Il nuovo re sole. Alla corte di Bernard Arnault
Cibo, vino, moda, profumi, gioielli: non esiste più un campo in cui le attività della sua Lvmh non siano presenti
Qualche ora prima che il ristrettissimo mondo che ruota attorno alla haute couture prendesse un volo per Parigi e lo spettacolo di abiti che costano come monolocali, il giovanissimo talento svedese Daniel Lozakovich teneva il suo primo spettacolo importante con la Filarmonica del Teatro alla Scala, un’esecuzione del Concerto in Re maggiore per violino e orchestra di Pëtr Il’ich Ciajkovskij, bête noire di tutti i grandi esecutori dal 1878 in cui venne composto e il virtuoso a cui era stato destinato, Leopold Auer, declinò ritenendola ineseguibile. Nella pausa fra il temibilissimo primo movimento e l’andante del secondo, sfogliando il libretto di sala si veniva a conoscenza che uno dei due violini in dotazione a Daniel per rappresentare la sua arte era uno Stradivari, il “Reynier” del 1727, “generosamente prestato da LVMH”. E’ noto che Bernard Arnault sia un discreto pianista e che ancora nel Duemila, data di pubblicazione della sua autobiografia (“La passion créative”, una conversazione molto soft con l’allora caporedattore economia del Figaro, Yves Messarovitch, mai tradotta in italiano) avesse dichiarato come il sostegno ai giovani artisti, attraverso la concessione di borse di studio e strumenti musicali che facevano parte del patrimonio del gruppo, fosse per lui un elemento strategico e affettivo fondamentale. Ma è anche vero che ormai sia diventato pressoché impossibile non incrociare almeno un prodotto o una proprietà del più grande conglomerato del lusso mondiale in un momento qualsiasi della giornata.
Quando, quarantott’ore fa, la voce pacata e il fazzoletto sempre a portata di mano per tamponare un forte raffreddore, Arnault ha spiegato nel corso di una conferenza online i risultati eccezionali del 2022, i 79,2 miliardi di euro di ricavi complessivi e il “superamento della soglia dei 20 miliardi di giro d’affari” per Louis Vuitton promesso agli azionisti, tracciando quindi le linee guida per l’anno in corso che si potrebbero racchiudere nel mantra “crescita della desiderabilità”, si aveva l’impressione che qualunque cosa il mondo desidererà bere, mangiare, vestire, viaggiare con sfoggio di lusso finirà per fare più ricco l’uomo più ricco del mondo. Non esiste più un campo in cui le attività di Lvmh non siano presenti. Vini, liquori e moda di lusso, naturalmente, tutti e tre inscritti nell’acronimo del gruppo dal 1987, quando venne fondato da Henry Racamier e Alain Chevalier, e poi finì al centro di una sanguinosa battaglia azionaria che, nel giro di pochi mesi, portò Arnault e Guinness al comando, ma anche ristorazione e pasticceria (Cova, per esempio), antiche maison di cristallerie (Baccarat), grande distribuzione (Sephora, la Samaritaine, DFS, la distribuzione aeroportuale che è l’unica a dare ancora ad Arnault dei grattacapi), valigeria (Rimowa) e poi profumi di diffusione e di eccellenza (Francis Kurkdjian, nominato “naso” di Dior secondo la logica del sostegno al marchio di nicchia del creativo in cambio della consulenza per quello di massa), hotellerie (il gruppo Belmond, le Cheval Blanc), gioielli (da Bulgari a Tiffany), le fondazioni d’arte e naturalmente il ramo costruzioni che rappresenta il debutto, Ferret Savinel, fondato dal nonno Etienne. L’azienda, priva di storia o gloria particolari, venne trasformata in società di sviluppo immobiliare fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del Novecento in Florida: anni su cui Arnault sorvola, non privi di difficoltà, in cui si strinse il legame indissolubile con Michael Burke che in queste ore lascia il timone di Louis Vuitton a Pietro Beccari, in arrivo da Dior che in cinque anni ha portato a circa 6,2 miliardi di euro di fatturato, secondo exploit dopo quello di Fendi.
In questi giorni, le auto blu che aspettano gli ospiti fuori dall’ingresso dello Cheval Blanc, l’hotel affacciato sulla Senna e il Louvre che occupa l’edificio liberty della Samaritaine, aperto nel 2021 dopo lo stop pandemico, sono gli stessi che occupano le prime file alle sfilate di Dior, Schiaparelli, Armani, Valentino, le signore e in particolare le orientali determinatissime a non lasciarsi sfuggire il tale o talaltro abito, costo medio ottantamila euro e di cui, come si sa, sarà possibile ordinare al massimo una replica per area geografica. Ovunque ci si muova, edicole comprese perché, anche escludendo la proprietà di Les Echos e le Parisien, è difficile immaginare che una testata francese scriva qualcosa di dissimile da un encomio entusiasta nei riguardi dell’uomo che ha ridato alla Francia un orgoglio planetario sconosciuto dai tempi del Manzanarre e il Reno, si compra, si consuma, ci si diverte e ci si accultura secondo lo stile del gruppo Lvmh e di monsieur Arnault. Non è per caso che giovedì sera abbia tenuto a segnalare le 15 mila nuove assunzioni del 2022 nella sola Francia su un totale di 39 mila nel mondo, le decine di migliaia di ore spese nella formazione del personale e in buona sostanza il “ruolo sociale” del gruppo in seno a un paese che, nelle stesse ore, scendeva in piazza contro i salari e l’innalzamento dell’età pensionabile, tuttora fra le più basse in Europa. Pur conoscendone le aspettative, anzi proprio per quello, non c’è un creativo, un architetto, un artista che non sogni di entrare a far parte del suo cerchio magico.
