Gli epigoni di Alessandro Michele e il troppo, inutile, di tutto
Da Gucci, la parola d’ordine è “fase di passaggio”. Ma ovunque si imita la sua lezione, e l’in-sostenibilità di questo sistema inizia a farsi evidente. E’ ora di razionalizzare. Non abbiamo bisogno di milioni di cargo
Qualcuno doveva aver passato la consegna sulla locuzione che fosse opportuno usare, perché all'uscita della sfilata uomo di Gucci, la prima senza Alessandro Michele dopo quasi otto anni di direzione creativa, la prima concentrata sul solo universo maschile dopo molti anni, quasi tutti evocavano il "passaggio". Dire che una collezione è “di passaggio” è chic e non impegna. Ti permette per esempio di glissare sul logo ormai stampigliato ovunque, sui jeans come sugli stivaletti, sulle borse e le mantelle cerate, cioè il genere che piace alla gente (possiamo raccontarcela finché vogliamo, la lezione di Thorstein Veblen sul “consumo vistoso” è sempre attuale) e pochissimo a chi di moda si occupa.
Liquidare una collezione come un “passaggio”, ti impedisce però anche di commentare positivamente i cappotti lunghi, invero bellissimi, i pantaloni aperti in una interessante retro-lettura della gonna (il mondo dalla Turchia ad est ha esplorato e indossato queste forme per un migliaio di anni, forse sarebbe ora di smettere di giudicare la moda secondo il metro di giudizio vittoriano, cioè occidentale e moralista), le giacche oversize, ben tagliate, e le borse. Tantissime, nuove e ampie, ma anche storiche, come la Jackie 1961 che gli uomini, in effetti, ormai indossano anche per strada. E bisogna dire che se vi si respira una certa aria di contemporaneità facilmente comprensibile anche da un pubblico di non specialisti. Il team creativo interno, eroico, ha tenuto botta, sottoposto a una doppia pressione, interna ed esterna, che non vogliamo nemmeno conoscere, coadiuvato per lo show dalla band Ceramic Dogs di Marc Ribot, che ha interpretato un ri-arrangiamento di “Lies my body told me”, ognuno la interpreti come vuole, e da uno stylist tenuto segretissimo.
La lezione di Michele, incisiva al punto di aver impresso una svolta ideologica alla stessa società contemporanea, non è stata dimenticata e nemmeno accantonata. Non sarebbe stato possibile farlo, e nemmeno corretto dal punto di vista strategico. La svolta commerciale di Gucci che voleva il patron François Henri Pinault e che è all'origine della rottura con il creativo è però già arrivata, è già qui. Pare sia anche già stato scelto il nuovo direttore, ma esporlo a un confronto con un predecessore di quel calibro a meno di due mesi dall’uscita non deve essere sembrata un’idea vincente. Il ceo Marco Bizzarri in completo di velluto mauve rintuzza le polemiche e anche le indiscrezioni (“godiamoci lo show”), Pinault rassicura chi glielo domanda sulla permanenza del manager ai vertici dell’azienda. Ma se il “vibe” di Michele è scomparso, insieme con la folla plaudente che attendeva l’arrivo delle celebrity, e la sua stessa comparsa, nel vialone di periferia che conduce al centro operativo di Gucci, non ci sono dubbi che tantissimi stiano cercando di imitarlo adesso, a scoppio ritardato, su scala minore e senza lo stesso spirito. C’è da domandarsi, per esempio, perché il brand Family First disegnato da Giorgio Mallone, pur interessante nel concetto (la community, “fare famiglia”, oltrepassare i legami parentali per abbracciare quelli dell’amicizia), abbia sentito l’esigenza di imitare l’ultimo show di Michele (la voce off che ripete come un mantra l’impostazione ideologica del brand stesso e della collezione, il casting misto di modelli e personaggi, le coppie, lo styling carico all’eccesso di simboli) senza concentrarsi, piuttosto, su un racconto più personale e una presentazione al tempo stesso meno scontata e meno pericolosa di una sfilata.
Prendi Boglioli, marchio ormai storico e di molte eleganze che, dopo infiniti travagli societari, ha trovato una nuova solidità in capo a un fondo spagnolo: la scelta di sostenere la (splendida) mostra a Palazzo Reale di Vincent Peters, che ha scattato anche la nuova campagna, è stata certamente vincente rispetto agli anni in cui sfilava a Milano senza avere i mezzi di Gucci o di Armani e, soprattutto, senza avere un messaggio particolare da raccontare: produce capi bellissimi, molto ben fatti, destrutturati e costruiti con sapienza dagli Anni Settanta, che si ammirano e si capiscono meglio osservandoli da vicino e che caricare di styling più o meno riuscito non aiuta in alcun modo. In queste prime ore di sfilate uomo milanesi e dai risultati di Pitti Uomo spira comunque un’aria di pulizia, un desiderio di essenzialità, che si è visto molto bene invece nella sfilata modello impromptu (tutti in piedi accalcati attorno alla passerella) di 1017 ALYX 9SM, il brand del direttore creativo di Givenchy Matthew Williams, sviluppata con l'artista americano Mark Flood e presentata all'interno di una retrospettiva dell'artista.
Senza dubbio la più cool fino a questo momento, anche a giudicare dal pubblico: sarà stato forse perché eravamo posizionati ad altezza scarpe, ma le poderose suole chunky di scarpe e stivaletti (che la cartella stampa giura siano leggerissime) ci hanno molto impressionati, anche perché in effetti è ciò che indossano i ragazzi per le strade in questo momento: stivali pesanti, abiti leggeri, cappotti di taglio sartoriale, una certa reminiscenza punk generale. Resta il dubbio, ma lo scioglieremo soltanto alla fine, se sia necessaria tutta questa moda. A Pitti, duole dirlo visti gli sforzi del team per coinvolgere designer interessanti come Jan Van Assche o Martine Rose, è arrivato il momento di tornare a una vera selezione di brand accolti in Fortezza. Troppi pantaloni cargo, troppi maglioni oversize, troppo di tutto e talvolta davvero inutile. Troppe braccia rubate al notariato o all’avvocatura, forse troppe scuole di moda che promettono carriere riservate, in realtà, a pochi. E’ la prima volta che ci succede di pensarlo, e abbiamo scoperto di non essere i soli. Il sistema è ipertrofico, del tutto in-sostenibile, e alimenta troppi sogni mal riposti.
Alla Scala