Il foglio della moda
Unire turismo e moda? Un vantaggio per tutti
Il solo shopping interessa sempre meno. Attorno alla cultura del vestire si gioca una quota interessante della nostra economia. Lo dimostra una ricerca di Banca Ifis
Non è facile stabilire quando le mostre sulla moda siano diventate una leva turistica: esistono dai primi del Novecento, erano già favolose quando al Met se ne occupava Diana Vreeland dopo l’uscita da Vogue America, cioè nei primi Anni Settanta. L’impressione è che il punto di svolta sia stata “Savage beauty”, l’esposizione dedicata a Lee Alexander McQueen, organizzata sempre dal Met nel 2011, cioè un anno dopo il suicidio del designer che, duole dirlo, probabilmente fu uno dei molti motivi del successo dell’impresa (voyeurismo e morbosità sono pulsioni umane potentissime, come è evidente anche dall’uso spregiudicato, se non criminale, che molti fanno dei social).
Sulla gradinata del grande palazzo di Central Park si misero in coda 661mila persone, e oltre 480mila affollarono la mostra nella sua seconda tappa, a Londra, al Victoria&Albert Museum. Da allora, per tutto il secondo decennio del Duemila, quella mostra favolosa perfino nei manichini, modellati per l’occasione in forme zoomorfe o aliene, è stata la pietra di paragone per qualunque epigono, fino all’avvento del progetto, a sua volta itinerante, di Dior “Couturier du reve” o “designer of dreams” per tutti i paesi che sono seguiti al debutto al Musée des Arts Décoratifs del Louvre, che l’ha sostituita come modello in particolare nel calcolo del numero di pezzi e oggetti esposti.
Sempre più grandi, sempre più ricche, importanti, non di rado affiancate ad opere d’arte che facevano parte della collezione personale del designer, (vedi per esempio lo stesso Christian Dior, per tutto il primo periodo della propria carriera mercante d’arte, con Leonor Fini e Christian Bérard) o ne hanno caratterizzato la formazione e il gusto (la mostra ”Shocking!” in corso fino a allo stesso MAD di Parigi dedicata a Elsa Schiaparelli, quattro anni di lavoro e di recupero dei 520 fra capi, dei gioielli, dei profumi e delle opere d’arte, un percorso evolutivo dalla couturière del Surrealismo all’attuale erede Daniel Roseberry a cui, dice Diego Della Valle, patron del marchio dal 2006, in questi giorni impegnato in un’opa per delistare il titolo Tod’s in vista di nuovi investimenti, non aveva “potuto pensare prima perché mi mancava il direttore creativo adatto a un progetto come questo”), le esposizioni di moda, e la moda stessa come fattore culturale, sono diventate motivo di viaggio e di turismo.
L’idea che il turismo internazionale, ma anche locale, decida di effettuare percorsi o semplici escursioni nelle città solo per acquistare moda, cioè per fare shopping, è una lettura superficiale del fenomeno, smentita dagli stessi dati relativi alle visite ai musei che raccontano la moda. Non è un caso che un numero sempre maggiore di amministrazioni locali stanzi fondi per piccole iniziative legate alla valorizzazione culturale della moda e del territorio in cui è nata: al momento, Prato è fra le città più attive grazie all’importante polo del Museo del Tessuto, Forlì si sta organizzando, Venezia può contare sul Museo Mocenigo e il Fortuny appena riellestito da Pier Luigi Pizzi, mentre l’amministrazione milanese ha appena annunciato che affiancherà al piccolo gioiello del Museo Morando un centro di studi e valorizzazione della moda contemporanea a Palazzo Dugnani, e si spera lo farà con criteri di selezione adeguati all’importanza e del luogo e del progetto, perché l’appetito e gli interessi privati attorno all’idea sono molteplici e non sempre suggellati da storie di successo.
Negli ultimi anni, hanno visto aumentare le visite e le richieste anche i musei di impresa, come per esempio il Silos Armani o l’opificio Fortuny, dal 1998 di proprietà della famiglia Riad, di origine egiziana, ed è cresciuto iun modo esponenziale il sostegno delle imprese e delle associazioni della moda a monumenti storici, talvolta non direttamente correlati con il proprio business (un caso per tutti, quello del Colosseo restaurato dal gruppo Tod’s, antesignano del genere) o anche sì, come il progetto di restauro e conservazione, appena concluso, della bottega del conciatore a Pompei, finanziato da Unic.
Esiste, insomma, un circolo virtuoso fra turismo e moda non ancora sufficientemente esplorato o approfondito. Per questo, “Il Foglio della Moda” ha chiesto a Banca Ifis, che da anni ha sviluppato una strategia attraente attorno al tema, fondamentale per l’Europa, dell’”economia della bellezza”, di valutare il valore economico ed esperienziale del fashion tourism in Italia. Gli analisti, coordinati da Carmelo Carbotti, responsabile del marketing strategico e dell’ufficio studi di Banca Ifis, hanno lavorato su banche dati Istat, Bankitalia, Global Blue, Planet, Risposte turismo, dati web e stampa, e tarato le evidenze sul confronto, certo non facile, fra l’ultimo periodo pre-pandemico e quello progressivo attuale.
