L'analisi
Il boom della fusione verticale, salvezza e crescita
La riapertura della Cina ridà sprint alla moda e al lusso europeo. I grandi brand puntano all'acquisto di hotel, cantine, ristoranti e arredamento. L’importanza di presidiare tutta la catena della produzione con imprese di eccellenza
La riapertura della Cina ha ridato sprint al settore della moda e del lusso europeo. I turisti cinesi stanno tornando grazie al fatto che tutte le restrizioni nei loro confronti sono state gradualmente eliminate nei paesi dell’Unione e dell’area di libero scambio Schengen, vale a dire Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera. È solo una questione di tempo prima che tornino ad affollare i negozi del vecchio continente per comprare abiti, gioielli, borse e profumi. Non è un caso che da quando il governo di Pechino ha abbandonato la politica zero Covid, le valutazioni azionarie di case come Lvmh, Moet ed Hennessy siano tutte lievitate (con il record segnato della capitalizzazione del gruppo di Bernard Arnault, superiore ai 400 miliardi di euro) spinte da aspettative di mercato di incremento di ricavi e utili.
Ma se le vendite andranno sempre più a gonfie vele, com’è messa la produzione? Il processo di globalizzazione di cui il settore è stato grande protagonista è davvero in crisi? Quello che sta succedendo è che proprio la riapertura della Cina ha contribuito ad allentare i “colli di bottiglia” e a ripristinare le catene di approvvigionamento precedentemente interrotte più rapidamente di quanto la maggior parte degli economisti avesse previsto. Inoltre, gli Stati Uniti stanno facendo un passo indietro rispetto alla necessità di un “disaccoppiamento” con la Cina (“decoupling”) e l’Europa ha mostrato la volontà di trovare una sua strada nei rapporti con il paese asiatico che riduca al minimo il rischio di eccessiva dipendenza dalle forniture e allo stesso tempo non pregiudichi i legami commerciali. Insomma, ci sono elementi che rendono improbabili a breve cambiamenti radicali nella catena globale del valore della moda.
La rivoluzione è infatti da un’altra parte, come spiega l’investment banker Orlando Barucci, socio fondatore e partner dello studio Vitale. “Siamo di fronte a una strategia di ampliamento del perimetro del business di tale portata da trasformarsi nella vera polizza assicurativa contro i rischi dei mutamenti geopolitici”, dice. “Sono sempre di più i grandi brand che acquistano cantine di vini pregiati, hotel di pregio, ristoranti stellati, arredamento di design, per rispondere a una domanda di lusso che si estende dall’abbigliamento ai vari settori del vivere. È una strategia che punta a fidelizzare al massimo il cliente. In Italia, per esempio, quello che si vende è uno stile di vita che richiama l’eleganza, l’artigianalità e l’alta qualità a tutti i livelli”.
Una tendenza che non è esattamente una novità ma, come fa notare Barucci, che si sta rafforzando fino a rappresentare l’essenza del nuovo sistema del lusso in cui la moda, intesa come abbigliamento e accessori, rappresenta solo un aspetto. Chi ha la forza di reinventarsi lungo strategie così trasversali è però il grande gruppo, che possiede le risorse per costruire un’offerta tanto variegata quanto omogenea per qualità. Cosa succede ai piccoli e medi produttori? Che spazio ha oggi un imprenditore per farsi strada in questo settore? “In Italia, come nel resto d’Europa, non c’è più spazio per produzioni intensive. Un brand internazionale di scarpe che, per esempio, produce ogni anno cinquanta milioni di paia, ha bisogno per forza di cose di una catena del valore su scala globale. La piccola e media impresa ha allora la chance di specializzarsi in nicchie di eccellenza che hanno sempre mercato”.
E il reshoring, allora? Secondo Ercole Botto Paola, presidente di Confindustria Moda, la necessità di ridurre la lunghezza delle supply chain, per abbattere i costi di trasporto e ridurre il time to market dei prodotti, è una necessità reale. “Questa trasformazione rende la nostra filiera più attrattiva per investimenti, essendo l’unica integrata a monte e a valle che può garantire un certo livello di competitività”. Nel concreto? “Solo nel 2022, sono state decine le operazioni di fusioni e acquisizioni che hanno coinvolto la galassia dei terzisti, segno dell’importanza crescente per i grandi gruppi di presidiare tutta la catena della produzione con imprese di eccellenza”, prosegue Botto Paola. “Ma, da soli, siamo prevalentemente piccole e medie imprese che non possono fare gli investimenti necessari per competere sul mercato globale. Puntiamo sui distretti quindi, sull’unità”.
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