Moda
La sfilate uomo di Milano, un ritorno al classico. In tutti i sensi
La passerella di amore etero-cis di Armani, le molte giacche e i tanti cappotti lunghi. Ecco il classico alfabeto delle sfilate inverno 2024. Tira aria di restaurazione, ma anche di sobrietà
E adesso chi lo scrive, chi lo dice, chi lo commenta Giorgio Armani che chiude la sfilata – favolosa – della collezione uomo inverno 2023 2024 con una serie di coppie giovani, bellissime, totalmente etero cis che escono a braccetto, si baciano e si fanno carezze? “Una scelta precisa”, dice al termine dello show: “Si parla di un uomo e di una donna che si vogliono bene, che si amano, finisce lì. Facciamo vedere questa realtà, che piace a tutti. Poi ci sono le trasgressioni, ci sono le varianti, ci sono le modernità. Quelle le teniamo in disparte (questa volta). Che vanno bene, non dico nulla, ma mi piaceva rivedere una coppia così, fresca, carina”.
La platea ammutolisce in attesa di confrontarsi sulla presunta ironia di un’affermazione che ribalta il sentiment della moda dell’ultimo decennio, spostando l’accento sulle belle giacche formali (“non mi piace vedere gente che si siede trasandata a tavoli importanti”), le pellicce finte, stampate animalier, molto divertenti, i velluti di quel punto di blu notte che riesce solo a lui, l’abbigliamento da sci, rosso e grigio, che sembra un tuffo nelle tinte degli Anni Ottanta: una collezione pensata per un uomo gentile, nei modi, nelle affermazioni, nella cultura (“io penso alle collezioni guardando fuori dalla finestra del mio studio, qui in via Borgonuovo, frequentando questo quartiere”, dice spiegando le ragioni di una collezione ispirata agli atri e ai bei cortili che si aprono su queste, le vie più belle di Milano.
E’ a questo mondo, che abbiamo incontrato l’altro giorno mentre festeggiava una laurea al caffè Giacomo di Palazzo Reale, un mondo in cui i ragazzi indossavano tutti giacca e cravatta, qualcuno perfino un gilet, e avevano le belle facce del privilegio, ma un privilegio non antipatico, non spocchioso, anzi felice e risolto e desideroso di fare e di fare bene, si rivolge questa collezione. Un mondo che può apprezzare i completi di lana importante, effetto bouclé, i cappotti e le giacche di alpaca. Quel mondo milanese che si tiene un po’ in disparte, che non “fa” i titoli dei giornali, che se vivi nell’ambiente della moda ti stupisce un po’ incontrare, perché lo credevi scomparso. Qualcuno ha visto nella lettura del mondo milanese “carino” di Giorgio Armani una critica aspra, abilmente mascherata, a questo stesso mondo. Non lo crediamo affatto.
Quando aprivamo il “Foglio della Moda” di dicembre con il titolo “tendenza restaurazione”, sopra la foto di Alessandro Michele al suo ultimo inchino da direttore creativo di Gucci, questo intendevamo. Che un po’ ovunque stava per spirare un’aria diversa, e lo si è visto anche nella collezione di Prada, titolo scelto “Let’s talk about clothes”, “parliamo di vestiti”. Sì, parliamo di vestiti, e che siano molto belli, perfettamente calibrati, dalle proporzioni pulite e i volumi perfetti come quelli. Il periodo della moda attivista e di denuncia oltre le sue possibilità, la sua cultura e la sua capacità di gestione di tematiche controverse sta per tramontare. Non è un bene, certamente, perché gli ultimi anni sono stati davvero interessanti, ma non è nemmeno un male: tornare all’essenza del messaggio sarà un passo fondamentale. Si possono favorire i cambiamenti culturali anche attraverso il rigore, come fanno appunto Raf Simons e Miuccia Prada che afferma di essere “molto attenta a ciò che accade nel mondo, ai problemi e alle difficoltà” e come questa collezione sia “la nostra reazione a un momento storico complicato”, lavorata “con onestà” attorno alla “creazione di abiti utili per le persone, che rappresentino la nostra idea della realtà odierna. Vogliamo creare una moda con un significato e un senso”. E adesso, l’alfabeto di questa tornata di sfilate a Firenze e a Milano, meno anodina e classica (i modaioli direbbero “classicona”) di quanto si creda.
