Il foglio della moda
John Galliano, il Tarantino della haute couture
Come rileggere il cinema on the road con il direttore creativo di Margiela. Che forse alla moda ha portato già tutto quello che doveva. Ma resta un grande narratore di universi. E uno showman fantastico
So poco di moda, per quanto non ne sia totalmente digiuno. Di Margiela possiedo quattro paia di sneakers della serie Replica, e nient’altro. Ho visitato più volte il negozio milanese di Via della Spiga, ma ne sono uscito sempre a mani vuote. “Non ciò il fisico”, mettiamola così, per indossare capi così eccentrici. Ma ho seguito sempre con curiosità e simpatia l’attività della maison, e dopo l’uscita di scena dell’eponimo fondatore Martin, nel 2015 ho appreso potrei dire addirittura con sgomento la scelta di affidarne a John Galliano la direzione creativa.
Non sono di quelli che avvertono la necessità di separare l’uomo dall’artista, anzi credo fermamente che se Caravaggio non fosse stato anche assassino, mai gli sarebbe guizzata l’intuizione di sprofondare corpi e volumi nel buio e concentrarsi su quanto delle loro superfici ne emerga colpito dalla luce di una torcia o di una candela. Tuttavia, quegli insulti antisemiti rivolti a due suoi vicini di tavolo in un ristorante, che sono costati a Galliano il licenziamento in tronco da Dior dopo quasi tre lustri di trionfale e leggendario servizio, non me la sono mai sentita di liquidarli come “inezie”. E quando, dopo un castigo di circa tre anni, è rientrato in scena dichiarandosi pronto per nuove stagioni creative, il suo incarico alla Maison Margiela mi ha suscitato non poche perplessità.
Sulla qualità delle sue recenti creazioni sartoriali non mi pronuncio. Lascio giudicare gli esperti (che tuttavia mi confermano: dopo i fasti iperbarocchi chez Dior, l’estro creativo dell’ex enfant prodige anglo-iberico protegé di Anna Wintour e Bernard Arnault, adorato da Charlize Theron, Eva Green e Kate Moss, ha perduto lo smalto di un tempo o, per meglio dire, non è più nello spirito del tempo). Ma so di cinema, ed è questa l’origine delle righe che seguono. Se infatti le stramberie, gli eccessi, la problematica portabilità dei suoi abiti me lo allontanano come eventuale inventore di abiti da indossare nella mia vita di tutti i giorni, sarebbe ingeneroso non riconoscergli quella volontà di rinascita e radicale rinnovamento concretamente dimostrata con l’adozione intensiva e convinta del mezzo cinematografico, al fine di illustrare il processo artigianale e i valori dei contenuti delle collezioni, in questi tempi pandemici che a lungo hanno inibito le manifestazioni in pubblico.
Se con S.W.A.L.K. e il suo sequel, S.W.A.L.K. II (entrambi rintracciabili su Youtube), realizzati per presentare le collezioni Autunno 2020 e Primavera-Estate 2021 in collaborazione con il fotografo inglese Nick Knight siamo nell’ambito del filmato pubblicitario di finissima fattura e caleidoscopica invenzione, è indubbio che il risultato vada oltre il semplice making of. Il film, inteso come racconto per immagini in movimento, si insinua tra le interviste dello staff e delle elaborate confezioni degli abiti e degli accessori, seguendo il filo di quella che è sempre stata una peculiarità di Galliano, cioè una storia da raccontare.
Se il primo S.W.A.L.K. è una specie di vivace ed esauriente institutional nel formato di un’enciclopedica girandola di presentazione della ‘nuova’ Maison Margiela, S.W.A.L.K. II è la trascinante saga di un tango alternata alle cento altre ministorie che ne illustrano lo spirito e la filosofia, mettendo in tavola tutti i pezzi del puzzle che compongono il racconto della nascita di una nuova collezione, dall’invenzione di una nuova fragranza che ricostruisca l’umore di un quartiere di Buenos Aires, alla ridefinizione del significato dei numerini da zero a ventitré del suo celebre logo, usati come indice sparso per aprire parentesi, voltare pagina, introdurre nuovi rivoli di narrazioni, alternando immagini riprese con un cellulare o una telecamerina portatile a quelle, di abbagliante fulgore e perfezione formale, girate in formato 4K, mentre una voce fuori campo scandisce le “Nozze di Sangue” di Federico García Lorca.
