il foglio della moda
Il polo del lusso deve essere autocratico? Idea superata. E poi in Italia non funziona
Le alleanze trasversali. Chiacchierata a tre con Renzo Rosso e Aldo Melpignano, in partnership per sviluppare un business dell’ospitalità che è moda, stile, difesa del territorio e molto altro
“L’industrializzazione della creatività” era un concetto strategico che nel lusso mancava, sicuramente se espresso in questi termini diretti e non nella consueta selezione di luoghi comuni che includono la “valorizzazione del brand” e “la salvaguardia del valore di filiera” e che poi esattamente questo sono, l’industrializzazione della creatività, cioè rendere riproducibile un’idea di alto valore culturale, artistico o, nel caso che stiamo per raccontare, gestionale. Renzo Rosso e Aldo Melpignano hanno da poco stretto un accordo che potrebbe rappresentare un’interessante applicazione di questo concetto, che peraltro è proprio il patron della holding Otb a formularmi, in una delle piovosissime mattine di maggio che hanno reso questo periodo di presentazioni e sfilate cruise un momento molto sfidante per gli uffici comunicazione e marketing dei grandi gruppi. Siamo al telefono e parliamo dell’accordo che il suo veicolo di investimenti nell’hotellerie, nel vino e “nelle cose che ti fanno stare bene” ha stretto da poco con la Egnazia Ospitalità Italiana di Melpignano per la gestione e la valorizzazione dei suoi due hotel, il Pelican di Miami e lo storico, celeberrimo Ancora di Cortina, in via di ristrutturazione. Avrei voluto che questa conversazione a tre si svolgesse in contemporanea ma, dati gli impegni dei due partner avremmo fissato, forse, il prossimo settembre, mentre la questione della nuova geopolitica della moda e delle partnership intergenerazionali era stato scelto come il tema di questo numero, per cui abbiamo risolto con l’intervista a puntate.
La prima è con Rosso, il self made man vicentino partito dai jeans stone washed negli Anni Ottanta che ha creato un polo da 1,74 miliardi di fatturato inclusivo di marchi come Maison Margiela, Viktor&Rolf, Marni, Jil Sander e lo stesso Diesel che oggi, sotto la guida creativa di Glenn Martens, è tornato ad essere uno dei nomi più cool, soprattutto fra i giovanissimi. Per lo scambio di informazioni si fa affiancare dalla sua storica direttrice della comunicazione, Antonella Viero, adorabile ragazza che vive a Shanghai e mi tiene a bada quando chiedo quale advisor abbia scelto per la quotazione, prevista nel 2024 (già praticamente scelto, comunque). Nel progetto degli alberghi, come delle cantine vinicole che va ampliando e che si sono estese fino alla Sicilia con l’acquisizione del quaranta per cento delle cantine Benanti, Rosso ha usato il proprio veicolo finanziario, la Red Circle Investments, controllata al cento per cento. Sottolinea spesso, con entusiasmo, “la grande visione” di Melpignano, e concorda sull’evidenza che “ormai siano necessarie aggregazioni e associazioni imprenditoriali, perché con l’attuale livello di competizione e concorrenza per i piccoli non c’è scampo” ma anche per i grandi, associarsi per mettere in comune le proprie specifiche unicità ed eccellenza è diventato imperativo. Nessuno, è il sottotesto, è bravo in ogni attività; ma se la differenziazione degli imprenditori della moda in settori diversi è tornato ad essere l’antidoto contro i rischi d’impresa, come sottolineano anche gli analisti finanziari ascoltati da Mariarosaria Marchesano a pagina 2, per contro la nuova serie di alleanze trasversali fra industriali della moda che si vedono anche nella filiera (Gildo Zegna e Patrizio Bertelli, per esempio) sono la risposta più efficace a molti anni di mancato sostegno politico e finanziario alla moda. Se l’Italia non si è mai compattata in un monolite imprenditoriale modello Francia-di-Colbert, perché di questo vive ancora la Francia del lusso, di un sistema messo a punto all’epoca del Re Sole e nei secoli successivi finanziato da banchieri di grande lungimiranza come Antoine Bernheim, è perché l’Italia sconta (o forse si avvantaggia, si può vederla all’opposto sia Rosso sia Melpignano la ritengono in effetti un vantaggio) una frammentazione territoriale, storica, amministrativa e politica in vigore sostanzialmente dall’epoca dei Comuni, oltre a un certo spiccato individualismo che fa sì, come sottolinea il ceo di Egnazia, che talvolta si preferisca vendere al gruppo straniero piuttosto che cedere una quota al vicino di casa. Vi è stata anche fino a oggi – la legge quadro sul Made in Italy è appena stata presentata, il fondo sovrano per la tutela dell’eccellenza una mossa positiva e lungamente attesa – una politica molto disinteressata, quasi timorosa di un settore che non ha mai ritenuto strategico, il caso GFT degli Anni Novanta, finita poi nella galassia fallita di Hdp, lo racconta meglio di ogni altro. Dice Melpignano che il settore dell’ospitalità italiana, di cui è capofila e vicepresidente nella Fondazione Altagamma, ha molto da imparare dalla capacità della moda di fare comunicazione, e non ci sono dubbi che il settore, nella sua totalità, avrebbe bisogno di essere rivisto e uniformato (l’assegnazione delle stelle, per esempio, è ancora in capo alle Regioni, da cui macroscopiche differenze), ma è evidente che sia molto soddisfatto dello sviluppo che è riuscito a dare al suo progetto.
