La moda in musica
Siamo immersi in un vortice di immagini e l’indifferenza è dietro l’angolo. Il suono non è più solo una didascalia. Ecco quali sono le ricette degli stilisti
Sullo schermo dello smartphone compare un numero di cellulare ignoto. E’ l’ora di pranzo, sarà la solita povera operatrice del marketing telefonico selvaggio che i più trattano malissimo e i pavidi, come la qui presente, vigliaccamente rimbalzano senza rispondere. Il registro pubblico delle opposizioni debutta fra quindici giorni, la società del caso starà sfruttando al massimo le ultime due settimane di gloria impositiva. Un minuto dopo, lo schermo si illumina su un messaggio whatsapp proveniente dallo stesso numero sconosciuto: “Buonasera, Kean Etro ha intitolato la sua sfilata di domenica 19 giugno alla ‘potenza selvaggia della poesia’ e ha chiesto a noi attori e attrici de ‘Il Menù della Poesia’ di omaggiarla di una lirica al telefono scelta per lei”. Un invito in poesia, modello Bembo. Penso a Gianni Rodari, alle “Favole al telefono” e al “Palazzo di gelato” ma anche al Cinquecento cortigiano, appunto. Un po’ di non sense ci starebbe benissimo. Ci accordiamo per iscritto su un orario di #poetrydelivery, scritto con l’hashtag in caso volessi postare; alle nove del mattino successivo arriva la telefonata poetica di Matteo che imposta la voce à la Albertazzi e recita un componimento di Alda Merini sul coraggio di vivere.
Per la sua nuova collezione Gianluca Isaia ha commissionto una melodia sulla storia della sua famiglia e del suo rapporto con Napoli
Percepisco in sottotesto una valutazione sulla difficoltà di chi fa e deve rendere desiderabili i vestiti che, nella loro funzione precipua, sono diventati una commodity da secoli. Kean Etro lascerà la direzione creativa a Marco De Vincenzo dalla prossima stagione: il brand è entrato nell’orbita del gruppo Lvmh da quasi un anno, e di quel “giro” il talentuoso Marco fa parte dagli anni della collaborazione con Fendi per gli accessori. Segue convocazione digitale e assegnazione del posto. Peccato per Rodari. Nel frattempo mi informo: “Il Menu della poesia” è un’associazione culturale torinese che propone recite in “contesti non convenzionali”. Dal primo lockdown ha iniziato a proporre poesie al telefono, dicono “brevi momenti di sospensione e cura per l’anima” per “accorciare le distanze”.
Sul loro posizionamento come “Menu della poesia”, nel logo un vassoio di libri come simbolico schiaffo alla massima apocrifa sulla cultura che non mette il pane in tavola, devono aver incrociato a un certo punto qualche esponente dell’ufficio comunicazione di Etro, forse lo stesso Kean e per loro fortuna, perché gli invitati a una sfilata che si terrà domani all’Università Bocconi sono a occhio e croce cinquecento e questi giovani attori devono essere stati impegnati per una settimana, minimo, fra scelta delle liriche, telefonate, eventuali recall. Molti menu, moltissimo pane in tavola.
Per la sua nuova collezione e il suo contributo all’estetica generale, perché questo è ormai la moda di lusso, cioè un momento di cura di sé e di gioia dimentica (a Pitti Uomo si è discusso molto delle nuove aperture di boutique a Kyiv e a Odessa e sembrava di rileggere certi periodici femminili del 1943 che insistevano sulla necessità di vestirsi con gusto ed eleganza, chi mai ha parlato di bombe), Gianluca Isaia ha commissionato addirittura una melodia sulla storia della sua famiglia e del suo rapporto storico con Napoli. Al telefono, racconta come il recente rapporto di partnership con il Teatro san Carlo gli abbia fatto comprendere il valore simbolico e psicologico della musica più di quanto gli sia mai accaduto e che questa melodia, “Napoli dentro”, sia nata “discutendo e ridendosela durante una serata tra amici, co’ nu piatto ’e spaghetti sciuè sciuè” condiviso con Bruno Lanza, paroliere di Gigi Finizio e Andrea Bocelli, e con Sally Monetti, erede della sartoria che vestiva Enrico Caruso e che a tempo neanche troppo perso scrive e compone musica. Verrà presentata anche questa domattina, a Milano per una Fashion Week maschile non troppo affollata, corredata da un video che un po’ rallegra e un po’ stringe il cuore come tutta la canzone napoletana (davvero abbiamo accolto con quei sorrisi giubilanti le truppe americane di cui Curzio Malaparte raccontò il risvolto oscuro ne “La pelle”?).