In tempi di stretta del Covid, Galliano coglie al balzo la palla e decide di fare il gran salto: non più filmati a metà tra la fiction e il documentario, ma film a tutti gli effetti, per rappresentare il disorientamento e i dubbi intorno al futuro dei ventenni nei primi anni di questo terzo decennio del secolo. Coinvolge nel progetto il talentoso e visionario prestigiatore di immagini Olivier Dahan (di cui si sono visti al cinema “La Vie en Rose“ con Marion Cotillard, e “Grace di Monaco” con Nicole Kidman), e realizza due ambiziosi lavori che allargano ulteriormente il suo orizzonte creativo. Tutta la collezione Artisanal 2021 veste i protagonisti e i figuranti degli oltre settanta minuti di “A Folk Horror Tale” dove, con grande dispendio di finte frattaglie ed effetti speciali aggiornatissimi, si racconta una tenebrosa storia ottocentesca di fantasmi e maledizioni planetarie: i riferimenti colti e, trattandosi di cinema di genere, meno nobili, ci sono tutti, dal “Vascello Fantasma” alla “Figlia di Ryan”, a Edgar Allan Poe, Roger Corman e Dario Argento, compresa l’animazione nipponica televisiva, trasfigurata qui dall’ebbrezza tipica di chi si ritrovi per la prima volta tra le mani una cinepresa virtuale frustum (la stessa utilizzata per la serie “Star Wars -The Mandalorian”), in grado di ricreare a piacimento fondali, paesaggi e nuvole di ogni forma e colore.
Il romanticismo esasperato di questi giovani votati al culto delle leggende dei morti buca lo schermo e diventa il manifesto del disagio del momento storico, nei panneggi, nei copricapi e nei gambaloni dei pescatori del villaggio sui cliff irlandesi (ce n’è un paio di gialli incerati che ti restano negli occhi, indispensabili e praticissimi a Venezia in caso di acqua alta). Stesso disagio tardo-adolescenziale, ma in chiave techno, si ripropone nel film sulla collezione Primavera-Estate 2022, dove le ambizioni di Galliano sfondano un’ulteriore parete e svelano, dell’incubo inscenato e filmato da Dahan con montaggio nevrotico e idiosincratico, il gioco della rappresentazione: tutto è girato in studio, ed è un continuo entrare e uscire, fino a confonderle, tra la realtà del teatro di posa, con le sue luci, le rotaie dei travelling, le giraffe, le quinte a schermo e le acque finte di mari e fiumi, e la malinconica fiction che strazia i modelli del film.
A questo punto tutto lasciava intendere che Galliano ci stesse prendendo gusto: il cinema come una seconda casa, teatro di nuovi percorsi di scoperta e sperimentazione. Ebbene, per l’Haute Couture parigina di luglio si è spinto più in là. Niente sfilate, solo puro spettacolo: per presentare al Palais de Chaillot la collezione Artisanal 2022 ha pensato a un ibrido di cinema e teatro, e ha imbastito insieme alla compagnia teatrale itinerante inglese imitating the dog (il minuscolo è loro) un’ingegnosa macchina scenica dall’impatto spettacolare decisamente immersivo, intitolata Cinema Inferno. Sia chiaro, il compito della moda è quello di inventare e creare abiti sempre nuovi, non certo di stravolgere e rivoluzionare i linguaggi delle arti e delle discipline dello spettacolo: nulla, infatti, di quanto si vede in Cinema Inferno non si è già visto in Truffaut, Fellini, Godard, Bertolucci, Antonioni, Jodorowski, Eastwood, Minnelli, De Palma, Polanski, Malick, Peckinpah, Paul Thomas Anderson, Lynch, Tarantino; e l’uso della ripresa in diretta delle telecamere portatili sul palcoscenico che moltiplicano sui multischermi gli sguardi e le visioni creando ora effetti scenografici, ora struggenti enfatizzazioni dei primi piani degli attori e dei dettagli dei loro gesti teneri o disperati, è pratica più che diffusa nelle attuali produzioni teatrali e operistiche (un esempio per tutti, il verdiano Rigoletto trasformato in reportage televisivo di cronaca nera da Damiano Michieletto l’estate scorsa al Circo Massimo di Roma).
