il foglio della moda
Intervista a Mahmood: "La cosa più bella che possiedo? Me l'ha regalata mia madre"
"La bellezza sta nel trovare una lingua che sia solo tua e con cui far parlare tutto: le canzoni, i testi, la moda, la maniera in cui ti esprimi”. Parla il vincitore di Sanremo 2022
Iglesias. A mezz’ora dall’inizio dell’ultimo megaconcerto per il Ghettolimpo Summer Tour, Mahmood è in ambasce. Non sa letteralmente che cosa indossare: nel backstage si accumulano pantaloni, camicie, magliette, canotte, sneakers che lui abbina mentalmente grazie un’ars combinatoria costruita negli anni. Etichette di maison che evocano eleganze proustiane – del resto l’artista Francesco Vezzoli lo ha fotografato vestito uguale al ritratto boldiniano di Robert de Montesquiou, a sua volta modello d’ispirazione per il personaggio del vanesio barone de Charlus nella “Recherche” – e semi-ignoti brand aggressivi, sensuali, molto street e moltissimo style. “Per me un vestito è bello non solo quando il design e il progetto testimoniano una ricerca che ricalca la mia, ma quando riesco a muovermi, a ballare, come se mi appartenesse. La bellezza sta nel non copiare mai quello che fa un altro o un’altra collega, ma nel trovare una lingua che sia solo tua e con cui far parlare tutto: le canzoni, i testi, la moda, la maniera in cui ti esprimi”.
C’è chi parlerebbe di stile, chi di compattezza anatomica; chi di intelligente costruzione di un personaggio tra cultura pop e snob; fatto sta che il cantautore è l’unico cui maison come Prada e Burberry abbiano dischiuso le porte dorate dei loro per niente inclusivi atelier, che di solito ospitano celebrity non italiane: “In tutte le maison che mi fanno l’onore di prestarmi i capi, si parla di musica, di cinema, di mostre, di cibo. Quasi mai di moda. Con certi stilisti - penso soprattutto al rapporto molto intenso, quasi fraterno, con Riccardo Tisci, direttore creativo di Burberry – condivido alcuni valori: l’originalità, il non essere allineati, il non fare parte di un gruppo, di una corrente, di una tendenza”. Quelli che indossa in scena (e non), sono i frutti di uno scouting condotto puntigliosamente da anni con la sua stylist, amica e complice Susanna Ausoni: un sodalizio che va avanti da anni con reciproca soddisfazione e scambievoli terminologie anche tecniche. Tipo: lei manda a lui cartoline, oggettini, libri, figurine e lui manda a lei non delle ispirazioni ma delle reference (in modaiolese: materiale iconografico che accende le sinapsi creativa, tipo gli amati manga che Alessandro ha mandato a Susanna, la quale a sua volta li ha inoltrati a Tisci, che ne ha tratto suggestioni per un memorabile trench rosso lacca Burberry di Mahmood nel video di “Inuyasha”).
Dopo la vittoria al Festival di Sanremo 2022 con “Brividi”, cantata col teenager Blanco - una coppia che, tra reciproche effusioni e grandiosi look ha turbato i sonni di molti e molte, binari e non binari, cis e non cis, determinando la gloria duratura della schwa, ci sono state seccature e ostacoli: la ricerca di una casa nuova dopo l’incendio dell’anno scorso; l’infiammazione alle corde vocali che lo ha costretto a saltare molte date recuperate in seguito, il “faticoso ma importantissimo” Sunny Hill Festival di Pristina, in Kosovo, organizzato da Dukagjin Lipa, papà di Dua, dov’è stato l’unico artista italiano invitato. E, anche se prova a scherzarci sopra, pure il trentesimo compleanno, che compirà il 12 settembre, sarà una data di quelle che non lo mettono proprio a suo agio. Come tutte le persone estremamente giovani che iniziano però a intuire quanto noi tutti si sia organismi a scadenza, teme di “fare la fine di quelli che dicono “ah, ai miei tempi” che è una cosa che mi fa davvero orrore”.
