In Prada c'è sempre un mattatore che si chiama Patrizio Bertelli
Una giornata a Valvigna a parlare di verticalizzazione, nuovi investimenti produttivi per sessanta milioni, stabilimenti, social welfare. Molta bellezza e molti dettagli rivelatori
In una saletta, ti viene mostrata la programmazione dei prototipi vestimentari e calzaturieri in 3D, che permette di risparmiare tessuto, oltre che tempo, e che dunque sì, potrebbe essere considerata una fase sostenibile del processo, anzi che lo è certamente: per eseguirla, sono necessari programmatori laureati. L’ufficio risorse umane di Prada li seleziona di preferenza fra gli esperti di gaming. Due piani sopra un ventenne, forse di seconda generazione in Italia, cuce con abilità e molta delicatezza le rifiniture di un prototipo di quelle borse che le signore si contenderanno a breve: è stato assunto da un’azienda concorrente – ma sì, perché nasconderlo, Gucci - dopo un lungo corteggiamento, sa di moda almeno quanto sappia di rifiniture. L’artigiano chino sul deschetto, mani d’oro, cultura zero, fa parte ormai di un immaginario nazionale stantio almeno quanto la campagna “open to meraviglia” voluta dalla ministra Santanché per rappresentare quell’Italia dei luoghi comuni che le aziende della moda italiana smentiscono con la loro semplice esistenza. La distanza siderale fra l’Italia della campagna del ministero del Turismo e quella che detta le regole dello stile al mondo e che i turisti vengono a cercare, si vede anche nella sede industriale Prada di Valvigna, immersa nella luce, organizzata attorno a un ordine e a una pulizia da sala operatoria, verde autoctono della Valdarno ma molto curato fuori dallo stabilimento che chi percorre la A1 verso Roma trova più o meno all’altezza del casello di Arezzo, con le siepi piantate perfino in sala mensa perché si creino le condizioni minime necessarie per fare colazione in pace, chiacchierando. Montevarchi con la Madonna del Parto di Piero è a pochi chilometri. “Abbiamo ventuno fabbriche in Italia, e abbiamo sempre investito per creare un ambiente dove le persone potessero sentirsi a loro agio”, racconta a un gruppetto di invitati Patrizio Bertelli, il patron, che dalla riorganizzazione dell’azienda che ha portato alla carica di ceo Andrea Guerra, uscito un po’ ammaccato dall’esperienza nella divisione hotellerie di Lvmh, qualche mese fa, si qualifica come il direttore esecutivo della Prada SpA. E’ più in forma oggi di quanto fosse vent’anni fa. E parla di verticalizzazione del processo produttivo e di welfare sociale come nei documenti e nelle lettere di Cristoforo Benigno Crespi quando concepì il villaggio di Crespi d’Adda, alla fine dell’Ottocento. “Da imprenditore ti alzi la mattina e sai che le tue decisioni strategiche impatteranno sulla vita delle persone, e se la fabbrica rappresenta il cinquanta per cento della vita di chi ci lavora, questa fabbrica deve essere un luogo bello dove vivere. Per certe funzioni aziendali, noi competiamo con gli studi di architettura, con gli specialisti dell’ingegneria gestionale. Dobbiamo essere attrattivi”.
Non chiederti che cosa il dipendente può fare per te, ma tu per attirarlo e farlo restare. Se Bertelli, imprenditore di severità e aspettative leggendarie nei riguardi dei suoi dipendenti, arriva a parafrasare John Fitzgerald Kennedy, questo significa che la ricerca di personale specializzato si è fatta non solo urgente e non più procrastinabile, come testimonia infatti la recente ricerca di quattrocento nuovi dipendenti di alta specializzazione manifatturiera, ma che Prada intende lasciare il segno come il driver, il “guidatore” del cambiamento (siamo in tempi di autarchia lessicale, aggiungiamo la traduzione). “A volte viene fatta confusione tra il concetto di impresa e fabbrica”, dice Bertelli. “E spesso la fabbrica è migliore dell'imprenditore che l’ha costruita. Io, in questo momento, lavoro pensando ai prossimi cinquant’anni. Dovremo, mio figlio Lorenzo in particolare naturalmente, affrontare i grandi cambiamenti che riguardano l'Africa e l'India, oltre a integrare le nuove tecnologie, la robotica, con tutto quello che è la manualità; ma la vera sfida sarà integrare i cambiamenti culturali, i giovani. Si lavora ancora per necessità, ma con valori completamente diversi. Perché in tanti anni nessuno mi ha mai chiesto come vedessi la mia impresa nei decenni successivi?“.