Eppure stavolta, come chiunque può constatare di persona guardando integralmente lo show su Youtube (dove sono disponibili anche i due film realizzati con Dahan), non è solo acqua calda spacciata per genio: quando una cosa è così ben fatta, concepita e confezionata mantenendo per una buona mezz’ora sorprendentemente alta l’asticella delle emozioni, il luogo comune dei diversi generi cui si è attinto si trascolora in topos epico, romantico, mélo. Quante coppie di giovani amanti abbiamo seguito nella fuga disperata da qualcuno o qualcosa che si opponga alla loro felicità? La rappresentazione, direi quasi la favola ha inizio con una sparatoria western: non descrivo abiti e materiali, ma indovino effetti metallici e sabbiosi sui baveri dei maxicappotti e delle casacche, intuisco forme antropomorfe a imitazione dei cappelloni a falda larga dei cowboy, riconosco gli improbabili – imperdonabili, lasciatemelo dire! – tabi di casa Margiela ai piedi di personaggi che parlano come demoni fantasmatici, i cui dialoghi serrati, violenti, aggressivi ricordano quelli degli Spaghetti Western o degli imitatori di Tarantino; dietro di loro, ingigantito dai multischermi, esplode un iperrealistico sole di fuoco e di sangue, a dirci in un ideale sommario che stiamo per assistere a uno spettacolo ambientato tra la Nuova Frontiera e l’Horror.
Sono iconici simulacri di un immaginario cinematografico utilizzato per farci sentire a casa, tra le pareti di un universo conosciuto, e innescare il percorso interiore che tutti inseguiamo al cinema, quando vediamo un film americano: l’infanzia, la famiglia, la solitudine, la paura e l’ansia di non essere all’altezza, la violenza subita, l’amore, la morte, la redenzione. All’improvviso il paesaggio cambia, e ci troviamo nell’America dei Grandi Classici, l’America on the road, dei rettilinei nei campi di grano, verso gli spettacolari tramonti dietro lo skyline del Grand Canyon. Un diorama potentissimo, un view-master di diapositive proustianamente retroilluminate, perché la nostalgia nostra, di chi quei paesaggi riprodotti e proiettati su grande schermo ha vissuto e ricorda, è la stessa della generazione dei due protagonisti in fuga, che quei ricordi non ha vissuto, ma che grazie agli archetipi del cinema può assimilare e fare propri azzerando qualunque gap.
Lo script, i dialoghi, sono stentorei, e vengono pronunciati da voci fuoricampo mentre gli attori sulla scena li mimano con il labiale, a evidenziare la finzione che si fa magia per far sembrare tutto più vero del vero. A stento riusciamo a rammentare che stiamo assistendo a un defilé, tanto ci cattura la vicenda di questi ragazzi innamorati, che la vita, per punirli della loro inesperienza, sta sospingendo nel cono infernale di un finto cinema che si rivelerà qualcosa di tragicamente simile a un nuovo Bataclan. È evidente che stavolta non è solo moda, o show off di una collezione più o meno riuscita: stavolta John Galliano ha azzeccato in pieno il bersaglio. La miscellanea di linguaggi e degli stadi della comunicazione ci crea un tellurico sommovimento del cuore, e come nei film arriva la parola ”fine” a suggellare un’esperienza di straordinario vigore emotivo, che ci lascia frastornati e soli, dopo averci fatto provare “un po’ di dolore, un grande piacere, e nessun senso di colpa” (le parole con cui la ragazza ricorda la sua prima notte d’amore), proprio come quando guardiamo un film.
Anton Giulio Onofri, critico, curatore. Collabora con la Galleria di Arte Moderna di Roma. Conduce su SKY Classica HD “La classica domanda”
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