Il foglio della moda
Con Louboutin. L'appropriazione culturale è un tema senza senso e razzista
Con lo stilista francese a parlare di Flaubert e del necessarissimo dialogo fra epoche e civiltà in occasione della sua nuova mostra a Montecarlo. “Gli Elkann? I migliori partner che potessi trovare. Mi sento in famiglia”
In una saletta improvvisata del Grimaldi Forum di Montecarlo, da cui non si vede più il mare perché il nuovo, mostruoso sviluppo immobiliare sull’acqua dell’Anse du Portier l’ha reso un padiglione banale e costosissimo come tutto il resto del principato, Christian Louboutin resiste al freddo, così gelido da sembrare umido, di un’aria condizionata tarata sulla clientela-tipo della rocca: americani del sud, italiani che parlano in maggioranza un vernacolo campano incomprensibile, russi e molti ucraini. È Montecarlo, ma potrebbe essere Dubai, come sottolineerà la sera un agente immobiliare locale, inaspettatamente orgoglioso del paragone.
In questo non luogo dove nessuno cammina a piedi nonostante l’esiguità del territorio e non esiste mare aperto perché si nuota protetti da immensi ciambelloni a cinquanta metri da riva per non essere travolti dai motoscafi, il sire delle suole rosse, trademark garantito da una sentenza che ha fatto giurisprudenza, ha allestito il “Chapitre 2”, della sua mostra “Exhibition-niste”, grandioso percorso fra la tecnica, l’arte e la simbologia delle calzature, ma anche esposizione accorta delle sue passioni e del suo gusto eclettico per l’arte e l’antiquariato. Iniziò quattordicenne, trasportando con una fatica che ricorda immensa uno specchio veneziano da Marrakech (chissà come vi era finito) a Parigi, dove si era trasferito dalla sua Bretagna.
Adesso che i costi di trasporto per lui non sono più un problema e la liquidità nemmeno (nel marzo del 2021, la Exor rilevò il 24 per cento della maison per 541 milioni di euro grazie ai buoni uffici di Ginevra Elkann, i collaboratori raccontano estatici delle visite di Jaki e Lavinia Elkann al “Capitolo 1” della mostra, che si tenne al Palais de la Porte Dorée di Parigi nell’annus horribilis 2020), può permettersi di collezionare tutto quello che gli piace. Raccoglie in particolare ceramica e porcellana, mostrando un debole per Wedgwood, ma dice di amare anche le lacche, le variazioni sul bianco e blu, la scultura classica. Le sue calzature hanno reso omaggio al Giappone, all’Africa del Mali, all’Italia del Cinquecento, al cinema di Hollywood, al rock, a qualunque cosa lo attragga, lo interessi, gli susciti meraviglia. Dunque, non parlategli di appropriazione culturale.
Per lui che, come osserva il curatore della mostra, il direttore del Musée d’Art Décoratifs del Louvre Olivier Gabet, “ama sopra ogni cosa il dialogo fra epoche e civiltà”, il dibattito in corso, prevalentemente negli Stati Uniti ma con gli inevitabili cascami di un’Europa sempre pronta ad allinearsi, attorno al reato di interessamento alle esperienze e alle culture altrui, è “certamente legittimo come ogni dibattito, certamente complesso, ma anche piuttosto idiota. L’immaginario, l’esotismo, nascono da un paese come da un altro. Se iniziamo a risalire alle ispirazioni e alle contaminazioni fra civiltà e culture non ne veniamo fuori. Pensi alla Casa Bianca: neoclassica, dunque ispirata alla Grecia antica. La osservi, è un tempio greco. Le pare che i greci possano chiedere la distruzione dell’arte neoclassica, Casa Bianca compresa, perché si ispira alla loro tradizione culturale? Che si possa separare la cultura della Roma imperiale da quella greca o egizia? Dando retta agli esegeti del tema si finirebbe per distruggere tre quarti del mondo. Il dibattito sull’appropriazione culturale è un falso dibattito ed è anche razzista: se impongo a ciascuno di restare nella propria comunità, se i bianchi non devono parlare di quello che succede nella comunità nera e viceversa, che cosa ci aspetta? Che finiremo per vietare anche i matrimoni misti, come nel passato?”.
Il fatto che la corrente sia nata negli Stati Uniti lascia Louboutin ancora più interdetto, perché “spingendo la discussione al suo limite estremo, si finirebbe per toccare la stressa proprietà degli Stati Uniti, la cui metà, almeno, dovrebbe appartenere ai nativi. Non si può rifare il mondo, però è certo che l’appropriazione culturale porti alla pauperizzazione culturale (in francese, eufonico: “l’appropriation c’est l’appauvrissement”). Io sono nato da genitori francesi, sono bretone, avrò bene il diritto di interessarmi a culture estranee a quelle della Bretagna, desolé”. In questo secondo capitolo di una mostra che si vuole itinerante, variabile, declinata a seconda del luogo, delle opportunità e degli artisti con cui intende collaborare, Louboutin mostra per l’appunto l’approccio tipico del viaggiatore curioso, la grazia di coloro che, amando la conoscenza delle culture degli altri, riportano in patria souvenir e impressioni che a loro volta genereranno altre creazioni e nuovi progetti.