Quando non si ha più bisogno di niente, il desiderio dell'ennesima giacca si accende solo agendo sull'emozionje e sul coinvolgimento dei sensi
Se voleste andare ad ascoltarla su Spotify o su YouTube, trovereste che già più di tremila persone l’hanno scaricata, ascoltata, diffusa e condivisa, anche attraverso il sito del suo interprete, Francesco Malapena, tenore classico, “che ho scelto per accentuare ulteriormente il ritmo e la temperatura emotiva del brano”, come aggiunge Isaia, toccando quello che è il punto centrale della nuova e improvvisa mania della moda di alta gamma per tutto quanto non la metta sfacciatamente in mostra, non la renda immediatamente evidente, visualizzabile con un clic, e che è appunto il coinvolgimento emotivo.
Quando non si ha più bisogno di niente, situazione in cui si trova appunto una quota non marginale del mondo a dispetto dei nuovi allarmi inflattivi (le borse calano da inizio anno, ma c’è in giro un sacco di liquidità), il desiderio di acquisto dell’ennesima giacca si accende solo agendo sull’emozione e cioè sul coinvolgimento dei sensi. Due, il tatto e la vista, in questi ultimi anni si sono fin troppo usurati fra “esperienze in boutique” e social selvaggi di influencer improvvisati, dal tasso di conversione dubbio sulle vendite e post dalla sintassi incerta. Escludendo il gusto, dove pure la moda si esercita con interesse da anni ma in attività dichiaratamente collaterali, alla prova della comunicazione sono rimasti l’olfatto, che però richiede la presenza o la disponibilità (nello scatolone-archivio degli inviti più interessanti degli ultimi venticinque anni aleggia ancora il profumo di un biglietto targato Moschino ed è noto che Giorgio Armani riceva i propri ospiti solo dopo aver cosparso nell’ambiente la sua essenza preferita in funzione evocativa, ma gli esempi sono rari) e infine quello che nessuno dei semiologi aveva finora mai preso in considerazione, e cioè appunto l’udito.
La moda narrata a voce, fino a oggi, è stata infatti campo esclusivo della favolistica, modello fiabe sonore Fabbri “a mille ce n’è”, che comunque venivano valorizzate dalle splendide immagini riprodotte sugli album che contenevano il 45 giri. La musica e parole cantate hanno generalmente solo accompagnato la moda, in versione semantica equivalente a quella di una didascalia. Un tempo, dai primi del Novecento di Lady Duff Gordon in pubblico, la direttrice della maison o della boutique declamava le virtù di ogni singolo modello a voce alta, per informarne la platea: avrete certamente presente la celebre scena di “Roberta”, musical simbolo degli anni Trenta, dove Irene Dunne presenta la sua prima collezione ufficiale sulle note di “Lovely to look at”, oppure la sfilata di “Donne” di Cukor che permise ad Adrian di farla finita con i costumi per le attrici di Hollywood e di mettersi finalmente in proprio come stilista. Il coinvolgimento auditivo di oggi ne è un’evoluzione in chiave più narrativa che didascalica, e non poteva essere altro, in anni di marketing dello storytelling, cioè del racconto.
Chi crede che questa nuova ossessione della moda per la narrazione vocale e il potere simbolico-sacrale del suono sia un derivato del boom dei podcast quasi certamente si sbaglia: è giusto il contrario. Come segnala da Londra Raffaele Tovazzi, nato filosofo e ora direttore creativo dell’audio factory “Dr Podcast”, “il mondo della moda, che fino a oggi ha costruito il proprio messaggio su una grammatica di liturgie tipicamente visive – forme colori, prospettive – oggi vive quella che definirei una ‘interferenza di rappresentazione’, un ostacolo dato appunto dalla sovraesposizione del nostro canale visivo.
