il foglio della moda
Viaggio nell'universo dei giovani stilisti. E delle mille trappole che devono schivare
Frequentare i giri giusti, ma anche consegnare la merce per tempo. Trovare un produttore che non rifiuti i tuoi ordini limitati e buyer che non ti usino come paravento per arricchirsi col parallelo.
“They didn’t see us coming”. “Non ci hanno visto arrivare”. Sia Giorgia Meloni, sia Elly Schlein, la leader del governo e quella dell’opposizione, hanno citato come riferimento nei discorsi ufficiali il titolo dello stesso libro, They didn’t see us coming, di Lisa Levenstein. Si può dire lo stesso per i designer indipendenti italiani: non ci avete visto arrivare. Ma siamo decisi a rappresentare un Paese che rifugge dagli stereotipi ed è non solo capace di fare cose belle, ma di elaborare belle idee, forti di grandi competenze tecniche e artigianali e in grado di elaborare estetiche universali.
Guardiani della filiera, contabili, artisti cool, segugi delle collaborazioni. Tutto in uno
Al telefono, Veronica Leoni parla con tono trionfale ma non tronfio da New York, e affida al “Foglio della Moda” la conferma del rumor che dietro il grande successo di The Row, linea americana di sontuosità e semplicità estreme, delle inquietanti gemelle Ashley e Mary-Kate Olsen, ci sia proprio lei, che chiama con una certa benevolenza “le ragazze” le sue pallide datrici di lavoro. Poco nota in patria ma stimatissima all’estero, Leoni devolve gran parte dei suoi guadagni d’Oltreoceano per finanziare la sua collezione, cui ha dato nome Quira (“detesto esibirmi ed esibire il mio nome, così ho usato quello con cui chiamavamo in famiglia mia nonna Quirina, che faceva la sarta”), presente in rilevanti punti vendita all’estero e in Italia. “Lavorando parecchio all’estero, avverto ancora grande rispetto per il Made in Italy”, prosegue. “Penso però che sia il caso di andare avanti e dimostrare che l’industria della moda, come quella del food, del cinema e della letteratura, sia in grado di forgiare nuovi linguaggi. Qualche giorno fa ero a Roma e ammiravo dei ragazzini con dei trench vintage: lì ho capito che le chiavi per aprire le porte di un’eleganza contemporanea, le abbiamo solo noi. Neanche i francesi. Sono sicura che sia il momento di un’onda creativa autonoma economicamente, ma soprattutto mentalmente”.
Nata a Roma e girovaga per lavoro, discute di filosofia e di fatturati, di cultura e di numeri, di visioni e di revisioni (di conti). Classe 1984, una laurea in lettere, ha un passato - da Jil Sander con Jil in persona e da Céline quando aveva l’accento, con Phoebe Philo – vive in un mondo diverso da quello chi, fino a quindici anni fa, voleva trasformarsi in “creatore” di moda: un progetto di vita perseguito con impegno che sollecitava visioni di sé circondati da mannequin disponibili e adoranti, clienti plutocrati e viziate, perlomeno da un’Anna Wintour sbaciucchiante. Tutte cose che si verbalizzavano nella frase «Non mi occupo di moda, sono la moda», attribuita erroneamente ad Anna Dello Russo, regina barese dello styling, che l’ha rubata a Diana Vreeland. Oggi, a meno di non essere accoppiati a partner facoltosi o dotati nello snidare finanziatori prodigali, diventare designer e lanciare una propria collezione si traduce in un brulicare di impegni, di fardelli, d’impicci d’ogni tipo. Si devono metter da conto perfino interventi estetici - spa rigeneranti, selfie ritoccati, chirurgia - per autotrasformarsi in marchio di sé stessi e poi vendere i propri manufatti, visto che nel corso di quest’inchiesta abbiamo saputo che esistono rigidi recinti che dividono gli “Instagram brand”, nati sui social dai prezzi modici e diretti al consumatore finale, dai “platform brand”, connessi a un vip o a un’influencer che utilizza la popolarità per lanciare la sua etichetta: vedi Skims per Kim Kardashian o la linea di Chiara Ferragni. Ce lo spiega Manuel Marelli, head of creative and buying di Macondo, store d’avanguardia veronese, e responsabile divisione retail online per 247, showroom milanese di distribuzione che annovera tra i suoi marchi anche nomi italiani giovani e di successo come Medea, Marco Rambaldi, Plan C, Andrea Adamo. “Quello che noi chiamiamo “package” – frequentare i giri giusti, avere testimonial famosi, essere noti come personaggi ma insieme costruirsi un’aura di affidabilità - è un atout importante, ma solo se si ha qualcosa da dire e non solo a livello immaginativo, ma anche organizzativo. Il mercato penalizza chi non rispetta i tempi di consegna o vende a prezzi troppo alti. Penso ad aziende, purtroppo non italiane, come l’americano Aimé Leon Dore, lo spagnolo Paloma Wool, lo svedese Totême che prosperano quietamente grazie a un’audience giovane che non può affrontare i costi dell’high luxury, ma desidera freschezza e novità dopo il passaggio dell’uragano streetwear, quando si è ritrovata l’armadio pieno di felpe logate e sneakers che ora pare quasi infantile indossare”.
