I Vanti della moda
L'estetica del cappotto rivoltato
Hotel Vetements, Bethany Williams, Tiziano Guardini. Ecco i brand che salvano dal mottanai (rammarico per lo spreco, in giapponese)
“Grande è la confusione sotto il cielo”, affermava Mao Zedong: non pensava al cielo della moda sostenibile, ma la frase è applicabile a innumerevoli circostanze. Upcycling, recycling, remade sono etichette apposte a volte in modo che sembra casuale, e che forse lo è. Questo non favorisce la comprensione dei clienti della moda e dell’abbigliamento, molti dei quali trovano ancora perfettamente normale la dicitura “ecopelle” attribuita al poliuretano.
L’upcycling ha poco a che fare con il riciclo di tessuti e fibre. Se l’idea è quella di ridurre gli sprechi infatti, l’enorme consumo di acqua necessaria alla trasformazione degli scarti può generare qualche dubbio legittimo; piuttosto, nelle varianti “post consumer” (modifica di capi esistenti) e “pre consumer” (uso di tessuto non passato dalle mani del cliente finale) parte dal “rammarico per lo spreco” (mottanai, nella cultura giapponese) che si estende a molti aspetti della vita e dell’economia domestica.
Ma chi acquista non si accontenta delle buone intenzioni e si lascia distrarre dall’estetica, pur mettendo a rischio la propria “anima consapevole”, oppure si rivolge a chi, nel vasto universo moda, pratica l’upcycling per dare forma a capi stilisticamente connotati e identitari. Una nicchia, per ora, ma in grado di innescare una modifica sostanziale nelle modalità di acquisto.
La parola magica in questo ambito è “deadstock”, rimanenze di tessuti ferme da anni (decenni, nei casi più fortunati) nei magazzini di produttori e vecchi laboratori, o stock di capi prodotti incautamente in anticipo sugli ordini e invenduti, che finora il destino consegnava, dopo qualche anno, alle bancarelle e alle stock house.
L’uso creativo dei fondi di magazzino non è scontato, per essere onesti si vedono fin troppi capi con tasche patch a contrasto; però ci sono casi che, come Bethany Williams, hanno fatto degli “abiti collage” un segno distintivo, dimostrando come assemblare tessuti e pattern non sia una tecnica che si esercita con un mixer azionato a caso, ma che richieda un pensiero creativo. Anche la buona confezione (Made in Italy, nel suo caso) naturalmente non guasta: un capo ben cucito dura di più e preservarlo non rappresenta soltanto una buona azione contro il sistema usa e getta. Fanfare London (sotto-marchio e pure sottotitolo: “not just a label”) propone un percorso simile con il denim, dove il collage diventa una via d’uscita da un processo di lavorazione fra i più inquinanti.
Con materiali pregiati si può alzare l’asticella della qualità intrinseca del prodotto, e lo sa bene Hotel Vetements (no, Guram Gvasalia non si è dato all’hotellerie) che utilizza stock di tessuti d’arredamento, tende dimenticate, tappezzerie, lini e cotoni per tovaglie o lenzuola dalla Provenza: tutti senza la minima percentuale di Lycra, fermi, per non dire rigidi, ma non importa, l’elasticizzato è un falso amico e se ne guadagna in stampe a decine di colori – non digitali - che in abbigliamento sono sparite da tempo, e damascati con tombée, cioè “cadute” da alta moda. E l’alta moda è non a caso l’altra definizione-chiave, o per meglio dire lo è il “capo unico”, perché il tessuto di rimanenza è sempre in quantità limitate, che è anche l’approccio scelto a Milano da Marta Ferri. E allora meglio personalizzare al massimo gli abiti come fa Tiziano Guardini ("ECOuture”), che alla ricerca sui materiali unisce infinite lavorazioni (cut off, ricami, plissé, patch e intarsi) di tradizione artigianale, o Gilberto Calzolari, che oltre a dedicare attenzione ai processi produttivi dei tessuti di più largo uso, scova stock “dimenticati” presso le aziende tessili italiane. Anche i ricami sono realizzati con materiali di scarto, con l’idea di fare e creare con quello che si ha a disposizione, attraverso una progettualità simile all’economia domestica di un tempo (il cappotto rivoltato torna ad acquisire senso: si spera che trovi sempre più estimatori). Anche Dennj Malaguti (_DENNJ_) non mette in produzione nuovi materiali, ma lavora con tessuti di recupero o regalati da clienti e amici. I suoi capi multifunzionali, trasformabili o double (per aumentarne la versatilità) sono assemblati per composizione, in modo da facilitarne il futuro smaltimento, che pure si spera il più lontano possibile, perché l’upcycling, in fondo, quando ha una forte identità estetica, è un processo che rende i vestiti un bene duraturo, a vantaggio di tutti.
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