Costume e società
I grandi brand alzano i prezzi? E i ventenni di oggi comprano i falsi (con il marchio)
Sostenibilità come bene da comprare, non come modello di comportamento
Negli anni Ottanta, sulle spiagge della Liguria di Levante e della Versilia arrivarono i primi vu cumprà. Vendevano parei e borse false dei marchi del momento. Erano, vado a memoria, sacche di Borbonese, Kelly di piccola misura, i primi zainetti di nylon di Prada. A Santa Margherita andava per la maggiore tale Aziz, chissà se era il suo vero nome, ingegnere del Mali con famiglia a carico. Era bello, colto, determinato a fare abbastanza soldi per poter tornare nella sua patria: le nostre madri facevano la fila davanti al suo tappeto steso fuori dai bagni eleganti, i vigili chiudevano un occhio. Procurava falsi anche sur commande, a richiesta, e a nessuno importava che la metalleria delle sue Hermès perdesse colore dopo un mese e che il marchio fosse stampigliato un poco storto. Era “troppo divertente” poter pagare poco quello che nei negozi ufficiali costava abbastanza da non poterselo permettere, talvolta. Le ricche sfoggiavano entrambe, la borsa vera e quella falsa, come un gioco di società: “Riconosci quella di Aziz?”. Gli stessi brand lasciavano in buona parte correre, dopotutto non era stata Coco Chanel a sostenere che la contraffazione e la copiatura siano il vero e unico segno del successo?
All’inizio degli anni Novanta, si iniziò a sapere dove e a quali condizioni fossero fatte, le borse tanto divertenti, e anche quali giri e traffici alimentassero, fra il centro e il sud Italia. Droga, prostituzione, oltre allo sfruttamento del lavoro e al traffico umano degli stessi vu cumprà, si intende. Il decennio venne contrassegnato dalla lotta alla contraffazione, e i media riportavano immagini dei roghi di occhialeria falsa. Comprare falsi era meno figo di prima. Tutto cambiò nuovamente con la delocalizzazione e con l’esportazione del know how italiano, francese e americano in Cina, e il prodotto made in China, un tempo schifato, divenne molto ben fatto, benché a condizioni che nessuno voleva conoscere. Con l’evoluzione dell’economia di mercato cinese, anche il prodotto locale venne a sua volta delocalizzato; dove e come, beh, abbiamo il decimo anniversario della tragedia del Rana Plaza di Dacca, occorsa due giorni fa, a ricordarcelo. Millecentotrentotto morti, perlopiù donne, duemilacinquecento feriti. Fra le macerie si trovarono le etichette di alcuni dei marchi più noti del mondo, da Zara a H&M, Gucci, Versace. Ne nacquero movimenti per la tutela dei lavoratori, le prime vere inchieste, la consapevolezza che la moda era un mercato che sfruttava il lavoro e il pianeta, modificando in via permanente la morfologia dei paesi dove scaricava i suoi rifiuti tessili, per esempio il Ghana. Un sistema nel quale prodotti falsi e veri si sfioravano pericolosamente. Arrivarono codici, protocolli, anche in seno all’industria della moda, dove iniziavano ad aleggiare i temi della tutela dell’ambiente e dell’inclusione. Camera nazionale della moda si fece capofila di tavoli di lavoro a livello internazionale.
Oggi, nell’Unione europea, la discussione sui codici green e la sostenibilità sociale vanno avanti da anni, fra inesauribili lotte intestine perché gli interessi produttivi dei paesi del nord, leggasi H&M, non sono gli stessi di quelli del sud, dove la moda di lusso è prodotta e il fast fashion esecrato. Nel frattempo, da una recente ricerca dell’ufficio proprietà intellettuale della Ue, si scopre che i quindici-ventenni di oggi sono tornati allo stesso punto delle loro nonne, e cioè che comprano falsi. L’hanno fatto per il 37 per cento nell’ultimo anno. Ai grandi brand, che per rispondere alle esigenze di trasparenza e alla crisi finanziaria hanno alzato vertiginosamente i prezzi degli accessori più desiderati, in gergo “iconici”, rispondono comprando falsi, disinteressandosi di dove vengano prodotti, a quali condizioni, da chi. Su TikTok, fanno il verso ai “dupe”, ai tonti, che comprano accessori certificati. “Alla fine, è solo una borsa”, dice uno degli intervistati, senza nemmeno capire che se non gli importasse alcunché del marchio, dei suoi valori intangibili, che se “fosse solo una borsa”, andrebbe a comprarsene una ben fatta, e ovviamente anonima, dall’artigiano sotto casa. Invece non lo fa. Perché vuole il marchio. Come la nonna che comprava il falso in spiaggia da Aziz, ma con la differenza che lui sa. O che potrebbe sapere. Informarsi è facile, come dimostra anche “Junk”, un nuovo documentario prodotto da Sky e presentato in anteprima dal Foglio della Moda tre settimane fa. Ma sapere vorrebbe dire anche riconoscersi come parte del problema, vittime dello stesso sistema consumistico costruito duecento anni fa, ed essere consapevoli che i cortei e i Fridays for Future non possono concludersi con la scampagnata in centro e con l’acquisto dell’ennesimo top a sei euro che, fatti due conti, a chi l’ha fatto sarà stato pagato pochi centesimi. “Scusi, ci consiglia quali marchi sostenibili comprare?” mi ha chiesto una settimana fa una scolaresca di diciottenni, nel corso di un incontro al Museo del risparmio di Torino. Sostenibilità come bene da comprare, non come modello di comportamento che possa prevedere anche il mancato acquisto, il desiderio non esaudito.
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