Ad accomunare gli autori giovani (anche se spesso, anagraficamente, giovani non sono più) c’è un immalinconito disincanto, una rassegnata diplomazia. Insinuiamo che mantengano un atteggiamento democristiano. “Non lo dica neanche per scherzo. Però sono un grande nostalgico della Prima Repubblica”, sorride Luca Larenza, che firma maglieria maschile raffinatissima venduta anche sulla sezione deluxe di Zalando, che si chiama Zalando Designer. A Pitti, dove c’è molta attesa anche per la linea del regista californiano Eli Russell Linnetz, prototipo del creativo eclettico, Larenza presenterà una capsule collection usando i filati sostenibili del cinese Consinee. «Questa è una delle tante collaborazioni che faccio per mandare avanti il mio brand. Da un lato queste operazioni sono una grande opportunità per gli indipendenti, perché i nostri margini, pur operando nel mondo del lusso, non sono elevati e quindi possiamo godere di una buona esposizione mediatica; dall’altro la divisione di valori che dovrebbe esistere tra il piccolo atelier di design e il colosso commerciale globale, ogni tanto rischia sembra di essere inconciliabile», prosegue Larenza. «Presento la mia griffe in Italia, ma la campagna vendita si svolge a Parigi, dove la presenza dei buyer è più variegata. Per il resto, penso che per i nomi nuovi la parola d’ordine sia “flessibilità”. È grazie a un accorto palinsesto della produzione che si possono superare i momenti difficili, come mi è successo durante il Covid: sta a noi cercare delle soluzioni per non farsi troppo male e sbagliare l’approvvigionamento dei materiali”.
I premi? Servono eccome. Il caso di Satoshi Kuwata giapponese e italiano
Per Larenza come per Marco Rambaldi, la maggiore difficoltà risiede nel processo produttivo e soprattutto nella famigerata “quantità dei minimi”: «Nessun indipendente ha la forza di produrre un alto numero di capi o di tessuti, e questo determina spesso l’annullamento di ordini che richiedono troppo tempo per essere realizzati. Le aziende preferiscono privilegiare gli ordini dei grandi gruppi”. Per Rambaldi, che ha fondato nel 2017 il suo “folle progetto” con Giulia Geromel e Filippo Giuliani, la situazione si complica ulteriormente: “Gran parte della mia collezione si fonda su tessuti deadstock, cioè rimanenze, pezze inutilizzate che compriamo a mano a mano che le troviamo e c’è una grande presenza di capi all’uncinetto, tutti interamente fatti a mano. Quindi non possiamo contare su una priorità nella realizzazione. Ci si deve organizzare, preparando per tempo tutta la parte artigianale e stabilendo una continuità con le aziende che ci seguono con fedeltà. Viviamo quindi sempre nel timore che le conseguenze del caso - ritardi, aumenti dei prezzi, rischio che le materie prime - non bastino, ideando delle “famiglie” di creazioni che possono essere realizzate con stoffe deadstock”. Ma tutto questo non limita la creatività? “Anzi, la acuisce. Le difficoltà di questo tipo spesso servono a trovare altre soluzioni cui, magari, non avevamo pensato all’inizio. Ma la professionalità è anche questo, saper affrontare l’ignoto. E il mercato sta rispondendo bene: abbiamo un corner alla Rinascente così come in boutique più di nicchia, e ora soprattutto il mercato asiatico si sta aprendo molto bene: si apprezza sempre di più la qualità rispetto alla quantità, dopo essere stati inondati da capi identici del fast fashion. Ora nel vestire le nuove generazioni amano sperimentare e provare marchi “altri” rispetti a quelli del lusso codificato e istituzionale». Certo, la soluzione c’è: avere un proprio laboratorio, ma anche il capitale per sostenerlo. È il caso di SSHEENA, brand milanese fondato da Sabrina Mandelli e Luca Adami, coppia nella vita ma soprattutto nel lavoro che