il foglio della moda

Gli esercizi no gender del movimento Fashion Revolution

Paola Bulbarelli

Il movimento di attivismo per una moda etica ha scelto Pitti Uomo per organizzare la tre giorni di workshop di upcycling con Lottozero dal titolo “Fluidify”, ovvero come rendere no gender un capo

Il primo impegno del nuovo anno è a Pitti Uomo edizione numero 103. Il movimento di attivismo per una moda etica Fashion Revolution ha scelto la manifestazione fiorentina per organizzare la tre giorni di workshop di upcycling con Lottozero dal titolo “Fluidify”, ovvero come rendere no gender un capo. “Agli studenti che partecipano è stato chiesto di lavorare con due capi tradizionalmente associati al guardaroba maschile e femminile andando a modificarli e ripensarli in un unico nuovo capo di abbigliamento”, spiega al “Foglio della moda”, Marina Spadafora, coordinatrice di Fashion Revolution Italia e ambasciatrice della moda etica nel mondo. “Lavoreranno con capi pre loved, reinterpretandoli in pezzi unici, abbracciando una metodologia di progettazione sostenibile che guarda agli scarti prodotti dal sistema moda come a nuove risorse creative”. Il processo di trasformazione del capo, documentato durante tutta la durata del workshop, si conclude con uno shooting fotografico che coinvolge gli studenti di comunicazione e fotografia di Accademia Italiana. I capi rivisitati dagli studenti saranno presentati questo pomeriggio alle 16 nella sede di piazza Pitti e venduti all’asta sui canali di fashionrevolution.org. Il ricavato sarà destinato al sostegno del progetto e delle attività del movimento. Fashion Revolution, d'altronde, sta operando ininterrottamente fin dalla sua nascita. “Tutto è iniziato il 24 aprile del 2013 quando crollò il Rana Plaza, un edificio di otto piani nei dintorni di Dacca in Bangladesh: furono oltre mille le vittime e circa duemilacinquecento le persone ferite che vennero estratte vive dalle macerie. Erano principalmente operaie e operai di molti stabilimenti tessili che avevano sede lì anche per conto delle grandi griffe di moda occidentali”.

 

A tutt’oggi è considerato il più grave incidente mortale nel settore tessile della storia umana. All’indomani di quella vicenda nacque appunto Fashion Revolution, movimento globale che chiede una diversa industria della moda, in grado di rispettare i diritti umani, la sicurezza nei luoghi di lavoro, il giusto salario soprattutto per le donne e la difesa dell’ambiente in tutte le fasi del ciclo produttivo. “Non è un caso che Fashion Revolution abbia preso il via in Inghilterra, il paese da dove iniziano tutti i movimenti per la giustizia sociale e ambientale. Pensiamo alle suffragette per il voto alle donne, ma anche all'abolizione della schiavitù che partì da un gruppo di inglesi indignati”. Così come inglesi erano Vivienne Westwood e prima di lei Katharine Hamnett, grandi attiviste che si sono spese per la salvaguardia del pianeta attraverso la loro moda. Sono Carry Somers e Orsola de Castro, a Londra, a fondare Fashion Revolution. “Hanno scelto di impegnarsi perchè non si può morire per la moda: in questa industria lavorano settanta milioni di persone che fanno la fame”. E si entra nel dettaglio. “La maggior parte delle persone che realizzano i nostri vestiti hanno salari ben al di sotto della soglia della povertà mentre i grandi marchi continuano a realizzare enormi profitti. Essendo il più grande importatore di vestiti al mondo e uno dei maggiori mercati di consumo di moda - con oltre 260 miliardi di euro di vendite previste nel 2022 - l'Unione Europea deve affrontare questo modello ingiusto che sfrutta il lavoro e umilia la dignità delle persone”. Per questo nasce l'iniziativa  "Good Clothes, Fair Pay" che chiede una legislazione a tutela di salari dignitosi per chi confeziona abiti. “Questa campagna di un anno, realizzata in collaborazione con Clean Clothes Campaign, ha bisogno di almeno un milione di firme da parte dei cittadini dell'UE per chiedere alla Commissione Europea di introdurre leggi su questa importante questione. L'iniziativa è guidata da una coalizione di cittadini e supportata da ONG, responsabili politici ed esperti in materia”. Persone, pianeta e profitto possono andare di pari passo? “Assolutamente sì. Ho appena letto il libro “Impact” di sir Ronald Mourad Cohen sull'impact investing, investimenti in imprese, organizzazioni e fondi realizzati con l’obiettivo di generare un impatto socio-ambientale positivo e misurabile, assieme a un ritorno finanziario (“Investire per l'impatto sociale e ambientale è molto più di una scelta morale, è un modo intelligente di fare finanza e impresa”, il mantra dell’economista di origine egiziana che nel 2013 ricevette dal G8 il mandato di guidare proprio la Task Force for Impact Investing, ndr)”. Come osserva Spadafora, “Se la finanza si muove in questo senso vuol dire che il cambiamento è in atto". Con l’hashtag WHO MADE MY CLOTHES? si è iniziato a sollecitare le persone a porsi questa domanda, sollevando una questione molto importante e molto precisa: “Prima di fare un acquisto chiediamoci chi è dietro quel capo di abbigliamento, se chi l’ha fatto abbia goduto di condizioni salariali e di lavoro sicure e dignitose, quali materiali siano stati impiegati, e se l’ambiente sia stato rispettato”. Per comprendere tutti questi aspetti c’è ancora molto da fare, soprattutto sul tema della consapevolezza. “L’educazione è la base. Insegno in varie università, anche all’estero, e mi rendo conto che il livello di preparazione e di conoscenza della sostenibilità, nel nostro paese è ancora troppo basso. Bisogna continuare crederci e lavorare per i nostri obiettivi senza perdere la speranza. Il mio motto è una bellissima frase di Nelson Mandela - It always seems impossible, until it’s done - Sembra sempre impossibile, finché non viene fatto”.

Di più su questi argomenti: