il foglio della moda
Agenzia rating modelle pensanti
Per lavorare sulle passerelle di moda conta il numero di follower, il nepotismo dilaga peggio che in politica e l’inclusione è uno specchietto per le allodole. La denuncia di due volti del momento, Nabou Thiam e Beatrice Brusco
Sono eroine del gerundio sostantivato. Al giorno d’oggi le modelle – dopo aver passato le gogne caudine del casting (le ore di attesa nella speranza di essere scelta per un lavoro), tra un fitting (la prova di un abito) prima di uno shooting (il servizio fotografico), dopo aver studiato il briefing (le istruzioni) in un meeting (una riunione) sul modo in cui lo stilista vuole il walking (la camminata), adesso devono sottostare a un altro suffisso in -ing. Il rating.
Lontani i tempi in cui bastava essere – più o meno in maniera naturale – le fortunate vincitrici di una lotteria genetica per trasformarsi in “fantocci viventi” (come diceva l’architetto, pensatore e antropologa Bernard Rudofsky ne “Il corpo incompiuto” del 1975), o “grucce umane” (nelle parole dello psicoanalista John Carl Flügel, in “The Psychology of Clothes”, del 1930). Adesso, come i ristoranti, i film, le facoltà universitarie e qualunque altra cosa o persona passibile di classificazione in stile Trip Advisor “viviamo in un mondo in cui il successo viene misurato tramite i risultati mediatici ottenuti: maggiore è il numero di follower e visualizzazioni ottenute, maggiori le opportunità ricevute: avere tanti seguaci è una marcia in più”. A parlare è Nabou Thiam - per quelli del settore, semplicemente Nabou - rivelazione delle passerelle italiane, classe 2002, bresciana afrodiscendente, di origini senegalesi, contesa da maison come Etro, Dolce & Gabbana, Louis Vuitton. Un giunco flessuoso, un paio di gambe che sembrano spuntarle come orecchini pendenti tanto sono chilometriche, aspirante architetta, è molto attiva sul fronte della famigerata “inclusività”, termine assai discutibile in italiano, quando sarebbe meglio parlare di inclusione: “Molti di questi temi sono portati avanti da molti brand, e onestamente nemmeno da tutti, più per marketing che per convinzione”, dice. “Un’operazione dii facciata per aggiungere altre fette di mercato a quelle esistenti. Le ragazze e i ragazzi che trovo sul set e alle sfilate sono ancora per la maggior parte caucasici: serve più rappresentazione di etnie diverse e non solo il “giusto” per essere politicamente corretti. Questo è solo uno dei problemi che vivo e che si estende anche al lavoro dei make-up artist e dell’hairstyling (un altro -ing, nda): mi è capitato di dovermi occupare io stessa dei miei capelli sul set perché il parrucchiere non sapeva trattare i miei capelli o mi fosse proposto un fondotinta di tre gradazioni più chiare della mia tonalità di pelle. Spero veramente che la situazione cambi, non solo per me ma per tutte quelle persone che vogliono sentirsi rappresentate in un mondo che ha un'influenza rilevante nella società in cui viviamo oggi”.
Nel 1853, Charles Frederick Worth chiese a sua moglie di indossare i vestiti che aveva disegnato invece di esporli. Fu il primo a capire che l’abito portato da una modella avesse un po’ più di magia rispetto a quello appeso a un manichino. E i cultori della moda autoriale ricorderanno come il sensibile e sofisticato curatore di mostra di moda Olivier Saillard, già direttore del Musée Galliera di Parigi, creò nel 2014 una performance andata in scena anche a Palazzo Grassi a Venezia, dal titolo “Models Never Talk”. Vi partecipavano indossatrici di fascino eccezionale, come dive del cinema muto: Amalia Vairelli, musa di Yves Saint Laurent; Violeta Sanchez, idolo di Franco Moschino; Anne Rohart, ossessione visiva della fotografa Dominique Issermann. Saillard aveva domandato loro di raccontare sentimenti ed emozioni, nascosti dal corpo vestito mentre lavoravano, anche se nei fatti dovevano quasi sparire: il punto focale della sfilata doveva essere l’abito, non chi lo indossava. Il sociologo francese Jean Baudrillard parlò addirittura di “fantasmagoria di corpi”: le modelle erano così irreali da sembrare quasi dei fantasmi. Ora invece la voce ce l’hanno e la fanno sentire su Instagram e TikTok dove confidano non solo malesseri e malumori personali (la bellissima sud-sudanese Adut Akech, icona di Pierpaolo Piccioli, ha parlato di come combatte la depressione, gli attacchi di panico e perfino foschi pensieri suicidi con un ingenuo post su Instagram, Nabou racconta a “Vanity Fair” dell’ansia che la divora) ma anche una rinnovata lotta di classe. La quotatissima e sofisticatissima Vittoria Ceretti si è scagliata contro i “nepo baby”: i figli di celebrità che si trovano la strada spianata grazie alla posizione e le conoscenze dei genitori, lanciando con una story su Instagram una frecciatina a Lily-Rose Depp (figlia di Johnny Depp e Vanessa Paradis), Zoë Kravitz, figlia di Lisa Bonet e Lenny Kravitz, Kaia Gerber, figlia di Cindy Crawford, così come le top model Bella e Gigi Hadid, figlie del magnate Mohamed Hadid, e Lila Moss, figlia di Kate Moss.
