IL FOGLIO DELLA MODA
Riflessioni sull'abito, commerciale e no, con Emanuele Coccia
Il filosofo sta per pubblicare un testo con Alessandro Michele. Titolo provvisorio: “La vita delle forme” che, dice, rivelano una società come “una rete di relazioni sensibili”. "L’idea non è quella di imporre a tutti una cultura della moda ma di diffondere il pensiero che chi non la conosce manchi di curiosità”, racconta al Foglio
Emanuele Coccia si presenta puntuale all’appuntamento telefonico delle 9,30 di un sabato mattina. È molto stanco. Il teorico della “metafisica della mescolanza” è appena tornato da Lisbona, dove ha tenuto una serie di conferenze. Queste, a loro volta, erano successive al lungo ciclo di lezioni tenuto ad Harvard, dal titolo “The Ego in Things: Fashion As a Moral Laboratory”, centrate soprattutto sulla case history di Gucci e la metodologia creativa del suo direttore creativo Alessandro Michele: “Uno dei più importanti pensatori di oggi, insieme con Demna (il designer georgiano, artefice della rinascita di Balenciaga, che esige di essere chiamato col solo nome di battesimo, ndr) e Virgil Abloh (altro esponente di estetica pervasiva e totalizzante, scomparso lo scorso novembre a quarantuno anni, ndr)”.
Un grande primato per la cultura italiana nell’università americana: mai prima d'ora la disciplina dell’abito aveva varcato in questo modo i propri confini. “Avevo prenotato una sala piccola, non pensavo sarebbe stata così affollata. Ma, visto il numero di iscritti, ci siamo dovuti trasferire in anfiteatro. Con la moda è ancora difficile ammettere che per capirla si debbano avere anche conoscenze filosofiche: due discipline tradizionalmente separate che sono, invece, indissolubilmente legate”. Di stanza a Parigi, ma con affannosi aller-retour in Italia, Coccia insegna all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, è editorialista di “Libération” e “Le Monde”, ma è celebre anche sui social, dove è seguitissimo, per bestseller euforizzanti tesi a ricordarci quanto la quotidianità nasconda fonti inesauribili di riflessione cosmica: da “Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale” (il Mulino, 2014) a “La vita delle piante” (Il Mulino, 2018) fino a “Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità” (Einaudi, 2021). Secondo Coccia, il fascino della moda abita nel paradosso per cui la profondità coincide con la superficie, e la realtà con la sua manifestazione insita nella natura stessa dell’esperienza sociale: e infatti, proprio con Alessandro Michele sta ultimando un saggio a quattro mani, in uscita la prossima primavera, dal titolo provvisorio “La vita delle forme” (HarperCollins).
Per lui, l’arte del vestire (“la chiamo “arte” perché in Occidente è una parola che ha da sempre coinciso con “tecnica”, precisa) è una fonte autonoma di pensiero morale, un vero oggetto del pensare. “È un battesimo collettivo che rappresenta l’ingresso in una nuova vita o comunque ha un valore di iniziazione non solo a un nuovo modo di apparire, ma anche di sentire e ragionare. Quindi è costruita sulle emozioni, inserite in un contesto prima soggettivo e poi oggettivo, di cui si nutre e si fa nutrire. La moda è legata alle nostre identità attraverso una sorta di chirurgia che non è estetica, ma psichica: ogni tre mesi, attraverso chi la disegna, riprogetta i nostri desideri, ma anche le nostre angosce”. È uno schermo sensibile che condiziona tutti i nostri rapporti sociali e li media, un inseparabile biglietto da visita che ci presenta agli altri prima ancora del linguaggio verbale, e dunque plasma e influenza la comunicazione con il mondo. L’apparenza crea legami, li istituisce e li rappresenta, rivelando la società come una rete di relazioni sensibili. Tutto molto sensato e idealmente condivisibile. Sarebbe interessante capire se non gli sembri che la moda, in quanto sistema che unisce business e creatività, negli ultimi anni per vendere abbia puntato più sull’aspetto emotivo che sulle qualità intrinseche dei prodotti. Infatti glielo chiediamo. “È sempre stato così. Pensi a quando, nel 1947, Christian Dior lancia il New Look con le silhouette a clessidra, vita stretta e gonne a corolla o a ruota sontuose e spettacolari: da un lato aiuta l’industria tessile francese a riprendersi dal punto di vista commerciale (e non avrebbe potuto essere altrimenti, visto che il finanziatore di Dior era Maurice Boussac, uno dei più importanti industriali tessili dell’epoca, ndr), ma dall’altro risponde a una precisa richiesta emotiva: quella, per le donne, di concedersi un aspetto regale dopo le privazioni e le sofferenze subite durante la guerra. Allo stesso modo Coco Chanel, prima di lui, aveva intercettato la volontà femminile di affrancarsi da una cultura patriarcale, ribaltando le regole dell’eleganza canonica, imponendo il nero come colore principe, utilizzando tessuti “poveri” e accosti al corpo, e affermando che l’abbronzatura - in precedenza segno visibile di chi lavorava all’aperto, quindi segno di bassa estrazione sociale - fosse una metafora epidermica di benessere e salute. Il valore qualitativo dei beni è sempre stato e lo è tuttora, costantemente allineato e proporzionale a quello metafisico, universale. Queste diverse proprietà hanno fatto sì che abiti e accessori incarnino il paradigma di qualsiasi intervento sul mondo che renda migliore la nostra vita”.
