Lo show virtuale è finta democrazia
Colloquio fra Michele Lupi e Ippolito Pestellini Laparelli, fondatore di 2050+ e già partner dello studio OMA/AMO di Rem Koolhaas, sui risvolti etici della progettazione degli eventi. E sui desideri inaccessibili che suscitano
Curioso di sapere quali siano le più importanti sfilate di moda nella storia, ho digitato la domanda su Google (in mancanza, per ora, di una risposta scritta direttamente dall’intelligenza artificiale di ChatGPT).
L’informazione che mi è stata restituita è la seguente, e non si capisce perché il colosso di Mountain View abbia scelto solo sfilate comprese tra il 1998 e il 2020. Vabbè. Tra le tante, ai primi posti ecco una sfilata di Dior epoca John Galliano (Spring/Summer 1998), una di Chanel (Spring/Summer 2012), una di Moschino Resort (Spring/Summer 2019) e una di Pyer Moss (…chi?) (Spring/Summer 2020). Insomma, una classifica un po’ arbitraria. Vatti a fidare di Google: manca un sacco di roba, compresa la sfilata un po’ bizzarra – forse non va annoverata tra le più belle, ma certamente tra le più complesse - che si tenne a Parigi nel 1998 per i quarant’ anni di attività di Yves Saint Laurent, prima della finale dei Mondiali di calcio. Uno show per tutto lo stadio e davanti a circa un miliardo di telespettatori: ci lavorarono trecento modelle, duecentoventi tecnici, ottanta tra parrucchieri e truccatori. Un totale di quasi mille persone, per uno spettacolo di poco più di dieci minuti.
Lascio perdere Google. Per capire meglio l’evoluzione della meccanica delle sfilate e la loro complessità, ho fatto una chiacchierata con l’architetto Ippolito Pestellini Laparelli, già associato e partner dello studio OMA di Rem Koolhaas a Rotterdam tra il 2006 e il 2020 e oggi propulsore del nuovo studio 2050+, fondato nel 2021 a Milano. Per lo studio OMA, e nello specifico per AMO (la branca più sperimentale di OMA, testuale: “A research and design studio, applies architectural thinking to domains beyond”), Ippolito ha progettato e realizzato le sfilate di Prada di quegli anni. Suo era il compito di mettere a terra le idee della Signora Miuccia, come ossequiosamente viene chiamata Prada nel mondo della moda. Lui, con il suo team, si occupava di sviluppare il processo creativo, dal momento in cui veniva posata sul tavolo la prima immagine: “Non si trattava mai di un concept di natura estetica, perché la moda è molto meno superficiale di quello che si pensa: è vero che ha l’obbligo di essere molto veloce, ma deve essere in grado di contagiare più mondi, ed è per questo che, oggi, figure come quella di Miuccia Prada sono più complesse rispetto alla tradizionale immagine del fashion designer”.
Che Ippolito sia arrivato a occuparsi di moda è, come spesso succede, figlio del caso. “Mi è capitato: ho iniziato in OMA nel 2006, mi ero appena laureato e lavoravo tra la curatela, la ricerca e l’installazione. Venendo io da Milano, nello studio pensarono forse che la moda mi fosse familiare; invece è un’industria che ha l’obbligo di essere agile e che deve collegare riferimenti e contesti diversissimi. In ogni progetto, abbiamo sempre tenuto conto del contesto sociale e geopolitico. Ricordo molto bene ciò che era successo durante la crisi del 2008-2009: nei meeting sulle sfilate non partivamo mai da un’idea spaziale, ma affrontavamo un immaginario, che spesso arrivava dal cinema, dagli eventi del momento, da riflessioni sull’economia, sull’ambiente… Su questa base si costruiva il tipo di persona che abitava quest’immaginario, esattamente come nel teatro: al contesto corrispondeva il personaggio. Spesso questo personaggio non era identificato come un uomo o una donna, e questa era la cosa interessante e innovativa delle sfilate di Prada di allora, perché al tempo la moda era ancora strettamente codificata sulla separazione tra generi. Dieci anni fa, lo show era un processo essenziale, perché non era legato alla necessità della trasmissione sui canali social: la moda si vedeva lì, in quell’esatto momento. Ci divertiva, per esempio, mettere in crisi la meccanica degli