A come aquilotto. Nella nostra adolescenza c’era l’imprescindibile jeans con l’etichetta dell’aquilotto di Emporio Armani. L’abbiamo ritrovato come ispirazione di una collezione fra le più riuscite, chiara, precisa, riconoscibile eppure seducente e nuova. Giorgio Armani fa rinascere l’immagine e il sogno dell’aviatore (sogno ambosessi, per ragioni diverse ma talvolta anche uguali), che non significa solo parka spalmati e giubbotti, gilet portati a pelle e giacche severe senza revers (qualcuno avrà riconosciuto le giacche corte, con la doppia fila di bottoni, in uso nelle cerimonie delle scuole di guerra?) ma anche rapidità di decisione e di esecuzione, sguardo “alto” sopra le cose e le persone. “Questa collezione è un omaggio alla figura dell’aviatore degli anni Trenta e al suo mondo, alla severità sofisticata e alla precisione avventurosa del suo modo di vestire, agli scintillii metallici degli aerei e dell’architettura degli hangar» scrive Armani nella nota della collezione. Ma l’omaggio è innanzitutto suo, autore sempre più pacato di una moda che conforta, rassicura e pacifica.
B come Burgundy. Con il viola e il prugna, il colore del prossimo inverno, abbinato a grigio chiaro e beige come negli Anni Settanta. Bellissimi i completi di velluto a coste di una sfumatura che definiremmo “foglia d’acero” di Brunello Cucinelli.
B come Brunello Cucinelli. Ventiquattr’ore prima dell’inizio delle sfilate uomo, ha preso l’abitudine di anticipare i dati di fatturato annuali o semestrali. Essendo questi sempre ottimi, talvolta fantastici come per il 2022 appena concluso (il giro d’affari è stato in aumento del 29 per cento a 919,5 milioni, il traguardo del miliardo è previsto per l’anno in corso), per giorni l’ambiente ne parla, incontrandosi a sfilate o eventi altrui, prendendolo a modello anche per valutare l’andamento del settore. Un genio della comunicazione, ci inchiniamo
C come cappotto. Lungo, taglio dritto, spalle segnate, in pratica il modello dei nostri zii (zii di noi x generation) negli Anni Settanta, però non sciancrato. Cappotti lunghi fino ai piedi ovunque. Da Gucci, da Emporio Armani, da Fendi, da Etro. Sono abbinati a pantaloni morbidi, spesso in pelle.
C come classico. Alla fine, Brioni, Canali, perfino Corneliani finalmente fuori dalle secche societarie ci hanno convinto più dei tanti che guardano allo streetwear per impegnarsi meno. Con una lodevole eccezione, Iuter, “progetto di landscape culturale urbano”, che però è su piazza, e sulla piazza milanese dal 2002. Molto interessante tutto, dal denim con cucitura due aghi ai paisley custom ricamati ai tessuti riflettenti fino alla prima collezione di accessori femminili. Carina anche la presentazione, alla Segheria, in forma semi-statica con uso di scooter.
D come disco. La colonna sonora di Giorgio Moroder per Fendi ha allargato il cuore di chi c'era, allo Studio 54 di allora, ed entusiasmato chi ha visto quegli anni solo nei documentari e nel (brutto) serial su Halston.
Ferragamo. Le mostre che cura Stefania Ricci per il Museo sono interessantissime, il nuovo albergo “Portrait Milano” negli spazi dell’Arcivescovado è fantastico ed è già una destinazione amata, polemiche sulle concessioni di uno spazio artisticamente così prezioso a parte. Però manca dalle passerelle e l’ultima sfilata donna di Maximilian Davis non aveva convinto. Vorremmo avere notizie dell’azienda, grazie
K come kilt. Lunghi, corti, anche in tinta unita grigio ferro come nei collegi femminili di un tempo. Tutti o quasi indossati pudicamente, sopra i pantaloni. Pudicamente. Una grave mistificazione: il mondo occidentale maschile, che crede di dettare ancora legge nella moda, non acquista gonne, le ritiene al limite una concessione al folklore scozzese, non le trova divertenti. Dagli Urali a est, la storia è invece completamente diversa, le gonne lunghe non sono per niente un’eresia, come peraltro non lo sono gli abiti lunghi. Dunque, per piacere, decidetevi: le gonne maschili lunghe (ne abbiamo viste anche da Etro), sono accettabilissime. Magari non in via Filodrammatici a Milano, ma altrove sì. Però smorzarne l’effetto con i pantaloni a sigaretta non ha senso.
