il foglio della moda
Le famiglie dell'alta moda: il dilemma dell'eredità
Da Louis Vuitton a Kering, spesso i brand del lusso scelgono un erede che sia anche un parente. Ma la successione, nel fashion, è una questione culturale: "Non vogliamo vivere col tarlo di ciò che sarà di noi: vogliamo vivere"
Un tempo ritenute pietre angolari dell’imprenditoria italiana, le aziende a conduzione familiare, e in modo specifico quelle che producono beni d’estrema qualità, a un certo punto son diventate simbolo e sintomo della malaeconomia made in Italy. Troppo alti i pericoli: consegnare l’azienda alla prole che non sopporta la prigionia della domesticità di lusso e le asfissianti faide parentali oppure, au contraire, ritrovarsi in ditta eredi riluttanti a diventare boss, che preferiscono vivere comodamente di rendita sperperando patrimoni accumulati dagli avi. Secondo gli economisti extra-peninsulari, in generale era meglio aprirsi a presenze nuove sia dal lato creativo, sia da quello amministrativo per fermare quel “familismo amorale”, secondo il termine coniato da Edward C. Banfield in “Le basi morali di una società arretrata”, sì, la nostra, che segue le regole di “massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare e supporre che tutti gli altri si comportino allo stesso modo”.
Oggi, il cambio di rotta: con la pandemia si è scoperto che le imprese familiari hanno continuato a sostenere l’economia nazionale per lo stretto rapporto con il territorio; che il loro indebitamento è inferiore rispetto alle concorrenti, così come inferiore è la quota di utili destinata ai dividendi, perché preferiscono investirli in ditta. Piacciono ai politici perché creano posti di lavoro relativamente più sicuri, all’opinione pubblica perché mantengono un legame con le comunità locali, ai manager per la loro visione a lungo termine. Perfino i mastodonti del lusso, ovvero i gruppi LVMH e Kering, hanno inserito le loro creature ai vertici della piramide del potere: nel primo, Delphine Arnault, figlia del fondatore Bernard, siede alla destra del padre come vicepresidente di Louis Vuitton mentre, nel secondo, presidente e amministratore delegato è François-Henri Pinault, primogenito di François Pinault, proprietario dell’impero (molta creatività nella finanza ma molto meno nell’onomastica, visto che il giglio di François-Henri si chiama François). Per cui, cambiato il punto di vista, oggi il centro della conversazione si è spostato alla presa di coscienza che, in tema di continuità aziendale, la capacità di generare non è una garanzia. C’è sempre, certo, la soluzione Menotti: l’inventore del Festival di Spoleto adottò un giovane più che maggiorenne, Francis, a cui diede il suo cognome e l’onere di portare avanti la kermesse umbra: l’erede acquisito, però, la portò a livelli così bassi da esserne estromesso.
“Buffo come un mondo che vive sul culto dell’heritage, quando deve affrontare il passaggio generazionale lo posticipi finché il problema diventa ineludibile”. Si è a chiacchiera con Fausto Caletti, designer ed esperto di moda, facendo giochini un po’ macabri. Vagheggia di Walter Albini. Chissà come si sarebbe evoluto nel tempo il lavoro di un genio in purezza come lui, per il quale Anna Piaggi coniò il termine “stilista”, che profetizzò il ruolo del direttore creativo e di Milano come capitale della moda italiana e che morì di Aids a quarantadue anni nel 1983, se solo avesse trovato un successore motivato a mantenerne vivo il gusto. Albini aveva lavorato molto per Krizia, alias Mariuccia Mandelli, mancata nel 2015, geniale quanto lui, tanto da anticipare tutto, nella moda: dal centro culturale in showroom alle collaborazioni con i colleghi, da Alber Elbaz a Giambattista Valli. “Chissà a quante mostre, adesso, sarebbero esposti i meravigliosi abiti stampati di Pino Lancetti, il “sarto pittore” dell’alta moda romana che si distinse per i tessuti ispirati alle opere dei maestri dell’arte contemporanea”, osserva. Caletti.
Lancetti morì nel 2007. Il marchio è scomparso.. “Se fai un lavoro che ti piace e ti appassiona, non vivi pensando a quello che lascerai dopo di te: nel nostro caso, se non ci fosse stato lei a chiedermelo, sarebbe un discorso rimasto in sospeso, magari formulato ma continuamente rimandato”, osserva Toni Scervino, amministratore delegato di Ermanno Scervino (l’anima creativa del marchio è Ermanno Daelli, che però non usa mai il proprio cognome; anzi, non vuole proprio che si usi). “Non vogliamo vivere col tarlo di ciò che sarà di noi: vogliamo vivere, quello sì, facendo da ponte con l’artigianato e la manualità italiana che amiamo a tal punto da aver aperto una scuola per sarte e modelliste dove le maestre sono ex dipendenti andate in pensione, ovviamente pagate. È nostro interesse tramandare quei valori e quelle competenze che ci hanno fatto apprezzare nel mondo, piuttosto che pensare al nostro “dopo””.
