altro che usa
Il post-streetwear del marchio Wacko Maria reinventa lo stile
Quel made in Usa che rimbalza tra le sponde del pacifico e torna in Giappone per un vestire sperimentale e futuristico
In fatto di moda, gli stilisti giapponesi sono sempre stati dei grandi studiosi della propria tradizione e degli attentissimi osservatori dell’iconografia americana ed europea. Senza andare troppo indietro nel tempo, basti pensare al ruolo che hanno giocato Rei Kawakubo con Comme des Garçons e Yohji Yamamoto con la sua linea omonima nel ridefinire il concetto di avanguardia grazie alle loro collezioni che, fin dai primi anni Ottanta, hanno sconvolto le catwalk parigine. Scelta di materiali innovativi e design dal carattere deciso: sono questi gli elementi che per molto tempo hanno guidato il meglio della moda nipponica e, nei primi Novanta, una ventina d’anni dopo l’esordio di Kawakubo e Yohji, li potevamo ancora ritrovare in parte nei marchi nati nel distretto di Ura-Harajuku a Shibuya: Neighborhood, Undercover e – poco più tardi – WTAPS.
Queste realtà, sviluppatesi in una scena tanto interconnessa quanto prolifica e spesso guidate da amici con gusti e visioni comuni (Tetsu Nishiyama di WTAPS e Shinzuke Takizawa di Neighborhood, per esempio, sono vecchi compagni di scuola), sono quelle che hanno codificato l’estetica dello streetwear, insegnandola anche agli americani, che lo streetwear se l’erano inventati con la diffusione dello stile hip hop della East Coast e della cultura skater californiana.
Può sembrare un’assurdità, ma è proprio così: i giovani americani hanno (più o meno inconsapevolmente) gettato le basi di un nuovo modo di vestire, ma sono stati soprattutto i giapponesi del distretto di Ura-Harajuku a istituzionalizzarlo.
Per un’ironia del destino, lo streetwear ha poi fatto il giro ed è dovuto tornare negli Usa per trovare il modello di marketing che gli ha permesso, nel giro di pochi anni, di diventare una realtà economica capace di destare l’attenzione delle più blasonate case di moda tradizionali. Infatti, come spiegavo su queste pagine la scorsa settimana, è stata l’americana Supreme a definire la centralità del drop e della tiratura limitata nel modo di vendere (e rendere prezioso, raro e altamente desiderabile) lo streetwear, seguita poi da Virgil Abloh e i suoi tanti progetti, prima con Kanye West (del quale è stato a lungo direttore creativo) poi per Off-White, sotto la guida illuminata di un manipolo di investitori italiani: il milanesissimo New Guards Group di Claudio Antonioli, Davide De Giglio e Marcelo Burlon.
Oggi, dopo Abloh, lo scenario internazionale dello streetwear è profondamente cambiato: nessuno si sorprende più che una multinazionale dell’alta moda (e dei beni di lusso in generale) come LVMH, che controlla Luis Vuitton, Dior, Fendi, Céline e decine di altri marchi di primo livello, punti molte risorse sullo streetwear. Ed è in questo scenario che, consapevoli dei nuovi criteri della moda e forti della loro profonda conoscenza della materia, i giapponesi sono tornati all’assalto come i Dothraki di Game of Thrones.
E il nome più interessante (e quindi più collezionabile) in questa seconda ondata dello streetwear giapponese è senza dubbio Wacko Maria, un marchio fondato nel 2005 da due ex calciatori professionisti: Keiji Ishizuka (attaccante) e Atsuhiko Mori (portiere). Oggi, Mori è la forza trainante del progetto e la sua influenza è evidente, visto che nei design di Wacko Maria affiorano tutte le sue ossessioni musicali (il reggae prima di tutto) e cinematografiche, che spaziano da The Texas Chainsaw Massacre a Bob Dylan. Ogni aspetto della cultura alta e bassa può trovare spazio nelle creazioni di Wacko Maria, perché Mori ha una mentalità onnivora e vorace, capace di prendere idee e rielaborarle, nella migliore tradizione dello streetwear. Tant’è che ormai c’è da chiedersi: ma davanti a una realtà affascinante come Wacko Maria, possiamo ancora parlare di streetwear?
Ormai lo streetwear è ovunque, tutto è streetwear, quindi niente più lo è. Dello streetwear oggi resta solo il modello di business e marketing, ma possiamo ancora prendere questo fenomeno planetario e ridurlo alle felpe col cappuccio degli skater di San Francisco? Non direi proprio.
Wacko Maria è post Virgil Abloh, è post Kanye West, è post Supreme.
Wacko Maria è moda pura.
manifattura