L’aura che la benevolenza di Arnault regala era evidente lunedì scorso alla sfilata di Dior Couture dal numero di signore ferme al freddo sui gradini che portano al parco del Musée Rodin per poter baciare Peter Marino, archistar con un debole per la ferramenta da ornamento personale, autore dello Cheval Blanc, del favoloso progetto di Avenue Montaigne 30 che ha portato Dior al centro delle conversazioni artistiche mondiali e di tutte le grandi operazioni di ristrutturazione del gruppo. In nessun altro gruppo del lusso come in questo, la vicinanza al centro irradiatore del potere, al sole, sembra elemento dirimente di successo personale, tanto che l’argomento principale delle chiacchiere di media e clienti della couture a bordo passerella per tutti i cinque giorni di sfilate, feste e presentazioni di gioielli è stata la permanenza di Maria Grazia Chiuri nel suo ruolo molto invidiato di direttrice creativa di Dior adesso che sulla tolda di comando è arrivata la figlia primogenita di Arnault, Delphine, molto legata al direttore creativo di Fendi donna e di Dior Homme Kim Jones, uomo abilissimo nelle relazioni personali (spoiler: fino a quando Chiuri continuerà a intercettare con saggezza e senso della misura il gusto del pubblico mondiale, state sicuri che nulla cambierà, e non siamo stati i soli a notare che, dopo le lodi sperticate degli anni scorsi, nel suo discorso di giovedì Arnault abbia citato per due volte il lavoro “exceptionnel” di “Maria Grazia” e neanche una quello del creativo inglese).
E’ un fatto che Arnault apprezzi la creatività sopra ogni altra cosa e che l’intelligenza artistica, musicale o architettonica seduca lui, ex laureato del Politecnico, come nessun altro aspetto dell’esistenza. Oltre le scalate, i pacchetti azionari scambiati nottetempo, l’asticella dei risultati posizionata ogni anno a una doppia cifra superiore a quella dell’esercizio precedente, Lvmh è il più grande sogno di possesso e diffusione della bellezza che sia mai stato concepito. Il bello della vita con l’etichetta del prezzo, ma bello assolutamente e fuor di dubbio. Il desiderio fatto oggetto. Rileggete una qualunque delle pur pochissime interviste concesse da Bernard Arnault nel corso degli ultimi quarant’anni (la mia, lo confesso quasi vent’anni dopo, venne condotta dopo lunghe trattative fra il salone del Plaza Athénee dove aveva tenuto uno speech per gli investitori finanziari e un punto imprecisato di avenue Montaigne dove lo attendeva lo chaffeur, il tutto reso più difficile dal fatto che sia alto un metro e novanta e che, come tutti i veri potenti, parli a bassa voce) e l’unico passaggio costante che vi troverete è proprio la “passione creativa” del titolo della sua autobiografia e al quale l’articolista del momento ha immancabilmente avuto modo di assistere. Ed ecco dunque, un anno dopo l’altro, la gioia esplicita delle chiacchiere con John Galliano (exit 2011 dopo il famoso episodio degli insulti antisemiti lanciati a una coppia in un bar, ora felicemente ristabilito nel gruppo OTB di Renzo Rosso dove ha appena inaugurato il nuovo, sofisticato hotel particulier di Maison Margiela in place des Etats Unis); con Stephen Sprouse (prima collaborazione di marketing artistico di Vuitton); con Frank O. Gehry, architetto della Fondation Vuitton, sorta nel 2019 a rimarcare la rivalità ormai leggendaria e ventennale di Arnault con François Pinault, l’unico che sia mai riuscito a impedire ad Arnault la scalata a un marchio a cui teneva. Gucci. La “bataille du luxe”, come venne titolata in quel biennio 1999-2001 di fuochi di artificio, suggerì agli organismi di controllo francesi una revisione delle regole e insegnò certamente ad Arnault a proteggere al meglio le sue proprietà, come si è visto peraltro anche lo scorso luglio, quando la holding di famiglia Agache (la denominazione risale ancora ai tempi della famiglia Willot che, negli anni pre Mitterrand, possedette per breve tempo il colosso del tessile-distribuzione Boussac, artefice del debutto di Christian Dior nel 1947, poi acquisito da Arnault con il supporto di Lazard e il benestare del governo) è stata sostanzialmente blindata attraverso la trasformazione in società in accomandita, modello Fiat dei tempi Agnelli, Sofibol-Bolloré o Hermès, l’intoccabile, l’inarrivabile modello per tutti. “Il gruppo Lvmh è un gruppo familiare”, spiegò in occasione del cambio di governance Arnault, “la cui vocazione è di sostenere lo sviluppo a lungo termine di ciascuna delle sue maison, rispettando ciò che le rende uniche e forti”. Anche per questo motivo, sottolineava, la trasformazione di Agache in una società in accomandita non avrebbe modificato la partecipazione azionaria esistente garantendo invece “la continuità a lungo termine del suo controllo sul gruppo Lvmh”. Lo scopo della manovra, reso appunto esplicito, era di dissociare la gestione e la proprietà del capitale, costituendo anche un’arma di dissuasione contro le offerte pubbliche di acquisto ostili.