P come paillettes (e cristalli). I pantaloni in paillettes con effetto lucido-bagnato di Emporio, i gessati di cristalli, i cristalli sui jeans (Gucci, in effetti li aveva già fatti Tom Ford, se li aveva fatti lui approviamo comunque), i “punti luce” da Fendi, il lurex da Missoni (che però ha ancora bisogno di una grande calibratura, anche questa una collezione non riuscita, purtroppo).
P come piumino. In via di sparizione. Ne abbiamo troppi, occupano comunque un sacco di spazio. Ottimi, come un tempo, da indossare in montagna
S come Settanta. Abbiamo già scritto Settanta?
S come sfilata. Nulla e' più deprimente dello show di second'ordine, soprattutto quando in quelli di prim’ordine si alzano e si abbassano i soffitti (Prada), sfere di metallo ruotano sui toboggan al ritmo di una colonna sonora studiata da Giorgio Moroder, o ancora suonano band di livello mondiale (Gucci) o c'e' una grande storia da raccontare (Etro, col contenuto del magazzino tessuti di Fino Mornasco a fare da set) o, ancora, c'e' un casting di interesse cinematografico (le facce pazzesche di Charles Jeffrey, Loverboy, i “Miserabili” di Victor Hugo, in pratica). Ergo. Se non si possiedono i mezzi/la collezione adatta/la voglia di competere, ci sono molte altre soluzioni da adottare con successo: per esempio, sostenere la mostra di grande livello artistico (Boglioli a Palazzo Reale con Vincent Peters), la presentazione-serale-con-dj-set (Lardini), l'aperitivo nel ritrovo storico, coevo al marchio che si promuove (Valstar al Camparino di piazza Duomo con i modelli che giravano fra gli ospiti, genere Poiret 1919, ma con la differenza che qui i modelli erano anche disposti a farti provare il cappotto, in un clima super-rilassato, mentre all'epoca di Poiret il film che ne venne tratto fu censurato negli Stati Uniti perché le modelle mostravano la caviglia). E che dire poi delle difficoltà di rappresentazione del Consorzio Cuoio di Toscana, un’associazione di produttori di cuoio per accessori e design, abilmente aggirate rendendo questo prodotto, scarto di lavorazione, un’eccellenza tale da meritare un percorso fra i cinque sensi nel cortile di Palazzo Strozzi affollatissimo di presenze e di gente interessata ad assaggiare il liquore ai tannini (che sì, sono cosa naturale). Le idee vengono sforzandosi, lavorando di prospettiva. Ma la sfilata con le panche che non si riempiono di ospiti nel magazzino vuoto e desolato risparmiatevelo e risparmiatelo anche a noi. I soldi si possono investire in altro modo.
S come Silvia Venturini Fendi. Da sola costruisce meglio il messaggio. Collezione riuscita, le borse disegnate da Marco De Vincenzo pure, molto divertenti i top monospalla di lana, interessanti le giacche che si prolungano nel lembo di una cappa, favolose le giacche di shearling a stampa trompe l'oeil che speriamo di rivedere fra un mese nella collezione donna disegnata da Kim Jones, ma non ci contiamo, sigh
S come stampa. Tutti la danno per morta, però la riproducono sui jersey e le sete (camicie, gonne). Come faceva John Galliano. Come faceva Elsa Schiaparelli. Come si è sempre fatto, dopotutto
T come texture. Non basta che i tessuti siano tali. Devono essere “materici”, tridimensionali, insomma devono sembrare tessuti veri, come quelli che indossavano i nostri genitori e i nostri nonni, e non i tessili senza corpo, senza struttura, inutilmente ingualcibili dello sportswear e del fast fashion a cui si sono abituate le nuove generazioni. Grande ricerca, e non poteva essere altrimenti, da Etro (speriamo di rivedere quei jacquard nella linea femminile, fra un mese), grandissima da Brunello Cucinelli, con micro effetti speciali come Donegal e chevron.
V come Vivienne Westwood. Uh che bravo Charles Jeffrey Loverboy. Vero. Anche divertente, come tutti gli stilisti inglesi e nel gruppo includiamo (non se ne abbia troppo a male, essendo irlandese) anche J.W. Anderson, sfacciato e sexy da morire. Però noi che abbiamo già fatto un paio di giri, abbiamo visto quelle sfilate di denuncia delle condizioni dei lavoratori, quello spirito iconoclasta, e anche quello styling, prima da Vivienne Westwood e poi da John Galliano. Insieme con le gonne a balze, con i vestiti di satin stampato “artistico”, con le sciarpine di seta annodate à la Brummell, eccetera eccetera. Pace al genio di mrs Westwood, ci mancherà tantissimo.
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