E invece si parli dei suoi tempi, dato che lui ne ha viste tante: di papà egiziano e mamma sarda di Orosei, è nato e cresciuto alla periferia di Milano, più precisamente il Gratosoglio. Ma fortunatamente non declama la lamentevole tiritera di “ragazzo di strada che ce l’ha fatta” visto che nell’autobiografica “Dorado” canta “Nelle tasche avevo nada / Ero cool, non ero Prada” e, poche strofe più giù, continua con “Se ’sto mondo fosse un mercato / Io sarei l'anello più caro”, dimostrando una certa autostima già in tenera età. Il rapporto tra la sua generazione e quella di Blanco – che ha undici anni meno di lui – con l’argomento “bellezza”, com’è cambiato? “Tendo a essere neutro, a non dare mai giudizi che sono batoste: si è trasformato eccome. La mentalità oggi è molto più elastica rispetto alla mia e a quelle delle generazioni precedenti. Ma è tutto inserito in un’evoluzione culturale, estetica e sociale che magari un giorno non comprenderò del tutto, ma non condannerò. Vengo da una famiglia in cui siamo stati educati a non sparlare di nessuno, perché non puoi mai sapere quali dolori, disagi o traumi ci siano dietro certi comportamenti. Cazzate ne combiniamo tutti. Meglio concentrarsi su ciò che di buono puoi formulare con le tue idee e le tue ispirazioni”.
Se Alessandro di oggi incontrasse sé stesso di dieci anni fa, cosa gli direbbe, per farlo sentire più bello? Magari osare di più, essere più trasgressivo? “Gli direi di continuare a studiare… Certo, magari non gli consiglierei di usare make-up che per quelli della mia comitiva, in periferia, un decennio fa era davvero una roba aliena. Per il resto, mi sono sempre sentito in pace con me stesso, che è la condizione principale per arrivare a fare delle performance valide, sentite, partecipate. La bellezza nasce dallo stare bene ma anche dal sapere che quello che hai fatto con il tuo gruppo non poteva essere ulteriormente migliorato”. Un po’ Sfinge, un po’ Bugs Bunny (lo dice lui). La discrezione è diventata la sua cifra di eleganza comportamentale e stilistica che sconfina dai suoi abiti, penetra nelle musiche e nei testi delle sue canzoni e s’insinua nella sua vita privata. La bellezza è rotonda, sembra assicurare Alessandro, al di là dell’oggettività nella sua figaggine: “La bellezza è davvero una cosa personale, sapessi quante volte mi scrivono su Instagram “Sei un cesso”: ma, anche se può servire a una prima impressione, se non c’è un forte messaggio dietro, non solo è inutile, non serve proprio a nulla. Se con alcune canzoni, come mi piace pensare, ho coinvolto altre persone a livello emotivo, ho raggiunto il mio scopo: l’immagine è importante, ma non va mai nel profondo”.
Anche nell’utilizzo dei social, Mahmood oscilla tra un uso privato e intimista del suo account Instagram e cover in cui è vestito e abbigliato con grande attenzione ai particolari, perché anche quel tipo di ritratto fa parte del progetto artistico: “E poi studio. Ora, per esempio, sto guardando il docufilm su George Michael, un grandissimo artista che forse non è stato capito e compreso a sufficienza, ma che ha lasciato un segno importante nelle battaglie civili: questo mi porterà anche a scoprire dei particolari anche estetici che potrò rielaborare». Quand’è, parlando di composizione di testi, che per te una canzone è “bella”? Quando è finita? Quando tutto quadra? “Direi dopo averla ascoltata cinquantamila volte in un giorno e ancora ho voglia di ascoltarla. Allora mi dico: è fatta. E allora inizi a limare, a rifinire, a smussare, a correggere”. Delle decine di canzoni scritte, ce n’è stata qualcuna che oggi riprenderebbe in mano per darle un nuovo sound? “No. Quando un brano è inciso, registrato, diffuso, è come se non fosse più mio, ma di tutti. E io già sono all’idea successiva. Negli anni la voglia di fare è sempre diventata più grande”. Alessandro ha scelto l’outfit, finalmente. C’è tempo per un’ultima domanda: in quale oggetto, manufatto, immagine o poesia si può condensare la sua idea di bellezza? Ci pensa su a lungo: “Mia madre mi ha regalato una collana con un topazio che indossava il giorno del suo matrimonio. È la cosa più bella che possiedo, perché è ancora più bello il gesto che c’è dietro”. E proprio le parole che le rivolse subito dopo la premiazione di Sanremo, “Ja ti la credias crasa…”, in sardo “Non te lo saresti aspettato…” diventano il titolo di un documentario sull’artista che sarà presto disponibile su Amazon Prime.
Alla Scala