show; distorcere la passerella dritta, decostruirla ma anche decostruire il sistema di esclusività per cui le persone più importanti andavano sempre in prima fila. In un’occasione organizzammo un “field”, un campo perfetto di cubi dove tutti avevano la stessa posizione, indipendentemente dal loro potere”. Era la collezione uomo primavera-estate 2012: la grande sala della Fondazione Prada, all’epoca ancora in via Fogazzaro a Milano, era stata allestita con un grande tappeto erboso sintetico (sì, era dodici anni fa), su cui erano stati collocati centinaia di cubi azzurri come sedute. Era impossibile capire quale fosse il ruolo di chi. Quindi, si è passati alle scenografie immersive, a social ed espansione tecnologica. “Certo, è a quel punto si è fatto un salto di scala molto importante, cominciando a organizzare delle vere e proprie macchine produttive, delle grandi operazioni di spettacolo: le scenografie sono diventate molto importanti e immersive. Andare alla sfilata è diventato come entrare in un film o in un set teatrale che doveva coinvolgere non soltanto le ottocento, mille persone che la vivevano dal vivo: doveva esistere soprattutto per tutta la serie di formati digitali che l’avrebbero proiettata in giro per il mondo, sui canali social o sul web”.
Sono momenti particolarmente complessi, lo dico per esperienza. “Già. Si produce un evento che sta a metà tra uno spettacolo musicale e una rappresentazione teatrale; la macchina produttiva è gigantesca: devi mettere insieme luci, scene, musica, animazioni digitali, oltre a tutti gli artigiani che lavorano sui dettegli. Un processo organizzativo quasi militare. Nel giro di pochissimo tempo, si deve riuscire a realizzare produzioni che sarebbero inimmaginabili in qualsiasi altro campo, e questo perché nella moda si è abituati a lavorare tutto l’anno a ritmi velocissimi. Ho imparato molto da questo lavoro, perché l’architettura, al contrario, è una disciplina molto lenta”. Sono cambiate, in realtà, anche le sfilate stesse, diventando a loro volta delle performance. “Vero. Nei primi anni riuscivo a realizzare show molto radicali, molto leggeri, fatti di pochi layer e pochi materiali: molta musica, più la performance. Poi è arrivata questa fase molto scenografica, con un’infinità di fornitori coinvolti per i materiali, i props che animavano lo spazio. Forse solo adesso, per rispondere ai criteri di sostenibilità a cui la moda è molto attenta, il processo si sta un po’ ribilanciando”. Sì, quasi tutti i brand hanno stretto accordi con consorzi e aziende di recupero e riciclo dei materiali di sfilate. Però non mi è chiaro se la moda ti interessi. “Non l’ho mai amata in sé. Mi interessa come fenomeno, mi interessa il progetto: ho sempre cercato di spostare un pochino le regole, che al mio arrivo sembravano codificate, scritte nella pietra. Mi affascina il modo in cui viene prodotto lo show e come le persone lo vivono e lo sperimentano; una fase del processo che conosco anche perché ci siamo sempre occupati di tutte le produzioni video e digitali, cioè di come la sfilata viene comunicata. Ho sempre cercato di ridurre la presenza del prodotto e di lavorare di più sull’immaginario, sul messaggio, che è poi quanto rimane dello spettacolo. Oggi forse questo è scontato, ma è molto importante avere un’agenda “politica” ben definita”. Di recente ho realizzato alcuni progetti per Sunnei, un brand giovane che intercetta una comunità con un’attitudine molto precisa: all’inizio abbiamo condiviso l’idea che fosse più interessante uno show fatto di poco: abbiamo usato un tunnel bianco con una luce stroboscopica da “fine rave”. Vedere la collezione mentre eri lì non era la cosa più importante, non c’erano sedute, non c’era niente: solo uno spazio vuoto fatto davvero di nulla. Era tutto costruito con materiale affittato, quindi non abbiamo lasciato nessuna “impronta” del nostro passaggio perché tutto quello che abbiamo utilizzato è tornato al fornitore per essere poi riutilizzato: ha funzionato molto bene, è stato riconosciuto e discusso proprio perché così essenziale.