“I social sono una lama a doppio taglio. Se domani io andassi a fare il medico perché ho un milione di follower, sarebbe corretto? Non penso, anzi, scorrerebbero fiumi di inchiostro in polemiche”. Beatrice Brusco, 26 anni da Canzo, provincia di Como, sembra fuggita da un quadro preraffaellita ma ha il piglio di un’attivista: campagne per Benetton, Ferragamo, Pomellato, Pinko, editoriali sulle riviste di mezzo mondo, una futura carriera da avvocata. “Con i soldi che guadagno pago le tasse dell’università. Non sono una blogger né figlia di attrici, cantanti, miliardari che saltano la gavetta e partono già con ingaggi da Chanel o Louis Vuitton. Il mio papà è un geometra, la mia mamma fa l’impiegata da un commercialista a Erba. Noi modelle con un retroterra sociale normale, siamo state surclassate da ragazze con uno status sociale elevato o un numero spropositato di followers. Abbiamo perso decine di lavori perché i testimonial dei brand sono sempre di più personaggi famosi, di qualsiasi sorta. Ma, per chi si intende di moda, i risultati si vedono”. Un episodio particolarmente sgradevole? “In un’occasione ho posato io con una collega per una famosa maison, dove avevano ingaggiato anche una influencer celeberrima e, devo dire, bellissima. Purtroppo, però, abbiamo scattato anche la sua parte, finendo la notte, perché il fotografo aveva difficoltà a terminare il lavoro”. Sulla multiculturalità: “Tutto questo ostentare inclusione e diversità è uno specchietto per le allodole e quindi un mezzo per farsi pubblicità. Non ho paura a dire che, a mio parere, nella stragrande maggioranza dei casi non ci si vuole discostare dall’immaginario storico e comune di modella: caucasica, bionda, alta e magrissima. La cosa che più mi infastidisce non è solo il fatto che nel concreto tutta questa inclusività non esista nella moda, ma che i brand si nascondano dietro a un finto perbenismo con la speranza di trovare un pubblico ignorante e di convincerlo della purezza dei loro intenti. Nel 2023 ancora abbiamo difficoltà a capire che la moda, così come l’arte, non è una cosa per tutti, ma che richiede dedizione, competenza e doti specifiche?”. La differenza con un tempo, dunque, c’è o no? “Oggi le ragazzine sognano di essere formose come Kim Kardashian e in generale amano tutto ciò che Instagram propone di questa famiglia”, osserva Piero Piazzi, imprenditore, tra i più importanti agenti di modelle e talent scout a livello internazionale. Lavora nella moda da oltre quarant’anni, dopo esservi entrato a sua volta come modello. Dal 2003 guida l’agenzia Women Milano e attualmente ricopre la carica di Presidente di Women Management, oltre ad essere ambassador di To Get There, l’onlus italiana che opera a favore del futuro dei bambini. “Fino a pochi anni”, aggiunge, “ambivano alla snellezza e alla biondità degli angeli di Victoria’s Secret. In generale, oggi nelle agenzie devi avere donne che rappresentano un intero universo: modelle di colore, orientali, oversize o “diversamente belle” come Winnie Harlow, diventata un modello mondiale per la sua vitiligine. Considero il mio un lavoro essenzialmente politico. Sono stato il primo a volere nella mia squadra una modella transgender, Lea T, e tutti mi davano del pazzo”. L’ho conosciuta quando era ancora Leandro Medeiros Cerezo, e le ho consigliato di non apparire troppo, di non accettare troppi inviti nei cosiddetti salotti televisivi: mi ha ascoltato. Le dissi “A me interessa trasmettere un valore vero, che promuova davvero una causa”. Lea avrebbe potuto guadagnare montagne di denaro e di conseguenza anch’io, ovvio. Ma la sua professionalità è rimasta intatta e soprattutto credo di averla aiutata a influire sul grande fenomeno culturale della fluidità sessuale. La moda è la più potente arma di comunicazione che esista. Però una cosa è il messaggio, un’altra la sua traduzione nella realtà: sono due mondi diversi. C’è ancora troppo razzismo e il body shaming è ancora forte. Non vedo ancora un vero cambiamento, un’autentica accettazione della diversità. E questo non dipende dalla moda, bensì dall’educazione che deve partire dalle famiglie e dalla scuola. E questo fa il paio con un sistema della moda dove la moda vera non esiste; sono solo prodotti veicolati attraverso show spettacolari, in una gara eccentrica al “famolo strano”. Piazzi è noto per aver introdotto nel mondo della moda volti come quello di Mariacarla Boscono e di Marpessa Hennink. “Quando sono venute da me, Mariacarla con la sua altezza smisurata e Marpessa con le borse sotto gli occhi non erano considerate brutte dal mercato, ovviamente; però venivano parcheggiate in attesa, a favore di modelle dalle fisionomie più convenzionali. Ho sempre creduto nell’imperfezione, e per questo mi hanno perfino dato fuoco all’auto. Ho ricevuto minacce da parte di chi mi accusava di valorizzare persone diverse, se non addirittura di dare cattivo esempio”. Ma Piazzi, con le sue ragazze non conformi, è convinto di aver scelto la strada giusta. Fra i pochissimi, anzi da solo. “Colleghi?! Io non ho colleghi”.
Alla Scala