Il 38 per cento di chi visita l’Italia cerca produzioni tipiche che rappresentino la località visitata per gli acquisti di vestiario
Ne emerge che l’Italia è in grado di esprimere un valore annuo di 27 miliardi di euro nel turismo moda, considerando il 2019 come un anno medio di riferimento, cioè il 17 per cento del conto economico del turismo nazionale. Ma il punto ancora più interessante e rilevante è che il cosiddetto fashion tourism produce non solo spesa in acquisti (in percentuale 46 per cento), e muove le attività nei trasporti e nell’ospitalità (15 per cento e 39 per cento, rispettivamente), ma ricerca di esperienza. Il turista-moda, in particolare italiano, è un importante attivatore del co-marketing territoriale: uno su due considera importante abbinare allo shopping una componente esperienziale. Nello specifico: se il 63 per cento dichiara di spostarsi per l’eventuale presenza di sconti, saldi e promozioni, ben il 52 per cento percepisce come importante che la destinazione in cui fare acquisti abbia anche attrazioni e luoghi di interesse “altri”.
Il 38 per cento dei turisti dello shopping, in particolare, cercano produzioni tipiche e locali che rappresentino il territorio di destinazione. Non è un caso, dunque, che un grande sarto come Angelo Inglese lavori da anni al progetto di restauro di un borgo e di una masseria a Ginosa dove ospitare i propri clienti italiani e internazionali e, come racconta al telefono, “far conoscere il territorio dove nascono i loro abiti”. Nell’attesa, sta allestendo un palazzetto storico in centro città “perché le richieste di visita si moltiplicano”. Buona parte del successo di Brunello Cucinelli, lui è il primo ad esserne consapevole, è la seduzione che sui visitatori esercita il borgo di Solomeo, restaurato ed allestito con il gusto e la cura di una quinta teatrale: la moda deve sapersi mettere in scena.
Certo, secondo quanto emerge dalla ricerca, il biennio pandemico 2020-2021, a causa delle restrizioni alla circolazione, ha determinato una forte contrazione della spesa da fashion tourism (-42 per cento di spesa 2021 contro il 2019, ma il secondo fattore da tenere presente in questo scenario è il forte impatto del pubblico turistico nazionale sul sistema. Tendiamo sempre a concentrarci sulla spesa internazionale, senza renderci conto, cosa che invece la ricerca di Banca Ifis mette in rilievo, che il fashion tourism domestico generi una spesa complessiva, tra attività dirette e indirette, stimabile in 17 miliardi all’anno, pari al 62 per cento del conto economico del comparto, anche grazie a un apporto rilevante dei trasporti, cioè a una più elevata incidenza degli operatori nazionali.
Il 30 per cento degli italiani che viaggiano dichiara di muoversi per acquisti, prediligendo capi di abbigliamento e calzature e spendendo in media 74 euro al giorno sia nelle strade commerciali sia negli outlet, mentre i comportamenti d’acquisto dei turisti-moda stranieri sono diversificati: comprendono infatti shopping nelle arterie commerciali, città d’arte e outlet, attività prediletta dai russi che, però, rappresentano la quota di turismo mancante di questo ultimo semestre. Come sia cambiato il mix dei visitatori stranieri in Italia nell’ultimo periodo è infatti intuibile, e la ricerca lo mostra in modo chiaro. Il 2022, iniziato in ripresa, ha visto cambiare la composizione di chi arriva in Italia: sono cresciuti arabi, americani, israeliani e inglesi, mentre hanno rallentato di molto i viaggi cinesi e, come ovvio a causa dell’invasione dell’Ucraina e delle sanzioni, i russi.
Che forse non spendevano troppo in patria (l’impatto medio della spesa in moda di lusso italiana era del 2 per cento), ma molto all’estero. “Il nuovo mix”, predice Carbotti, “comporterà una riduzione della propensione alla spesa”. Sono però proprio gli inglesi e gli israeliani i visitatori potenziali più interessati e interessanti per i musei di impresa legati alla moda (un fenomeno nato negli Anni Ottanta grazie al progetto di valorizzazione dell’archivio e dell’heritage di Yves Saint Laurent e Pierre Bergé fra Parigi e Marrakech), e che in Italia sono collocati prevalentemente in Lombardia, Toscana, Lazio, Veneto e Piemonte.
“I musei d’impresa”, puntualizza la ricerca, “possono svolgere un ruolo importante per la valorizzazione del made-in-Italy e rappresentare un asset strategico di fondamentale importanza per lo sviluppo dell’identità e dell’immagine dei brand del settore moda”. Capitolo a parte gli outlet (27 i principali, concentrati al 33 per cento nelle regioni del nord est, con un flusso annuale di 20 milioni di visitatori) che, come nel caso di McArthurGlen, hanno compreso benissimo il proprio ruolo di destinazione esperienziale e, in partnership con il territorio, offrono visite guidate a centri d’arte, musei e perfino scavi archeologici come nel caso di Libarna, antica città romana i cui resti affiorano lungo la strada fra Arquata e Serravalle Scrivia.
Lo scorso giugno, anzi, il gruppo ha stretto un accordo e sviluppato un progetto con il Touring Club Italiano, “Ritratti d'Italia”, che ha l’obiettivo di far conoscere ed esplorare i territori intorno ai designer outlet. “In un confronto verticale con il turismo sportivo, fenomeno rilevante con 7,6 miliardi di spesa annua e che certo potrebbe essere valorizzato meglio”, come precisa Carbotti, aficionado degli Internazionali di Tennis al Foro Italico, “il turismo della moda esprime un valore 3,5 volte superiore. L’anno in corso è appunto iniziato in ripresa. Secondo Banca Ifis, il primo trimestre positivo si è concentrato in particolare su Milano, dove alla nuova e maggiorata presenza di arabi e americani si sono aggiunti gli inglesi, attirati dall’opportunità del tax free seguito alla Brexit ma, segnala la ricerca, un abbassamento dell’attuale limite del tax free (il minimo è fissato a 154,95 euro) potrebbe date all’Italia una maggiore competitiva nel settore del turismo, con effetti positivi per l’intera filiera.
Alla Scala