Poi abbiamo fatto ancora di più: siamo usciti fuori, per strada, facendo correre i modelli lungo una parete di graffiti. La combinazione di materiali che c’è stata dopo, tra gli slow-motion, i video delle persone e il film che abbiamo prodotto ha circolato molto sui canali digitali, proprio perché era una cosa molto performativa. Questo è un punto diventato fondamentale per tutti i nostri progetti, come le scenografie impatto zero: cerco sempre di evitare di produrre cose per poi buttarle mezz’ora dopo. La cosa più interessante, oggi, è quello che sta succedendo ai materiali: la ricerca, la tecnologia, ci daranno grandi possibilità di utilizzo di nuove materie tra l’architettura, la moda e il design. La crisi delle risorse per forza di cose spinge verso una riflessione in questo senso. Riciclare costa anche molta fatica e molta energia: bisogna reinventare il modo in cui si fanno i materiali e ripensare la supply chain in generale”.
Resta da capire se questa evoluzione abbia reso la moda più democratica. Non ne sono sicuro. “Concordo. Credo sia stato democratizzato il desiderio, che è una cosa molto diversa, questo per via della cultura digitale in cui siamo immersi. Ciò che non si è democratizzato è il sistema; che, anzi, forse si è ulteriormente verticalizzato, non tanto per il modo in cui comunica, perché sempre più eventi sono aperti al pubblico, ma per la scala dei costi. Molti prodotti sono diventati davvero inaccessibili. Quando dico che si è democratizzato il desiderio, intendo che molte più persone ambiscono ad avere e possedere quello che vedono, perché lo possono commentare, desiderare e condividere. Desiderare qualcosa non significa necessariamente averla. Soddisfare il desiderio significa poter usare quella cosa, non necessariamente possederla: forse ti serve solo usarla un paio di volte, non di più. Assistiamo a un capovolgimento del sistema produttivo: da una ”Product based culture” a una “Service based culture”, per cui i brand cominceranno ad abbracciare l’idea della sharing property, la proprietà condivisa: ci saranno collezioni prodotte esattamente per questo scopo. Siamo diventati una società molto più nomade, in termini di possesso, nonostante il Covid. E’ l’altra faccia dell’evoluzione del mondo attorno alla finanza, la “finanziarializzazione” della società: tutto è capitale volatile e quindi tutto può essere decostruito e ricostruito molo facilmente, esattamente come se il cloud - che in realtà è una cosa molto fisica - avesse disgregato le esperienze fisiche”. In questo nuovo sistema, in realtà, anche le stesse sfilate potrebbero avere meno senso. “La stessa domanda si potrebbe porre per tutti gli appuntamenti fisici, come ad esempio le fiere di settore. Non credo ci sia ancora bisogno delle sfilate, perché la moda circola su altri canali. Forse la sfilata serve ad una generazione che ha vissuto il pre-digitale, e ai giornalisti che hanno bisogno di essere lì, ma dato che la moda si è “democratizzata” completamente, almeno in termini di accesso, il luogo non è più così importante. Per chi vive a Milano, o Parigi, o New York, è più semplice pensare di poter aver accesso a una sfilata, ma per la maggior parte delle altre persone che vivono in giro per il mondo, anche solo a Napoli o a Palermo - dove il sistema della moda non c’è - il digitale è chiaramente lo strumento per eccellenza di accesso a quel mondo.
Testo raccolto da Vittoria Ropini.
Michele Lupi, giornalista e già direttore di testate come GQ, Rolling Stone, Icon, è attualmente Men’s collections visionary del gruppo Tod’s
Alle sfilate bisogna correre. La sfilata "running" autunno inverno 2022 di Sunnei. In basso: il set della sfilata uomo Prada estate 2012
Nello show di oggi
conta la fruizione
da parte di un pubblico
sempre più vasto
Il sistema moda è fintamente popolare.
Molti prodotti sono
ormai inaccessibili
manifattura