il foglio della moda
Narrativa del corpo vestito
L’evoluzione rapidissima del linguaggio della moda, sottoposta a pressioni commerciali ed etiche finora marginali, è il fenomeno più interessante del momento. Con interessanti ricadute anche per il mondo accademico
“Allora, il casting è per un marchio di moda imbronciato o sorridente?”, dice il direttore di scena, mentre mentre i modelli in mutande atteggiano l’espressione a comando (“Balenciaga!”, corruccio, “H&M!”, sorriso). La scena di apertura di “Triangle of sadness”, il film di Ruben Ostlund premiato con la Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, contiene il giusto grado di spirito satirico che tutti si aspettano da una parabola sui rapporti di potere nel mondo occidentale, e come ovvio anche un fondo di verità (da quanto tempo non vediamo la modella di un brand di lusso sorridere?). Purtroppo, però, da almeno un decennio la moda comunica sempre meno attraverso la prossemica riprodotta sulle pagine sempre più scarne dei magazine sopravvissuti alla digitalizzazione, e sempre più lungo una direttrice strategica di cui gli sguardi imbronciati sono una parte infinitesimale, del tutto ininfluente e, come la pellicola mette giustamente in risalto, parecchio grottesca. L’allure “je m’en fous” è, anzi, forse, l’ultima vestigia di uno stile di comunicazione finito con la scomparsa di Yves Saint Laurent e il ritiro di Valentino Garavani.
Se è vero che stilisti come Demna, il direttore creativo di Balenciaga nato in Georgia, devono moltissimo alla propria capacità di rendere universale una complessa storia personale e il dramma della dissoluzione dell’Unione Sovietica fra guerre intestine e prese di potere dittatoriali, è anche vero che alle loro spalle si muovono strutture incaricate di rendere questo vissuto una “narrazione”. Cioè, nella sua nuova accezione, comunicazione monetizzabile. E’ cambiato il messaggio, è cambiato il marketing mix. E’ cambiata, per usare appunto la parola del momento, la narrativa, versione aggiornata dello “storytelling”, locuzione caduta in disuso nel giro di un quinquennio, forse per via dell’accentuazione dell’elemento di oralità fantasiosa che contiene, la matrice “cantami o diva” che postula. La “narrativa”, di per sé sostantivo anodino, nelle mani della comunicazione di moda si è invece rapidamente caricato di segni altri oltre a quello di banale “attività o produzione letteraria relativa alla trascrizione artistica di vicende reali o fantastiche, per lo più sotto forma di romanzo, novella, racconto”, che sarebbe il suo primo e più evidente significato anche per la Treccani, per lambire invece il territorio del significato derivato di “parte della motivazione della sentenza in cui è esposto il processo”. Il nodo sta lì, nella motivazione, nella “giustifica”. La narrativa di cui la moda si è impossessata è al tempo stesso narrazione e spiegazione, contenuto e forma. E’ l’insieme degli elementi visivi che, sostenuti da una strategia di comunicazione complessa, permettono all’industria dell’abito di abbandonare progressivamente agli occhi del suo pubblico la componente e soprattutto il vissuto commerciale per abbracciare gli spazi più rarefatti dell’arte, della musica, dell’architettura. Questo pur continuando, esattamente come l’arte, la musica e l’architettura, ma in misura immediata e misurabile, a poter contare su un pubblico pagante. Il progressivo scollamento semantico della moda dalla propria dimensione industriale e meramente funzionale e la sua (relativamente) rapida ascesa nei territori della cultura, dell’etica, dell’impegno sociale, è un fenomeno bellissimo da testimoniare e, quando se ne abbia l’opportunità, da vivere, perché nessun altro settore avrebbe l’idea, l’ardire, la necessità e – si intende - la disponibilità economica, per accogliere nei suoi luoghi un simile concentrato di talenti: registi, curatori, autori, fotografi, oltre ai professionisti delle sue tecnicalità più ovvie, e cioè stylist, vestiaristi, parrucchieri e truccatori che nessuno comunque definisce più tali perché il grande spirito della narrativa è calato molti anni fa su di loro trasformandoli in make up artist, locuzione in cui la componente artistica è, va da sé, l’elemento preponderante. Non esiste più una sola espressione culturale, in senso lato, che la moda non abbia esplorato, sostenendo scrittori, registi, promuovendo festival, confronti, addirittura specializzandosi per temi e filoni culturali, in una logica di branding culturale che ha la doppia funzione di caratterizzare il marchio ma anche di renderlo immediatamente riconoscibile e gradito agli occhi di chi acquista, cioè di trasformarlo in parte del suo vissuto personale, delle sue aspirazioni, dei suoi interessi. Quando si parla di “community” in relazione a un marchio è questo che si intende: l’adozione, o l’agnizione, il riconoscersi reciprocamente, la relazione il più possibile personale fra marchio e cliente finale lungo una scala di valori e di interessi condivisi.