Un percorso fantastico, erudito e personalissimo, a cui il Museo Oceanografico di Monaco ha offerto un contributo molto importante, e il “giubilo di ore trascorse a scegliere i più begli esempi del trasferimento dalla natura alla creazione umana”, in una congerie inaspettata fra coralli e sculture Art Nouveau di piovre, smalti e una strepitosa mise en tete di piume appartenuta a Josephine Baker. Un museo immaginario che si interroga sulla differenza fra arte e artista e arte e artigianato. Fra il gioco di ombre delle calzature (la tecnica dell’ombra, della proiezione della scarpa, è un passaggio fondamentale nella definizione delle sue proporzioni) e una divertente riflessione sul kinky in forma di tappezzeria inglese, è esposto un ritratto di Louis de Beauvau, ambasciatore di Enrico IV in Inghilterra, datato 1598 e attribuito a François Quesnel, in braghe rigide e sbuffanti, farsetto e corazza, le lunghe gambe avviluppate in una calza di seta bianco madreperla, calzature in tinta.
Si tratta di un’ispirazione per le celebri décolletées “nude”, su cui ha lavorato anche con il duo di artisti Patrick Whitaker e Keir Malem per una serie di sculture di corpi femminili in cuoio di una sensualità inquietante, ma anche della rappresentazione dello sforzo che impone l’apparente mancanza di artificio, tema centrale nell’opera e nella produzione di Louboutin. Il culto della sprezzatura di Baldassarre Castiglione, che in Francia si incarna nella nonchalance, e al tempo stesso la ricerca della cambrure ideale, dell’arco perfetto del collo del piede, del passo calzato da una scarpa. La complicità con Carolina di Monaco, una delle sue prime clienti, nacque proprio attorno all’amore che entrambi nutrono per “la melodia del tacco”: la contraddanza del tacco alto.
“Penso che i tacchi siano destinati a un momento preciso della giornata, ma che siano anche un segno di civilizzazione. Che tutto nella moda venga rapportato al tema del comfort è un po’ deprimente”, osserva, mentre viene naturale pensare a quanto, in effetti, le fasi di splendore di molte civiltà abbiano coinciso con l’uso del tacco o della suola alta (le cioppine della Serenissima, a cui non a caso anche il designer ha reso omaggio con un modello in velluto e legno, i tacchi rossi della corte di Luigi XIV, “a cui molto devono le suole Louboutin”, i tacchi a rocchetto delle mules secentesche).
Volendo escludere le urticanti satire di Jonathan Swift sui cortigiani dai tacchi alti dei “Viaggi di Gulliver”, l’apparentamento fra il tacco alto e l’elevazione del pensiero potrebbe avere un proprio fondamento. Negli spazi rimodellati del Grimaldi Forum ci si aggira fra eccentriche vetrate cloisonné di simboli della storia di Louboutin (la parigina, lo spettacolo, la couture, l’arte, il viaggio, l’artigianato, la sensualità, l’innovazione), diorami, assolute follie come un palanchino in argento cesellato dell’Orfebreria Villareal di Siviglia che esalta un’ elaborazione del mito della “scarpetta di cristallo” realizzata da Stéphane Gerard, un teatrino ispirato alle tradizioni coreutiche del Bhutan, un percorso di scultura e di ombre sviluppato con Allen Jones attorno al tema, anche questo piuttosto ossessivo, della postura perfetta, che prende le mosse dalla ritrattistica egizia, e perfino la maquette dell’allestimento della “Salammbo” di Ernest Reyer del 1911 al Théatre du Casino di Montecarlo.
Si finisce, inevitabilmente, a parlare di Flaubert: “Amo Flaubert”, osserva: “Le lettere a sua nipote Caroline (futura protagonista di un delizioso romanzo di Willa Cather, nda) sono molto belle, in particolare dove le scrive dell’importanza della parola, del suo valore. Ci sono molti grandi scrittori, ma la limpidità della lingua di Flaubert, quella sua estrema, apparente semplicità che ti dà l’impressione di poter raggiungere lo stesso effetto quando in realtà sai benissimo quanto lavorasse per ottenerlo, bè, è quello che lascia più impressionati”, osserva, ricadendo ancora una volta, senza rendersene conto, sul tema della sprezzatura linguistica, della costruzione nonchalante che sì, appartiene solo ai grandi.
La mostra di Monaco, sostenuta dalla piattaforma di e-commerce di lusso Mytheresa che vi ha organizzato un ricevimento riservato per i suoi migliori clienti mondiali (“una cena con Louboutin è un’esperienza senza prezzo", mi sussurra di fronte al mare di Mentone una cliente della haute couture, volata apposta da Austin, Texas, che poche ore dopo prenderà un altro volo per Roma, destinazione l’atelier di Valentino in piazza Mignanelli) chiuderà a fine agosto, ma Louboutin è già proiettato sul “Capitolo 3” che “se tutto andrà nella direzione in cui deve andare”, si terrà in Cina dove, incidentalmente, gli Elkann hanno investito due anni fa nel marchio Shiang Xia dello stilista Yang Li, rilevandone il 90 per cento dalla famiglia Dumas-Hermès che ne ha conservato il restante 10.
Azionisti “ molto affettuosi, c’est comme une famille” dice Louboutin, spiegando poi come “in Cina ci siano artisti e artigiani che hanno un occhio particolare sulla ceramica e che reputo molto interessanti. Dunque, faranno parte del terzo capitolo di questa mostra, insieme con i lavori che avrò sviluppato nel frattempo”. Gabet sostiene che il museo immaginario di Louboutin sia una sorta di “cadavre exquis” surrealista nei modi e nei tempi del Ventunesimo secolo: “Si parte da un soggetto, che porta a un certo sviluppo, che porta verso un’altra direzione. Non richiama la struttura enciclopedica, cronologica o universitaria. Piuttosto, un avvicinamento per “famiglie”, per soggetti, che creano piccole storie: un dialogo un po’ inatteso, in un gioco grafico e di scrittura collettivo” e, verrebbe da dire, molto inclusivo. Che è, appunto, l’esatto contrario del reato, presunto e immensamente sciocco, di appropriazione culturale.