di guardaroba e di governo
Una sfumatura di biondo Meloni
Esegesi del look del/la premier, ormai ricercatissimo, non fosse che è talmente normcore e desaturato da essere incopiabile. Ma prima del rigore-Armani, nel suo stile ci sono stati tutti i brand importanti. E un fantastico Cartier
Esiste una nuova, particolare sfumatura che favorisce la localizzazione geosociale delle romane in posizione dominante nel nostro paesaggio culturale e umano: il biondo Meloni. È stato creato per il (la?) primo/a ministro/a da Antonio Pruno, fidato coiffeur – ma guai a chiamarlo così, si definisce “consulente d’immagine” -, dotato di salone-atelier-roccaforte in via della Croce, a un tiro di schioppo da piazza di Spagna e già autore dei look tricotici di Vittoria Belvedere, Alessia Marcuzzi, Barbara D’Urso, Elisabetta Gregoraci e perfino di Meryl Streep nelle di lei incursioni europee. Ormai assurto a divismi da rotocalco, per tingere il sipario presidenziale asserisce di aver seguito i dettami dell’“hair contouring”: una tecnica che permette una graduale trascolorazione dai toni più chiari a quelli più scuri "di modo che anche con i capelli raccolti in uno chignon o in una coda di cavallo, le ciocche incornicino sempre l’ovale e il collo ad addolcire e illuminare, anche se lei si illumina già da sola perché ha occhi bellissimi”. In parrucchierese, il taglio alla Giorgia si chiama “bob lungo” ed è una sorta di caschetto afflitto da complessi di superiorità: lei ce l’ha più lungo. Ed è solo il primo passo.
Conclude: “Stiamo pensando a qualcosa che possa ispirare ogni donna: il Presidente avrà un nuovo make-up, più sofisticato pur mantenendo la semplicità di donna acqua e sapone che la caratterizza”. Efficiente, galante e financo etero - sul suo account Instagram al commento “Come fai a occuparti di una persona che non ha a cuore i tuoi diritti di omosessuale?” sotto una foto di lui e Giorgia in salone, risponde orgoglioso: “Mi dispiace dire che ti sbagli!”, Pruno sa - o forse no - quanto ogni cambiamento nell’apparire corrisponde a un cambiamento nell’essere o nel voler essere.
Svanita la vecchia distinzione tra mondo e rappresentazione, è giunto al suo apogeo quel lungo processo che ha trasformato il mondo in immagine e, grazie ai media e ai social, lo ha smaterializzato. E così, madamine, il catalogo è questo: a volere i capelli come lei, ora di fan ce n’è una folla in molte città italiane, visto che a Roma si prevedono liste d’attesa più lunghe e trepidanti di quelle per una borsa di Hermès, Louis Vuitton o Prada: marchi assai amati da Meloni che in passato li esibì coram populo, facendo dondolare al braccio accessori con logo evidente per far notare al colto e all’inclito quant’è bello essere solventi.
Ma essendo l’attuale Presidente persona accorta e sensibile agli umori della “gggente”, non appena arrivarono le prime critiche per i costi poco democratici e pochissimo popolari, le ha subito sostituite con modelli sconosciuti, magari prodotte e realizzate dagli artigiani dei posti visitati in giro per la nazione (un po’ come faceva Matteo Salvini, maestro ormai superato, con le sue felpe territoriali). La metamorfosi delle chiome di Meloni sono dunque piene metafore del suo progressivo acquarellamento cromatico, psicologico e perfino vocale, dopo trent’anni giusti giusti di militanza (ne aveva 15 quando s’iscrisse alla Fronte della Gioventù, ora ne ha quarantacinque), gli ultimi dei quali l’hanno vista intenta a scrollarsi di dosso le accuse di simpatie più o meno nascoste per le camicie nere o brune, che del resto non ha mai indossato. La moda, con la sua capacità di attingere a un linguaggio popolare condiviso, può essere sia uno strumento di comunicazione strategica che un’arma. La domanda su come maneggiarla al meglio non è una questione frivola o limitata alle first lady, anche se è più complicata quando si tratta di donne politiche: ecco perché i designer hanno spesso avuto un ruolo fondamentale nell'aiutare i potenti nel creare un’immagine che si collegasse al posizionamento elettorale, sia che si tratti di Ralph Lauren che collaborava con Hillary Clinton, sia di Bettina Schoenbach, ex assistente ai look di Angela Merkel.
