivide serate e vacanze – sia parecchio difficile.
“Ho pacchi di proposte sulla scrivania. Dovrei fare più scouting: adesso che arriva il Salone faccio un bel giro”, sorride conciliante. Giovani, continuate a bussare. Quando, dopo un’oretta, siamo arrivati ai saluti, ha un attimo di sospensione dell’eloquio. Sta riavvolgendo mentalmente il nastro delle vaghezze apparenti per essere sicuro che l’interlocutrice non abbia perso uno solo dei concetti che voleva trasmettere. “Abbiamo parlato dei vent’anni della Louis Ghost, vero?”. Certo che sì, la celeberrima poltroncina di Philippe Starck, policarbonato in un unico stampo. Ci siamo soffermati eccome, benché il focus fosse sul tema della legacy, del trasferimento di competenze e potere, degli eredi diretti o meno. Nel caso di Luti sono due, Lorenza e Federico, quarantatre e quarant’anni, rispettivamente direttore marketing e direttore commerciale, “che sentono entrambi molto la responsabilità familiare anche se io mi sforzo di non essere troppo presente, di guardare il meno possibile a quello che fanno, di concentrarmi su altri investimenti, principalmente nei fondi di private equity”.
“Mi sforzo di non essere troppo presente e di concentrarmi sugli altri investimenti. Ma ci sono”
Non solo moda, anzi: autogru, materiali per costruzione, una quindicina di anni fa, la Giochi Preziosi. Claudio Luti ama diversificare. Lo aiuta a non concentrarsi troppo sui policarbonati, evidentemente, e a guardare al futuro. “Sono ragazzi molto educati”, dice dei figli. “Attenti al benessere delle persone con cui lavorano, io mi prendo ancora molte responsabilità”. In sintesi, passaggio di consegne lontano. Fra una cosa e l’altra abbiamo parlato anche della nuova linea di occhiali da sole, e ci è parso di capire che l’accordo appena siglato con Allison, ex proprietà di Perna ai tempi d’oro di IT Holding, avrà una revisione già a fine anno: a poche settimane dal lancio, del centinaio di modelli prodotti non ne è in pratica rimasto uno in giro, produzione sold out, e fra pochi giorni Milano verrà invasa per il Salone del Mobile. È bello fare design, è anche incomparabilmente più costoso che produrre abiti (il prototipo di un vestito non supera i due-tremila euro e i dieci giorni di impegno, quello di una sedia richiede un anno di lavoro minimo e fino a mezzo milione di investimento): dunque, si legge in sottotesto nel sorriso di Luti, perdere una settimana di vendite e di moltiplicazione gratuita di notorietà è un vero peccato. Al Salone, di cui è stato presidente a lungo, Luti arriva con uno spazio di milleduecento metri quadrati bianchi di ispirazione giapponese, sviluppati con il consueto supporto di Ferruccio Laviani, il più fedele della banda dei fedelissimi che comprende come ovvio Starck: ogni tre settimane, l’uomo che ha ridato dignità ai nanetti da giardino prende un aereo dal Portogallo, approda nella banlieue milanese di Noviglio, sede di Kartell con i suoi oltre cento milioni di fatturato e il bel museo aziendale aperto vent’anni fa, dove discute per ore di progetti e varia umanità con il patron. Quando si collabora con un’azienda per progetti e non in via continuativa com’è il caso di designer star del calibro di Patricia Urquiola o Piero Lissoni, tenere il punto, cioè non perdere il contatto e il dialogo, è fondamentale. Alla Kartell, nata nel 1949 per volontà di Giulio e Anna Castelli, ingegnere chimico lui, che aveva lavorato con il Nobel Giulio Natta, lei architetto, arrivò attraverso il matrimonio con la figlia, Maria. “Bè, in realtà Kartell l’ho comprata con la liquidazione delle quote Versace. Ero già sposato”.
“Il mondo si è ristretto. La nostra idea di democrazia non è condivisa come credevamo”
Poche sere fa, alla cena per il trentennale di Altagamma, era seduto accanto al co-fondatore dell’associazione, Santo Versace: “Ci conoscemmo alla Scuola allievi ufficiali a Palmanova, reggimento Genova Cavalleria. Entrambi laureati in economia. Quando Gianni Versace capì che poteva mettersi da solo, Santo mi chiese di affiancarlo”. Nel 1988, dopo undici anni di gestione come amministratore delegato e centocinquanta franchisee nel mondo, Luti si era convinto di non poter dare di più alla Versace, mentre Kartell era entrata in una fase di declino. Rilevò il cento per cento dell’azienda di famiglia. Non lo fecero entrare fino a quando non ebbe firmata ogni singola carta: i suoceri forse temevano col suo sorriso conciliante avrebbe messo le mani su tutto anzitempo. Così Luti scoprì il “mondo della plastica” e dell’industrial design, si affannò per renderlo ancora più attraente e democratico nei prezzi. Iniziò a porsi qualche domanda sul suo uso e abuso pochi anni dopo. Era il periodo di affondo mediatico del consorzio Replastic, ora Corepla (si crede che la sostenibilità sia meraviglia recente del nostro senso etico: in realtà sono tre decenni che ci giriamo attorno). Nel 1993, creò un cestino da rifiuti con materiali di scarto, superando tutte le difficoltà dell’epoca nella lavorazione e nella solidità, “ma, per quanto facessimo, sulla superficie restavano dei puntini di diverso colore”.
Tentò anche con un tavolino. Cedeva. Ma non era l’unica problematica. L’estetica di allora era molto diversa da quella di oggi: chi acquistava design “voleva un oggetto perfetto e del tutto identico a un altro”. Fu un flop. Luti, però, ha capito la lezione, tanto che anche per i nuovi materiali di riciclo ha richiesto la trasparenza perfetta. Come dire, bella la sostenibilità e riempirsene la bocca sui social come fa l’universo mondo in genere senza capirne niente e soprattutto senza praticarla (“basterebbe una buona educazione ambientale perché pure quella usa e getta non fosse il problema che invece è diventata”, disse un anno fa Lorenza Luti a “Vanity Fair”), ma fidarsi dell’evoluzione del gusto pop e trasversale sarebbe una cattiva idea. L’oggetto nuovo, in genere, piace che si mostri come tale. Dunque, accanto ai nuovi prodotti vi sono molte prove, sui polimeri (“derivato da materiali di scarto dell’industria della cellulosa e della carta”) come sui biomateriali, a partire dal legno (“per la curvatura a cui volevamo portarlo abbiamo lavorato a lungo, brevettandola”).
Luti tiene ad elencare tutte le certificazioni ottenute, compresa la greenguard per le emissioni di Co2. Il mondo di domani, forse, avrà imparato a leggerle come ha fatto con gli ingredienti dei biscotti. Quello di oggi è particolarmente complicato. Se il Salone del Mobile è “irripetibile e irreplicabile altrove”, non ci sono dubbi che per questa edizione si dovranno contare parecchie assenze. La Cina, parzialmente, la Russia, ovviamente l’Ucraina. Mosca e san Pietroburgo sono un problema: “Per noi, come per la moda, valeva al massimo il 2 per cento. Ma nel pensiero dei russi, l’arredo è solo italiano”. Al Salone sono arrivare molte richieste dall’India, dice, ma “la verità è che chiunque faccia delle previsioni adesso rischia di sbagliare”. Di sicuro, osserva, “ci siamo resi conto con violenza che il mondo è diventato più piccolo, e che il nostro concetto di democrazia non è condiviso come credevamo”.
manifattura