Non è proprio così, ma la giornata di oggi, che al Group Head of Corporate Social Responsibility Lorenzo Bertelli ricorda il succedaneo di un “incontro con gli analisti” è stata evidentemente costruita perché lo sembri. Una giornata di scoperta, principalmente del nuovo polo logistico di Levanella (44mila metri quadrati e 226 dipendenti, da cui partono tutti i capi e gli accessori prodotti per i marchi del gruppo, cioè Prada, Miu Miu, Church’s, Car Shoe, realizzati sia internamente sia presso terzisti, in proporzione 30-70 e diretti al retail diretto, wholesale ed e-commerce) e di annunci paralleli. Bertelli junior e il direttore industriale Massimo Vian parlano di oltre 60 milioni di investimenti, che vanno ad aggiungersi ai 70 milioni spesi nel 2022 nell’integrazione verticale della filiera e nei processi industriali e digitali. Una cifra importante, che verrà destinata al raddoppio dello stabilimento di maglieria a Torgiano, in provincia di Perugia, ad automatizzare la produzione di sneaker nel sito produttivo di Levane, nei pressi di Arezzo, ad incrementare la capacità produttiva della conceria Mégisserie Hervy di Limoges, specializzata nel trattamento delle pelli di agnello (meno di un anno fa, Prada ha acquisito anche 43,65 per cento della conceria Superior di Santa Croce sull’Arno, tirando fuori la famiglia fondatrice da una secca ereditario -gestionale importante) e ad espandere la produzione degli stabilimenti di borse di Scandicci e di Terranuova Bracciolini. All’inizio di marzo, il nuovo ceo Andrea Guerra, ha presentato i dati di un bilancio 2022 ottimo (ricavi per 4,2 miliardi, in aumento del 25 per cento a cambi correnti, ebit adjusted quasi raddoppiato a 845 milioni, utile netto in crescita del 58 per cento, tutti i marchi in aumento di consensi e di vendita) ma le cui origini vanno rintracciate in queste stanze, fra queste mura nella campagna aretina, fra i glicini bianchi e il rosmarino che “serve anche la cucina della mensa”. Ed è molto evidente che Bertelli tenga a ribadirlo. In questa giornata non v’è traccia di Guerra, molto voluto da Miuccia Prada a prescindere dai tanti consiglieri e amici titubanti che lo scorso autunno l’avevano tempestata di telefonate e dalle parole rassicuranti spese dallo stesso Bertelli senior al momento della nomina sulla bontà delle “nuove scelte di governance” votate “al rafforzamento delle strategie” e a un molto progressivo passaggio di consegne generazionale.
Nessuno nomina il nuovo amministratore delegato, nemmeno fra i dipendenti che, anzi, hanno occhi e parole di apprezzamento solo per il cofondatore; c’è Danilo Alberti, qualifica “design director leathergoods woman”, braccio destro di Bertelli senior nella scelta e definizione dei nuovi modelli di borse; c’è Daniele Borsi, direttore di divisione Prada borse, che parla di Bertelli con accenti lirici; c’è Pamela Bussi, specialista in gestione finanziaria, ora responsabile della competenze e managerialità ESG del gruppo, testimone dell’attenzione del gruppo per l’uguaglianza di genere; c’è Lorenzo Bertelli, il delfino, che quando parla dice solo cose assennate e anche molto brillanti, ma che sta ancora saggiando le proprie capacità e forse non dice tutto quello che il cuore e l’intelligenza gli suggeriscono. E c’è Vian, il brillante ingegnere gestionale per lunghi anni amministratore delegato prodotto e operations di Luxottica, con cui Bertelli senior si scambia il cinque sottobanco dopo la tirata iniziale sulla verticalizzazione dell’azienda. Al momento ideale, compare anche Elisa Manzoni detta Lisetta, settantacinque anni, che “se resta a casa domani muore” e che infatti è ancora in azienda con responsabilità di magazzino, ultima rappresentante del nucleo originario dell’impresa di Patrizio Bertelli pre-incontro con Miuccia Prada. Racconta delle prime cinture, del laboratorio aretino degli Anni Settanta che già lavorava del Prada (no, la storia che si sarebbero conosciuti in tribunale per via di alcuni accessori copiati non solo è apocrifa, ma è anche falsa), della fusione industriale parallela a quella esistenziale e ora eccoci qui, quasi mezzo secolo dopo, con un’azienda che dopo una fase di stanca ha ripreso a correre e oggi c’è la fila, per comprare Prada ma anche per lavorare in Prada. E’ tutto bello, tutto interessante, tutto vero. Ma si ha, netta, l’impressione di assistere a uno spettacolo in cui il mattatore è ancora e sempre Patrizio Bertelli.
Alla Scala