Raffaele Tovazzim direttore creativo del 'Dr. Podcast': 'Il mondo della moda oggi vive una "interferenza di rappresentazione'
"La nostra vista è satura di informazioni, che ci vengono offerte in una misura sconosciuta nella storia dell’umanità fino a oggi”, prosegue. Qualcuno ha tentato di quantificarle, arrivando a concludere che il nostro cervello venga esposto a 34 gigabyte di sollecitazioni visive al giorno. “I sensi”, avverte, “sono portali di una dimensione più intima della coscienza, e nel ‘portale visivo’ esiste una dimensione che rischia di condannare anche la moda proposta solo per immagini e icone a una graduale indifferenza”. La voce di un podcast, che apparentemente e negli esempi più riusciti parla solo a te, come il narratore delle fiabe sonore che a noi bambini dei Sessanta ricordava il giovane zio affascinante, diventa quindi medium di riconnessione con il proprio sé, con una dimensione intima della vita e una ricerca di quelli che Tovazzi definisce “paesaggi sonori” e che in tanti iniziano a perseguire, sottraendosi via via ai social.
Al momento e non a caso, i podcast sono il mezzo a crescita più rapida anche in Italia, con 13 milioni di affezionati, in crescita del 45 per cento tendenziale in questo secondo semestre 2022. In generale il podcast è mezzo per un pubblico adulto ma giovane, cioè di età inferiore ai trentacinque anni, che lo “consuma” principalmente sullo smartphone o sul pc (73 contro 38 per cento) e in prevalenza in auto. Non di rado, accanto o in sostituzione delle notizie via radio (uno dei grandi errori è di confondere le due cose, come si stanno accorgendo alcune società editrici).
E' la dimensione visionaria he manca a quest'orgia di immagini, dice l'ad di Musica per Roma presentando "Relative calm" di Bob Wilson
Scrive Salman Rushdie in uno dei testi che accompagnano i manufatti e i testi medici della splendida mostra “Human brains. It begins with an idea” a Ca’ Corner della Regina, sede della Fondazione Prada, come la coscienza umana notturna, l’io profondo nasca attorno alla parola, al racconto, all’espressione vocale, alla U primigenia. “Ci domandavamo come non stessimo tutti vivendo due vite, una diurna e una notturna e supponevamo che ciascuna delle due vite potesse essere la U dell’altra. Forse anche il nostro io dell’U ricordava solo frammenti della nostra vita da svegli e cercava di ricavarne un senso (...) alla fine, le cose insensate le abbiamo chiamate mamu, sogni. Quelle dotate di senso mashngi, visioni”.
Ecco, è la dimensione visionaria che inizia a mancare a quest’orgia di immagini in cui siamo tutti immersi nostro malgrado, il rapporto unico, singolare, non sempre e comunque “condiviso” dell’esistenza, il nostro ascoltarci senza premere costantemente il tasto “delete”, giorno dopo giorno, secondo quanto osservava l’amministratore delegato di Musica per Roma Daniele Pitteri presentando la prima assoluta di “Relative calm” di Bob Wilson, spettacolo su cui lavora con la coreografa Lucinda Childs dal 1981 e che è approdato ieri sera alla Sala Petrassi su musiche di John Adams, Jon Gibson e su una rivisitazione del “Pulcinella” di Igor Stravinsky, composta originariamente per i “Ballets Russes” di Sergej Diaghilev e di cui ricorre il centenario della versione strumentale. Abbiamo bisogno di un “tempo relativo”, di una calma almeno parziale, di un tempo non assoluto, un tempo e un modo che traccino “una linea di confine netta con il tempo di quest’epoca, freneticamente rivolta fuori da sé, solo verso l’imminente. Come se oltre oggi non esistesse e non fosse nulla.
Questa dimensione, al momento, questa cristallizzazione ci è permessa solo dall’oralità, dalla culla sonora della voce, della musica, del suono”. Un suono carico di significati e di sensi, come quelli messi in scena l’altra sera a palazzo Medici Riccardi da Grace Wales Bonner, trentenne anglo-giamaicana, Lvmh Prize del 2016, per la sua prima sfilata da solo al di fuori dell’Inghilterra, per enfatizzare il métissage artistico e culturale fra Africa ed Europa nelle stanze un tempo occupate da Alessandro de’ Medici, il “duca moro”. La colonna sonora delle hit del momento sembra del tutto superata, di fronte alle architetture sonore su cui si sta spostando la moda che fino all’altroieri si celebrava non solo per immagini, ma addirittura senza testo. Se penso che nei novanta bastava la mano del fotografo per vendere un servizio di moda ai giornali, sembra già trascorso un millennio.
Alla Scala