Si tratta di un processo iniziato con il nuovo secolo, il crollo delle Torri Gemelle, con la messa in discussione dei valori occidentali da un lato e la globalizzazione del commercio di moda dall’altro, potrebbe essere uno spartiacque adatto per definire il “vecchio” e “nuovo” modo di raccontare il sistema. Solo il lessico vero e proprio sembra essere rimasto estraneo a questo processo di evoluzione semantica. Mentre il linguaggio visivo e gli strumenti messi in campo dalla moda mutano e si adeguano allo sviluppo tecnologico e alle sensibilità più diverse, il lessico della moda e di chi vi lavora si fa via via più standardizzato, superficiale e povero, per molte ragioni che comprendono, oltre a quelle più ovvie, la necessità di rivolgersi a culture diverse e in buona parte esacerbate da vere o presunte ruberie da parte dell’Occidente. Ma se il linguaggio rientra a pieno diritto nella narrativa, la narrativa stessa, in particolare quella che agisce per immagini e modelli di intrattenimento, si fa via via più ricca. Addirittura caratterizzata e come tale attribuibile a un dato marchio. Prada, per esempio, che nel vissuto globale risulta indissolubilmente legata all’arte e al cinema contemporaneo da un lato, e alle iniziative di sostenibilità ambientale dall’altro. Gucci ovvero dell’arte di valorizzare la molteplicità umana, da anni epitome dell’esplorazione dei generi e della libertà di espressione, perseguita con molta coerenza personale da Alessandro Michele (nota uno: ne parla da par suo Emanuele Coccia a pagina 3 di questo numero, note due: rientra in questa narrativa come stile di comunicazione anche la scelta, presa poche ore fa, di annullare l’evento previsto in questi giorni a Seoul per rispetto nei confronti delle vittime della calca di Halloween a Itaewon). Quindi, Valentino, simbolo dell’inclusione che parte dal basso (nessuno prima del direttore creativo Pierpaolo Piccioli aveva messo in tale risalto il lavoro degli atelier, le foto storiche di Valentino Garavani e degli altri stilisti in mezzo alle sarte non avevano le stesse finalità) e di un’attenta esplorazione della qualità della scrittura, perseguita attraverso l’ingaggio delle più importanti firme autorali per iniziative in collaborazione con librerie e musei. E ancora, impossibile non citarlo perché è anzi l’esempio preclaro del potere di una narrativa efficace, Brunello Cucinelli “imprenditore umanista”, che ha modellato il racconto di sé non solo a parole, ma a fatti, dando nuova morfologia e prospettiva a un’area dell’Umbria nemmeno troppo piccola.