Ma, insistiamo, se l’“adesso” va così bene, perché rifiutarsi di pensare a un futuro, dato che la loro è una delle poche aziende rimaste completamente italiane anche dal punto di vista economico? Perché buttarla sul poetico quando si tratta di aziende che sono nate con persone che hanno rischiato i loro soldi? “Beh, certo. Sarebbe un sogno, per esempio, non tanto trovare finanziatori, ma altri imprenditori con cui fare progetti in comune pur mantenendo ognuno una propria specificità”, dice Scervino. “La nostra, più che un’azienda, vorrebbe diventare una scuola”. C’è chi sta cercando di rimanere indipendente pur senza generazioni pronte a seguirlo in azienda come Saverio Palatella, persona riservata e cantore del lusso discreto che, oltre alla propria, firma in incognito altre linee: “Avevo identificato una stilista a cui avrei volentieri pensato per un’eventuale transizione, ma è stata assunta da Chanel. Ora ce n’è un’altra sotto la mia ala, ma rimarrà?”. Palatella parla di “passaggio di testimone”, anche se, confessa, aveva anche pensato di vendere, massimizzando il successo. “Con il mio ex compagno e agente, Michael Gabriel, che vive in America, non ci dispiacerebbe trovare un finanziatore. Staremo a vedere”.
Cautela e prudenza venate di crepuscolarismo: perché è ancora un tabù il family-business-per-chi-non-ha-family? È un peccato, perché ad ascoltare Dario Minutella, principal della società della società di ricerca e consulenza internazionale Kearney, “la mancanza di eredi diretti toglie solo un’alternativa alle potenziali strategie che il titolare può perseguire, ovvero la semplice successione. Per esempio, un itinerario che gli imprenditori fanno molta fatica ad accettare, siamo un popolo di individualisti, sarebbe quella di mettersi insieme, per costituire un polo del lusso. Però, per esempio, un caso luminoso è stato quello di due imprenditori, Remo Ruffini di Moncler e Carlo Rivetti di Stone Island hanno deciso di creare “una famiglia”, come dicono loro, anche se nei fatti Moncler ha acquisito Stone Island.
Renzo Rosso, invece, crede molto nel contrario: cioè creare un polo del lusso italiano, impegno in cui persiste da molti anni, pur mettendo nel ventaglio dei suoi marchi anche nomi non italiani, come Viktor & Rolf, Maison Margiela, Jil Sander accanto a Marni, Diesel e a licenze come DSquared2. Infine” aggiunge, “una modalità che forse è passata un po’ più sottotraccia è stato l’incremento azionario nella Giorgio Armani (dallo stilista è stato tutto smentito, ndr) di Exor, holding della famiglia Agnelli, che negli ultimi anni ha rilevato da Hermès una partecipazione di maggioranza nel gruppo del lusso cinese Shang Xia, accrescendo la sua presenza nel settore anche tramite l'acquisto di una partecipazione del 24 per cento della società di Christian Louboutin: un polo del lusso più da investitore che da proprietario”.
Ecco, forse cercare degli investitori che corroborino il processo creativo e produttivo (ah, trovarli!) è un altro modo per rimanere sul mercato. “Nessuno vende da solo, soprattutto quando temi come la sostenibilità, la supply chain e l’omnicanalità richiederanno grandi esborsi per allinearsi a quello che sarà una realtà diffusa, che richiede nuove tecnologie”. E invece non si potrebbesemplicemente chiudere? Come per gli artisti, una volta passati a miglior vita accantonare tele e pennelli, invece di far vivere artificialmente maison e atelier immobili per vendere profumi e chincaglierie? Sarebbe un sacrilegio o una maniera per lasciare spazio ai nomi nuovi? “Provocazione interessante’, sorride Minutella. “La moda è uno strano settore: ha una memoria storica cortissima, e un’immaginazione infinitamente estesa. Mentre i clienti hanno bisogno dei mattoncini dell’heritage che, come in una costruzione Lego, ne conformino la struttura mitica, leggendaria. E questi mattoncini sono rappresentati dai grandi marchi del passato di cui, anche psicologicamente, continuiamo ad aver bisogno. Anche se dobbiamo continuamente rispolverarli e aggiornarli”.
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