Le metamorfosi delle chiome sono metafore del progressivo acquarellamento cromatico, psicologico e vocale
Giorgia è arrivata dov’è arrivata anche grazie all’impiego avveduto di un guardaroba vocato alla desaturazione, all’addomesticamento, alla tensione verso l’impersonalità innocua e, a suo modo, incolpevole più che innocente (memorabile la battuta detta alla Gruber in una puntata di Otto e mezzo: “Ma la volete finì de dimme che so’ neofascista, che sono nata ner Settantasette? Ma che c’entro io?”). Nell’evoluzione della sua apparenza, ha puntato allo stile di chi non ce l’ha, sigillandosi dentro una figura che non è né aspirazionale né trasandata, né eccentrica né conservatrice. Dai completi rosso fuoco, candidi, blu, si è man mano illanguidita in gonne plissé, sneakers, giacchette e golfini in tonalità domestiche, nuance da collutorio, sfumature da ammorbidente per lavatrice. E poiché è tutto tranne che una sprovveduta, sul personale arcobaleno vestimentario sintetizzabile con la massima “si nasce piromani e si finisce pompieri” perfino lei stessa faceva battute autoironiche su Tik Tok.
È interessante notare come neanche la dogaressa del giornalismo di moda americano, Vanessa Friedman del New York Times che le ha dedicato un ritratto - come anche il qui modesto scrivente, che ha consultato varie amiche romane - sia riuscita a individuare i marchi dei suoi outfit prima degli già mitici tailleur di Armani con cui ha iniziato il suo percorso istituzionale: questo significa che Meloni ha colpito nel centro. Potrebbe essere in Zara come in marchi di lusso da cui ha fatto espungere ogni segno di riconoscimento, ma si veste di capi che le permettono di far elaborare agli elettori e soprattutto alle elettrici un articolato processo di assimilazione. È sempre a posto ma mai troppo azzimata, ha sempre qualcosa di migliorabile però è sobria fino alla noia: un po’ “ragazzi, fatemi lavorà”, un po’ sciuretta con la “butìk” di quartiere che, avrebbe detto Franca Valeri imitando la Sora Cecioni “c’hanno cose tanto carucce, specialmente quelle elegantine che te lo puoi mette ar battesimo der nipotino, ma pure ar veglione de Capodanno”.
Non avere un’uniforme è la sua uniforme: non risultano all’appello stylist, parenti che l’aiutino, amiche giornaliste di moda, personal shopper. Giorgia, in passato, non ha mai seguito rigore e formalità: ha sempre fatto scelte prive di costruzioni, all’insegna della comodità. Blazer, pochissime gonne e tantissimi pantaloni, gradazioni originariamente decise che con gli anni hanno preso risvolti sempre più dolci e zuccherini. Ora è finito il tempo di rassicurare, deve confermarci che è lei la “donna del fare”. E pensare che quando venne eletta ministra nel 2008 dichiarò che non era giusto parlare del look delle donne in politica. “Come modo di vestire credo che la leader di Fratelli d’Italia sia trasparente, senza filtri, si veste come è, non mi sembra che abbia una strategia, mi sembra che scelga quello che le piace. Non usa il linguaggio della moda”, ha dichiarato Maria Grazia Chiuri, direttrice creativa della maison Dior. Adesso fa sorridere l’esaltazione delle riviste di moda (ma anche dei quotidiani. Del resto, l’italiano vola in soccorso del vincitore, secondo un abusato ma purtroppo veritiero aforisma di Bruno Barilli, erroneamente attribuito a Ennio Flaiano) che la incoronano suprema esponente del normcore – tendenza supercool che consiste nel vestirsi normale che più normale non si può.
