il foglio della moda
Finita l'età dell'oro in cui il cinema ispirava la moda, funzionano le produzioni in collaborazione
Il modello è quello di Luca Guadagnino, un prediletto del sistema, che per i film “Challenges” e “Queer” ha chiamato un altro prediletto, lo stilista JW Anderson. Gli attori? Fanno gli influencer a pagamento. Un'analisi
Negli Ottanta e Novanta, ovvero nell’autentica âge d'or della moda, nelle riviste funzionava più o meno così: le redattrici vedevano un film, a volte bastava che avessero visto solo delle immagini di quel film pubblicate da testate straniere, e partivano le idee di styling, anche se allora nessuno le chiamava così. I film ispiratori, su cui redattrici e fotografi imbastivano il concept dei servizi (anche il concept, allora, non si chiamava così, non si chiamava proprio) non dovevano necessariamente essere belli ma solo abbastanza suggestivi e almeno con un piccolo, a volte piccolissimo, punto di contatto con la moda sfilata pochi mesi prima. Ricordo una vera ossessione collettiva per L’amante di Jean – Jacques Annaud. Improvvisamente (era il 1992) ci fu un’epidemia di pagine piene di beige e azzurro polvere su capi dalle linee essenziali ambientate nel Sud Est asiatico a volte di fantasia, ricreato fuori Milano, più spesso scattato in loco perché ancora l’editoria per produrre quei servizi aveva tanto denaro. Funzionava, funzionò: quell’incontro tra il racconto autobiografico tratto dal romanzo di Marguerite Duras e la moda minimalista dei primi Novanta aveva grazia ed efficacia.
Oggi i film sono sempre meno rilevanti in termini di influenza culturale, così come le riviste. C’è una nuova estetica istantanea, fatta di like e cuoricini, spinta dai social, che ha creato un multiverso in cui vale tutto. Siamo in un’âge in cui non solo manca l’oro ma che si proclama everything, everywhere, all at once, come il titolo del film che è candidato a undici premi Oscar.
In termini di ispirazione, il cinema non può più essere una fonte egemone. La moda si è accelerata, le collezioni e dunque le suggestioni si moltiplicano di mese in mese, i film sono rimasti al Novecento, ci vuole sempre almeno un anno e, in qualche caso molto di più, per concepirli e produrli.
Restano interessanti certe collaborazioni in caso di eventi unici e irripetibili, come la sfilata diretta dal regista danese Nicolas Winding Refn per Prada l’anno scorso o il fashion film di Matteo Garrone nel 2020. Un regista molto attento appassionato di moda come Luca Guadagnino coinvolge spesso stilisti nella creazione dei costumi. Per “Challenges”, protagonista Zendaya, la diva della Generazione Z, di prossima uscita, ma anche per “Queer”, in lavorazione, tratto dall’omonimo romanzo breve di William S.Burroughs, con Daniel Craig, storia di un expat americano in Messico che si innamora di un giovane marine, affrontando dubbi e insicurezze, ha chiamato J W Anderson, fondatore della griffe eponima e direttore creativo di Loewe. Nel nuovo multiverso si alleano e si incrociano interessi diversi, per piattaforme diverse: il red carpet, le alleanze commerciali tra attori e brand, un sistema che probabilmente aiuta le vendite ma che impoverisce le idee. Se si escludono poche attrici, Cate Blanchett per esempio, dotata di forte personalità, tutte le altre e gli altri sono spesso alla mercé dell’ultima collezione da promuovere, a pagamento. Gli attori sono diventati influencer, è il loro secondo lavoro. Non sempre hanno l’autorevolezza o la competenza fashion, per scegliere quello che davvero li valorizza. Si affidano agli stylist, i nuovi re e regine di un pasticciaccio a volte brutto in cui si mescolano troppi interessi perché vinca non dico il buon gusto ma almeno il buon senso.
Forse bisognerebbe ripassare un po’ di storia, in fondo la collaborazione tra cinema e moda è antica come la pellicola. Negli anni del cinema muto, il giovane Salvatore Ferragamo immigrato in California creava scarpe per Douglas Fairbanks e Mary Pickford, da indossare sul set e anche fuori. Edith Head e Adrian, i costumisti più attivi della vecchia Hollywood, vestivano i personaggi dello schermo e, con le loro creazioni, davano agli attori un’identità. Lo studio system decideva tutto per i suoi dipendenti: quando e come sarebbero usciti a cena, con chi e come si sarebbero vestiti. L’identità tra figura cinematografica e persona reale era perfettamente sovrapposta per enfatizzare il valore quasi divino, quindi immanente, degli attori, come ci ha spiegato Edgar Morin nel saggio del 1957 Les Stars che, inspiegabilmente, non è stato più pubblicato in Italia dall’ultima traduzione del 1995.
Più gli attori si sono affrancati da un sistema che li usava e scambiava da uno studio all’altro come calciatori dal Milan al Real Madrid, più la moda è diventata il segno della loro libertà di scegliere chi essere e a chi piacere. Da qui sono emerse alcune collaborazioni molto felici, una per tutte quella tra Hubert de Givenchy e Audrey Hepburn.
La rivoluzione però è arrivata davvero con Giorgio Armani e l’ingresso del made in Italy a Hollywood, attraverso il film American Gigolò. Uno stile definito diventava protagonista, segnalava lo spirito del tempo, faceva decollare le vendite e il prestigio internazionale del marchio. Da quel momento, però, un esercito di brand ha iniziato a prendere accordi con le case di produzione cinematografiche, attraverso contratti di sponsorizzazione e product placement, a volte sottile, spesso troppo sfacciato per essere accettabile. Si contano sulle dita di una mano gli incontri riusciti. Penso al lavoro di Miuccia Prada per Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann (2013), dove il gusto deco del periodo, gli anni Venti del secolo scorso, si sintonizzava con il mondo della designer senza mai diventare l’espansione di una campagna pubblicitaria. Caso più unico che raro, in un decennio in cui il potere dei brand più danarosi e dei loro uffici marketing ha ridotto i film a spot. O almeno ci ha provato e continua a provarci.
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