Però. Se abbiamo detto finora che l’atto stesso del vestirsi è nello stesso tempo un’espressione esteriore del nostro stato d’animo, una dichiarazione identitaria, il fatto che esista un lusso che, tra le altre cose comprende anche una notevole disponibilità finanziaria, non esclude una buona parte dell’umanità? “No, e le spiego perché, e proprio attraverso il lavoro di due grandissimi come Alessandro Michele e Demna: ognuno per suo conto, costruendo paesaggi emozionali di cui fanno parte anche i vestiti, ha sottratto alla moda quell’elemento di distinzione che è durato perlomeno fino a Chanel, appunto. Gucci e Balenciaga sono ideati da due persone che meglio hanno compreso come la moda non sia più un veicolo di differenziazione, ma un mix di elementi ibridi che possano servire a esprimere - o a nascondere, se si vuole - il proprio sé. La moda come esibizione a loro non interessa, perché in realtà non fanno altro che accumulare simboli che poi ciascuno di noi può accostare a proprio piacimento. Insomma, hanno elaborato un metodo, un procedimento per trovare un terreno in cui possiamo fonderci l’uno con l’altro, socialmente e culturalmente: se lo si vuole raggiungere con le loro creazioni, bene. Ma nessuno prescrive che, una volta conosciuta quella loro specifica modalità di stare al mondo, non la si possa replicare anche con gli abiti e gli accessori che, magari, già possediamo. Agendo in questo modo, oltretutto, entrambi oltrepassano i generi, perché le emozioni non ne conoscono. Le emozioni non hanno sesso. E’ grazie alla moda che (non da oggi) possiamo giocare con le identità di genere in modo creativo. Onestamente, in un mondo dove tutto viene vissuto a una folle velocità, capisco anche il proliferare sempre più serrato delle collezioni: ogni tre mesi, silhouette e forme cambiano completamente, perché siamo noi a cambiare e a desiderare ogni giorno di essere un’altra cosa, un’altra persona, un altro carattere. Alcuni vogliono pensare alla moda come a uno spazio in cui vengono prodotte le norme, mentre la moda è, in realtà, uno spazio in cui le norme vengono decostruite, trasformate e rinnovate, finché non divengono più leggi, ma riflesso dei tempi e della storia. L’idea non è quella di imporre a tutti una cultura della moda ma di diffondere il pensiero che chi non la conosce manchi di curiosità”.
Chiediamo: secondo lo psicoanalista Wilfred Bion, le emozioni avevano lo stesso ruolo di motore del funzionamento mentale che Freud assegnava alla sessualità… “Sì, e sono anche alla base di ogni processo creativo ma anche sentimentale. Ricordo la collezione primavera-estate di Gucci nel 2016, quando Alessandro Michele s’ispirò per gli stampati alle mappe geografiche della “Carte du Tendre” del Preziosismo, un paesaggio allegorico, una rappresentazione topografica della condotta e delle pratiche amorose, in cui ogni sensazione ha un nome e una posizione geografica, che venne sviluppato da diversi intellettuali del Diciassettesimo secolo, fra cui la celeberrima madame de Rambouillet, su ispirazione del romanzo “Clélie” di Madeleine de Scudéry. Una rappresentazione spaziale di come l’intimità possa e dovrebbe progredire attraverso tre percorsi disegnati che portano a Tendre-sur-Reconnaissance, Tendre-sur-Inclination, e Tendre-sur-Estime: gratitudine, inclinazione e stima. Esempi di eleganza che fa parlare i nostri corpi vestiti come atlanti per orientarsi nella tenerezza. Una delle più dolci tra le emozioni umane”.
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