Sullo sfondo di questi esempi, a cui si potrebbero aggiungere Stella McCartney con la sua sostenibilità totale spesso e purtroppo smentita dalla necessità di ricorrere all’uso di materiali o componenti plastici, ma anche Donatella Versace con la sua fede incrollabile nell’estetica, si srotola come in un lungo sfondo, come nell’ arazzo di Bayeux con i suoi mille occhi e le sue infinite figure, la macro-narrativa dell’aiuto ai “giovani stilisti e imprenditori”, che si rappresenta in ogni forma e presso gli interlocutori più vari, dalla Camera della Moda con il Fashion Trust che tanto impegna le signore milanesi al Centergross di Bologna che offre quasi gratuitamente i propri spazi ai giovani imprenditori. L’unico che sfugga a questa logica, in Italia e in buona parte anche altrove, è Giorgio Armani, uomo-narrativa in sé, il primo che abbia portato la propria estetica in un museo, il Guggenheim di New York e poi ancora a Bilbao, e anche il primo che sia riuscito a dedicare a se stesso un centro di studi ed espositivo eponimo, il Silos di via Borgognone, a Milano, di cui solo adesso, a quasi otto anni dall’inaugurazione, si coglie l’essenza e la visionarietà proprio nell’ottica della narrativa. Dopo la celebrazione delle collezioni nei film, primo step del percorso narrativo iniziato ancora negli Anni Ottanta del Novecento, dopo la celebrazione del sé negli “eventi” e nei concerti degli Anni Novanta, dopo l’impegno sociale-artistico-morale del nuovo Millennio, da almeno un decennio, ma secondo logiche bulimiche e compulsive solo da qualche tempo, “la mostra” è diventata il modo più efficace e qualificante di mettere a questa narrativa continua un punto fermo. Si espongono abiti nei musei secondo logiche accademiche, cioè storiografiche, dagli anni Trenta del Novecento, la maggior parte delle istituzioni museali internazionali accoglie istituti di storia del costume e della moda da New York a Kyoto (l’Italia fa storia a sé, come sempre, e vede le proprie collezioni e donazioni divise fra i musei di Torino, Venezia, Milano, Firenze, Roma e Napoli, oltre che fra musei e archivi di impresa sparsi sul territorio in numero rilevante, ma questo non significa che non sia in grado di coordinare conservatori e curatori secondo necessità o che abbisogni di un unico, grande “museo della Moda”, come immancabilmente rilancia ogni ministro della cultura, Gennaro Sangiuliano non ha ancora fatto in tempo ma vedrete che lo dirà anche lui, senza considerare che la storia dell’Italia non è quella paragonabile a quella francese). In questi contesti, la moda contemporanea è entrata, appunto, relativamente da poco, e le esposizioni dedicate nei musei più prestigiosi sono ancora un approdo inarrivabile, e per questo molto qualificante a fini “narrativi”, per la maggior parte degli stilisti. L’esclusione, o l’accettazione della moda contemporanea (non parliamo di abito a di costume, appunto), nel contesto museale, deriva da molti fattori, il primo dei quali – qualcuno ricorderà ancora la strepitosa Biennale fiorentina curata da Germano Celant nel 1996 che inserì i Valentino e i Ferré agli Uffizi e alle Gallerie dell’Accademia – è la necessità per queste istituzioni di accogliere e di attrarre un pubblico finora estraneo alla frequentazione dei musei. Sì, l’operazione Chiara Ferragni. Questo non significa però che questa accoglienza possa o debba essere fatta supinamente. Nel suo saggio collettaneo sulla museologia dell’abito, edito per la prima volta nel 2014 e costantemente ripubblicato e aggiornato, Marie Riegels Melchior, professore associato di etnologia europea all’Università di Copenhagen osserva infatti che se “la moda nei musei è diventata un’alternativa alla “nuova museologia”, guidata dalla “cosiddetta catwalk economy”, dall’altro, cioè dalla prospettiva degli accademici, “richiede una lettura prospettica attraverso una lente diversa”, per molti versi una lettura più “sfumata del passato e del presente”. Si tratta, insomma e in estrema sintesi, di spettacolarizzare un museo senza trasformarlo, appunto in una passerella, o in un luogo di dibattito sociologico, che è il risvolto primo ed effettivamente più contemporaneo della moda di oggi. La sfida è di far convivere due narrative diverse, anche nei pesi economici. La più recente vague accademica sostiene che dall’incontro fra moda e musealizzazione potrebbe nascere una nuova branca di studi e di expertise, al momento, e solo nei casi migliori, presa dall’arte.
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