Manovra che Arnault conosce molto bene e che intende risparmiare ai suoi cinque eredi, secondo una logica seguita dai Dumas Hermès, dai Wertheimer proprietari di Chanel che, dai tempi dell’occupazione nazista, sanno come rintuzzare gli attacchi, e dagli stessi Pinault. Il controllo di Agache viene esercitato dal socio accomandatario Agache Commandité Sas, una società il cui capitale è detenuto in parti uguali dai cinque figli di Arnault: Delphine, Antoine, Frédéric, Alexandre, Jean, tutti già impegnati in azienda e i due primogeniti, nati dal primo matrimonio, con Anne Dewavrin, in ruoli chiave (in Francia è opinione comune che il secondo matrimonio di Arnault, con la famosa pianista franco-canadese Hélène Mercier, bella e coltissima, avesse fatto tirare un sospiro di sollievo al suo entourage, timoroso di vederlo cadere preda di qualche arrampicatrice sociale che avrebbe destabilizzato gli equilibri del gruppo e il suo centro irradiatore). Secondo la struttura delle accomandite, il capitale sociale di Agache è interamente di proprietà della famiglia Arnault, socio accomandante lo stesso Bernard Arnault come direttore generale. La struttura è ovviamente mirata a garantire la continuità a lungo termine del controllo familiare e un’unica voce dell’azionista di controllo all’interno di Christian Dior e Lvmh, ma la nomina di Delphine a presidente e ceo di Dior con “le sue acute intuizioni e la sua incomparabile esperienza” – che meraviglia avere un padre così supportivo – che segue da vicino quella di Antoine ad amministratore delegato della holding Christian Dior SE e vicepresidente del suo consiglio di amministrazione, ha avviato un fitto parlottio internazionale su una possibile, futura lotta successoria, che andrà ad innestarsi su probabili nuovi cambiamenti in arrivo, perché alcuni dei manager più fidati del gruppo si avvicinano al pensionamento. Ma non pensate neanche per un momento che Burke lascerà del tutto il gruppo – Arnault giovedì ha detto chiaramente che per lui sono in serbo nuove cariche al suo fianco – o che due dei suoi più diretti consiglieri e manager, Sidney Toledano e Toni Belloni, rispettivamente settantuno e sessantanove anni, si ritireranno mai a vita completamente privata. Per Arnault sono famiglia, e per lui famiglia significa gruppo allargato dagli anni dell’infanzia trascorsa a Roubaix, in Normandia, dove viveva perlopiù a casa della nonna perché entrambi i suoi genitori erano impegnati nel lavoro e in particolare la madre Marie-Joséphine, farmacista, un tratto non comune fra le donne degli anni Cinquanta.
Famiglia significa anche una linea di condotta e una comunicazione allineate. Qualità, sentimento di gruppo, valorizzazione delle competenze: una linea uniforme. Qualche mese fa, Antoine Arnault venne a Milano per presentare l’edizione 2022 delle Journées Particulières, evoluzione in chiave lussuosa delle iniziative “porte aperte” dei concessionari automobilistici in cui le maison del gruppo aprono i propri laboratori al grande pubblico. Un successo planetario da anni. Si era nel cortile del palazzetto di Loro Piana in via Montenapoleone e il primogenito raccontava come regalasse fin da ragazzino per Natale al padre un pullover di quella griffe italiana, sapendo che “non avrebbe accettato altri prodotti di maison estranee al gruppo”, ma che in quel caso fare un’eccezione era possibile. Nell’ambiente è noto che all’inizio dello scorso decennio fu lo stesso Sergio Loro Piana, già molto malato, a contattare Arnault per proporgli l’acquisto dell’azienda di famiglia, ma in quel momento, per un istante, a tutti i presenti venne il dubbio che il signore altissimo con la voce pacata avesse puntato il marchio già vent’anni prima.
Alla Scala