Al giuramento del nuovo esecutivo non è apparsa una-gonna-una. E anche questo è zeitgeist. Forse
In realtà, quando è stata beccata, oltre che con le famigerate borse griffate, anche con un bracciale a forma di chiodo ritorto Just Un Clou di Cartier da 54mila euro, sperando forse lei fosse scambiato per un Pandora, lo ha immantinente cambiato con un più accessibile Apple Watch, o addirittura braccialetti di gomma: perché no, non è furbo, alla vigilia di una recessione e di una delle più gravi crisi economiche della storia d’Italia, mostrare un orologio dal valore superiore a 300 euro. L’attitudine al sovranismo, nel giorno del giuramento al Quirinale, è spuntata solo da un nastrino macramè tricolore al polso, dettaglio ripreso dalla cravatta del suo compagno Andrea Giambruno. Siamo patriottici ma mica nazionalisti, ci ha rassicurato lei col trittico di tailleur pantaloni: blu notte e nero – colore temibilissimo per la sua capacità evocativa – ma ammansiti da veloci cambi di scarpe tra tacchi dodici e stringate maschili, unico vezzo gli orecchini un po’ evidenti: da un completo con spalle strutturate e camicia di seta ton sur ton, a uno smoking da giorno con top scollato a V, fino al completo classico con camicia di seta bianca per l’incontro con Draghi. La sua è una scelta di apparire che contraddistingue chi è perfettamente a conoscenza di venire sequestrata dallo sguardo occhiuto della pubblica opinione, dove ogni vezzo potrebbe essere usato contro di lei come prova definitiva e schiacciante di una colpevole connivenza con il più becero passatismo.
Naturalmente, come stilista ha scelto quello che più incarna la risposta di chi, non sapendo alcunché di moda, potrebbe rispondere alla domanda “dimmi il nome di uno stilista famoso”: Giorgio Armani, ovviamente. Il quale con altrettanta discrezione non ha rilasciato commenti, comunicati, dichiarazioni, lasciando dunque intendere che i famosi tailleur se li sia comprati senza alcuna intercessione o regalia. Speriamo le abbiano almeno fatto lo sconto: secondo un portavoce del brand, Meloni si sarebbe fatta aiutare da una commessa dopo aver fatto un timido ingresso da sola in boutique. Indossando Armani, la signora Meloni unisce implicitamente il potere del marchio al proprio, cooptandolo per i propri fini: infatti ha anche creato un nuovo incarico ministeriale per “imprese e Made in Italy”. Un po’ lesbo-chic, un po’ ragazza studiosa, un po’ fanciulla introversa che usa l’abito griffato come scudo emotivo e cassa di risonanza della cultura del suo Paese, Giorgia Meloni dimostrerà di essere pure la figlia del popolo che sospira al ricordo della “sua” Garbatella, ma quando si tratta di mostrarsi si dimostra una statista accortissima. Comunque, per finire, non la si potrà certo accusare di non promuovere il vestire disconnesso dal genere: tutte le ministre del suo governo. Da Maria Elisabetta Alberti Casellati, ex presidente del Senato ora ministro per le Riforme in tailleur bianco con giacca con collo irregolare e una grande spilla su revers, ad Alessandra Locatelli, ministra per la Disabilità in doppiopetto rigoroso, dalla ministra per il Turismo Daniela Santanché insolitamente sobria in pantaloni e giacca in tono alla neoministra dell’Università e Ricerca Anna Maria Bernini, per finire con Eugenia Roccella, ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità in camicetta a pois e scarpe basse, oh: non è apparsa una-gonna-una. E anche questo è Zeitgeist. Forse.
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