Ciao maschio edizione 2023
Le variazioni del canone del vestire. Non solo nella moda, si intende
Libero sì, ma non di diventare irriconoscibile. Che cosa pensano le donne dei dibattimenti maschili attorno a identità e abbigliamento?
Fluido sì ma non troppo. Rilassato certamente ma anche sicuro di sé e certamente non in tuta. Libero ci mancherebbe, ma non di diventare irriconoscibile. La seconda edizione del “Muro dei maschi”, il murale sviluppato dal “Foglio della moda” con Pitti Immagine e ancora affisso nei suoi quattro metri per tre alla Sala delle Nazioni della Fortezza da Basso per l’edizione 103 di Pitti Uomo, pur nella campionatura molto parziale, quasi amicale, ha dimostrato in modo inequivocabile come per le donne senza problemi di identità e di riuscita professionale esista una cosa ancora più ridicola delle memorie di Harry Windsor, il “pezzo di ricambio” (“a heir and a spare”, l’onomatopea popolare inglese è sempre ficcante) che nell’autobiografia appena uscita racconta il trauma di non aver potuto chiamare “Willy” il proprio pisello come tutti gli altri inglesi, essendo questo il diminutivo del fratello maggiore, cioè the heir, l’erede, insomma il pezzo pregiato del servizio di casa.
Questa cosa ridicolissima, per le donne è l’uomo che mira a vestirsi da donna, l’uomo incerto sul proprio essere, il “Ciao, maschio”, il King Kong morto sulla spiaggia simbolo potente della commedia visionaria di Marco Ferreri del 1978. Si potrebbe obiettare che, per circa venti secoli, nei paesi occidentali sia stata la donna a voler scimmiottare abbigliamento e modi maschili, in un traslato estetico del desiderio di acquisirne il potere politico ed economico. Si potrebbe anche aggiungere che dell’opinione femminile, cis o lesbo, al mondo fluido interessi zero e a quello maschile cis che compra moda (e la compra in misura sempre maggiore: il fatturato 2022 dovrebbe archiviare l’anno a 11,3 miliardi di euro, con un +20,5%, superando quindi i livelli pre-Covid) interessi ancora di meno. Però l’evidenza che il mondo femminile rappresenti tuttora la maggioranza della popolazione umana e che continui a interagire con quello maschile dal momento primario del concepimento, indirizzandone quindi in misura fondamentale l’educazione e la crescita, qualcosa dovrebbe continuare a contare oltre le polemiche e gli attacchi di cui viene fatto oggetto proprio su questi temi nel mondo occidentale.
Aver dunque chiamato decine di donne di professionalità, storie, percorsi culturali diversi a commentare l’evoluzione della figura maschile e del suo modo di essere e di vestire per questo primo numero dell’anno che, come da calendario e tradizione produttiva del settore, si inaugura con la moda e il pensiero attorno all’abito maschile, è stato un azzardo, per certi versi un inedito. Perché, per quanto dichiaratamente “aperta alle diverse suggestioni” e “inclusiva”, la moda continua ad essere un universo chiuso, autoreferenziale, che parla di sé a sé stessa. Magari indaga universi diversi dal suo, frequenta ambienti e decodifica codici nuovi, ma al momento di trasformarli in materia, in abito, in racconto, in “narrativa”, torna a guardare all’interno del suo ambiente, a confrontarsi con le sue ragioni e le sue necessità – strategiche, commerciali, di immagine – lasciando il resto del mondo al di fuori.
Questo aspetto, su cui pure la moda fonda gran parte del suo fascino, in un’alternanza di inclusività e di esclusività davvero sorprendente per lo sforzo di immaginazione e di investimenti che richiede, è all’origine anche della scelta di non coinvolgere i soli stilisti, i soli industriali del settore, ma di confrontare le loro opinioni con esponenti di altissimo livello di quello che ci verrebbe da definire il mondo civile. Cioè, il mondo che, confrontato a una certa sacralità di cui la moda non riesce e certamente non vuole liberarsi, è poi quello che la stessa moda guarda, sceglie, decide o meno di acquistare. Perché è un fatto che, nell’universo autoreferenziale della moda, la moda maschile rappresenti un’autoreferenzialità a sé e ulteriore, l’uomo-che-parla-all’uomo e a nessun altro. Che spesso si avvita su se stesso, cercando appigli culturali e sociali non sempre solidissimi, attorno alla ricerca di una presunta femminilità nel vestire che tale, in realtà e a ben guardare, non è, configurandosi piuttosto come un nuovo tentativo di liberarsi da canoni codificati da duecento anni (la giacca formale, i pantaloni lunghi, la camicia, la cravatta) e che ormai confliggono con le esigenze di libertà espressiva a cui il mondo, e in questo caso non solo occidentale, aspira. Per questo, sono state interpellate anche stiliste e imprenditrici della moda che hanno lavorato sia sull’abbigliamento maschile sia su quello femminile o che hanno mescolato i due codici.
Oltre le ragioni sociali e politiche che sottendono al tema della fluidità, il semplice tema della costruzione dell’abito per genere o senza genere è molto meno superficiale di quanto appaia, e si fonda su radici storiche e culturali profonde e lontane nel tempo. Per esempio, sull’evidenza che fino alla metà dell’Ottocento le donne non solo non avessero il diritto di vestire gli uomini, ma nemmeno potessero vestire le donne. Come la Rose Bertin “ministro della moda” di Maria Antonietta, erano modiste, cioè un equivalente fattuale e molto interventista dei moderni stylist. Guarnivano gli abiti, li caricavano di nastri e fiocchi, di frange, ricami e passamanerie. Realizzavano cappellini, manicotti, scialli. Il primo abito attribuibile a una sarta è l’evoluzione della “mantua” settecentesca: una sorta di abito-vestaglia. Perché?
Perché era facile da tagliare. Le battaglie sindacali delle donne per vedersi garantito lo status professionale di sarta viaggiano in parallelo con quelle per il diritto di voto e di indossare i pantaloni, inforcare una bicicletta, scegliersi un lavoro gradito. Alle conquiste femminili nel vestire, lunghe un secolo, costellate da derisioni, attacchi, veri e propri arresti, rispondono oggi quelle maschili – in particolare della fascia diciotto-trent’anni: battaglie piene di incertezze, di affondi, di adesioni a cause altre e non sempre favorevoli all’universo femminile, che è anche il motivo per cui, non di rado, sulla fluidità perfino e unicamente estetica del maschio le donne, cis e talvolta perfino omo, mostrano di nutrire qualche dubbio, temendo oscuramente di dover tornare a dare battaglia per diritti che credevano di aver conquistato (luoghi protetti, difesa dai predatori mascherati, tutela della maternità) sebbene, come è ovvio, questi dubbi e queste ubbie con la fluidità del vestire non c’entrino nulla o solo alla lontana, solo nell’esteriorità, nella rappresentazione.
Dalle risposte delle professioniste che hanno preso parte al progetto-Muro, questo timore emerge a sprazzi, trattenuto ma chiaro. È una fase di transizione nella moda come nei rapporti fra uomo e donna, che da parte femminile contempla una entusiastica accettazione per il cambiamento, ma al tempo stesso chiede modelli definiti. O un uomo che vuole tornare all’essenzialità delle forme del suo vestire, che è invece l’ultimo e nuovo campo di ricerca di Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino, stilista dell’anno 2022, che nella nuova linea, Essentials, lavora appunto sulla ricerca dei codici imprescindibili non dell’uomo ma dell’individuo, “libero da vincoli e limitazioni”, attraverso la scelta di linee precise e semplici, organizzate in un sistema espandibile e in evoluzione.
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