Sotto il vestito Roland Barthes: esegesi del filosofo nuovo
In generale il disinteresse per la “superficie” va dai presocratici agli illuministi fino alle Fruit of The Loom slabbrate di Slavoj Žižek. Emanuele Coccia fluttua invece nella moda, la studia, la intellettualizza, e ci si ricopre, la vive, ci gioca, si metamorfizza con l’oggetto
L’ abito non fa il monaco, ma fa il filosofo? Un certo disdegno intellettuale verso ciò che è considerato una frivolezza, il vestito, parte da Diogene, detto il cane, che viveva in una botte, coperto di stracci, e arriva fino all’esistenzialismo del Café de Flore – perché scegliere un colore che non sia il nero se tanto la vita non ha senso? – e ai trench da ispettore di Massimo Cacciari, passando per la schiera protestante calvinista moralista dei tedeschi. Si ride del look tirolese di Heidegger. Si ammira lo stile di Michel Foucault, dolcevita e jeans, traslatosi poi su Steve Jobs. Ma in generale il disinteresse per la “superficie” va dai presocratici agli illuministi fino alle Fruit of The Loom slabbrate di Slavoj Žižek.
Emanuele Coccia, che è un vero contemporaneo, fluttua invece nella moda, la studia, la intellettualizza, e ci si ricopre, la vive, ci gioca, si metamorfizza con l’oggetto. “L’abito è la più comune delle opere d’arte, il più visibile degli artefatti”, dice, e quindi perché ignorarlo nella storia dell’arte e nella nostra quotidianità? Coccia è sfuggito fino ad ora alle etichette che giornali e case editrici hanno provato ad appiccicargli addosso, come carta moschicida, – il filosofo delle piante, il filosofo della casa, il filosofo della natura – svolazzando via sul prossimo tema di suo interesse, come se ogni topic fosse un fiore gustosissimo, una porta parallela. E allo stesso modo il suo stile cambia, muta, ogni giorno, a ogni stagione, a ogni apparizione mondana e/o accademica. Come sarà abbigliato Coccia oggi? Ci si chiede prima di una conferenza, che sia ad Harvard o alla Fondation Cartier, o prima di un caffè vicino a casa sua, nella Rive Gauche parisienne. Coccia indossa, vive, il postmodernismo fluido e accelerato, uno stile pop-intelò post-metrosexual, dove Giorgio Agamben incontra Alessandro Michele, come un David Bowie trasformista dell'École des hautes études en sciences sociales. Occhialoni da prima repubblica post-hipster, blazer a righe da gelatai period drama wesandersoniani, camicie multi-pattern a quindici colori, come un pacco di pennarelli Stabilo. E ancora, completi di Gucci con bordature rosse, un po’ Met Gala un po’ “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson, o camicioni da guru con accessori da prete cool terzomondista, colletti à la Lisa Corti, cuffione Bluetooth molto Brooklyn e barba rubata a Karl Marx. E, se la storia della filosofia occidentale è soprattutto una sequela riconoscibilissima di barbe, baffi e sopracciglioni, da Socrate a Nietzsche, Coccia gioca anche con il facial hair, barba e capelli. Citazionismi, sovrapposizioni, cortocircuiti, alta moda e incursioni etno-chic, fumetti e montature tartarugate, Muji e Missoni, ritratti black and white dietro una foglia, molto Apocalypto.
Sotto il vestito Barthes e Foucault titolava un suo articolo, ecco, con lui Barthes e Foucault sono anche sopra il vestito, dentro le fibre del nylon e del cashmere, tra la lana e la fodera di seta. Strappi una toppa e ci trovi dentro lo Zeitgeist.
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