La seconda puntata della chiacchierata sulle relazioni virtuose è appunto con lui, quarantenne della famiglia di notabili e imprenditori del sud cresciuto al collegio De Merode di Roma, laureato a Harvard e provvisto di un mba alla Wharton in entepreneurship and real estate, che in un numero tutto sommato contenuto di anni ha sviluppato il business originario, il gruppo San Domenico hotels, in una piattaforma, per certi versi un format, di sviluppo e gestione dell’accoglienza di alto livello che accoglie i molto famosi e i moltissimo benestanti. Borgo Egnazia, costruito ex novo agli inizi dello scorso decennio ma con sapienza filologica sulla spianata dove negli Anni Trenta Benito Mussolini voleva impiantare una base aerea e che si trova nei pressi dei celebri scavi della città messapica citata da Orazio, è diventato il primo hotel del mondo. Il gruppo, fondato dall’inarrestabile madre di Aldo Melpignano, Marisa, attorno a quella che era la casa di vacanze, la Masseria san Domenico, ha l’obiettivo di gestire venti strutture entro il 2027, e, dice adesso suo figlio “vuole lavorare con chi propone un’esperienza che non si possa vivere altrove (nowhere else è il motto del gruppo, comunque), oppure con chi intende raggiungere questo obiettivo”. Rosso puntualizza di aver incontrato molti possibili gestori prima di affidarsi a lui e di essersi trovato sul comune amore per la cura italiana, che ovviamente è quella che intendono loro e non quella dei molti che si lamentano di certe strutture tre stelle su Booking che sembravano una meraviglia e invece, e questo capita anche con le masserie pugliesi. C’è l’esperienza delle Carrube, per dire, e quella della struttura a tre chilometri che ti mette e dormire nell’ex rimessa per i cavalli e no, non è una grande esperienza se fuori ci sono quaranta gradi e il tetto non è coibentato. Melpignano racconta di sentirsi un po’ il Luxottica dell’ospitalità, un modello di gestione operativa che per i grandi brand mette in pratica e valorizza il design altrui. A ben vedere, alla multinazionale di Agordo mancherebbe di fatto la valorizzazione dei luoghi e dei territori, ma il concetto è chiaro, e per l’Italia parecchio innovativo. Appunto, le alleanze nell’eccellenza, nell’Italia che non è mai riuscita a creare quel sogno comune che passa sotto la definizione di “polo del lusso”.
Dopo aver riflettuto un po’ sul modello di Egnazia e gli obiettivi di Rosso, nell’ultima assemblea della Fondazione Altagamma a Roma l’ho citato come un modello virtuoso di quel “fare sistema” che nel decennio scorso era uno dei cavalli di battaglia di un imprenditore dallo sguardo lungo, Luca di Montezemolo, e che oggi tutti hanno un po’ dimenticato perché, nella moda come altrove, si è tornati a fare quello che si è sempre fatto, e cioè farsi gli affari propri finché si riesce e si può. Quindi vendere, in caso non si potesse più. Ormai, fra i grandi gruppi internazionali si è scatenata la corsa all’acquisizione delle piccole realtà manifatturiere iper-specializzata. La media è ormai di una vendita alla settimana, ormai si ha il timore di aprire uno dei siti di settore la mattina.
L’ultima cessione, datata fine maggio, è la cessione della conceria Nuti Ivo di santa Croce sull’Arno, 58,7 milioni di euro di fatturato 2021, utile netto di 8,65 milioni, a Lvmh Métiers d’Art, la divisione che accoglie i tesori nazionali dell’artigianato e che era già suo cliente. La progressiva acquisizione di manifatture è quanto fece molti anni fa Giorgio Armani, 2,35 miliardi di euro di ricavi nell’esercizio 2022, in crescita del 16,5 per cento, anche lui con grande spirito imprenditoriale e visione. La differenza è che tutto il gruppo è rimasto in Italia. E che continua a smentire qualunque voce di cessione, presente, futura, ipotetica.
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