vede lei creativa in ascesa (ha lavorato con Virgil Abloh per il womenswear di Off-White, «Non sapevo cosa fargli vedere e Virgil mi disse, disegna quello che vuoi, basta che sia cool») e lui, mente organizzativa, economica e finanziaria: "Avere dei piccoli atelier di proprietà si è rivelato un asso vincente: ce lo siamo potuti permettere grazie alle consulenze e alle collaborazioni. È iniziato così un progetto con l’idea precisa di avere il controllo sull’intera struttura, dalla progettazione alla produzione, dallo showroom alla campagna vendite". Scartabellando i curricula di chi si va affermando, si capisce che non basta più saper fare bene un prodotto, né offrire uno storytelling rutilante: serve, eccome se serve, la fatidica “gavetta”, per render chiara un’identità forte e riconoscibile. È necessaria, oltre alla trasformazione in guardiani della filiera, contabili puntigliosi, artisti cool, amichetti della stampa giusta, creatori di eventi, sorveglianti delle tendenze, sentinelle delle consegne, segugi delle collaborazioni. Tutto, ovunque e contemporaneamente. Altro che i sette Oscar dati a Everything Everywhere All At Once: sono gli stilisti indipendenti a meritarne uno, perché nel multiverso, loro ci vivono da anni.
I laboratori di produzione impongono quantitativi difficili da vendere per le nuove leve
Certo, ne risente “la parte creativa, o diciamo pure artistica che ormai ricopre solo il dieci per cento del mio tempo lavorativo”, dichiara accorato Luca Lin, che dapprima con il socio e sodale Galib Gassanoff e poi in solitaria verso il successo, dal 2016 ha creato Act N°1, marchio improntato a un sofisticatissimo multiculturalismo: indimenticabile il look metà completo da manager, metà crinolina romantica di chilometri di ruches in tulle indossato dall’ attore non binario Billy Porter, ma anche le mise di Lady Gaga, Dua Lipa, Blanco, Elodie. “È complicato restare indipendenti e ammetto che in passato abbiamo ci sono state anche proposte di acquisizione. Però, non so se fortunatamente o meno, non è mai scattata una scintilla di consonanza”. Se arrivasse quello giusto? «Non so, però ci penserei molto bene. I problemi, nel mio caso, non sono derivati da uno scarso riscontro della stampa o dai buyer che anzi, ci hanno accolto con entusiasmo, magari non agli inizi, quanto dalla catena produttiva. I laboratori di confezione, così come i produttori di tessuti, impongono quantitativi che non tutti i brand giovani sono sicuri di poter vendere e dunque dicono subito “no” oppure mettono le nostre produzioni limitate alla fine della valanga di abiti dei marchi prodotti dai grandi poli del lusso. Questo però determina ritardi che spesso causano malumori ai titolari di boutique che credono in noi - Act N°1 è venduto in circa ottanta paesi - e dunque mettono in discussione la vera, grande carta da giocare per le nuove griffe: la buona reputazione”. Ha ragione: l’appeal dei giovani marchi, risiede anche nella loro autenticità che non si piega di fronte a quelle tendenze di mercato che i nomi di alta moda commerciale devono invece seguire pedissequamente.
Che sia questo timore a causare, da parte dei designer giovani, lo stoico non lamentarsi di niente e di nessuno, ad alludere senza dire, a parlare senza accusare? Vivono in una reticenza esistenziale che fa sembrare loro “normale e comprensibile” anche l’essere talvolta usati come foglia di fico dai proprietari di prestigiose boutique multimarca che spacconeggiano di investire in griffe poco note, quando in realtà ne comprano pochi pezzi: tanto prosperano col mercato parallelo, il segreto di Pulcinella che tiene in piedi le cattedrali del lusso soprattutto nelle città di provincia. Che cos’è? La rivendita di gran parte della merce a retailer stranieri, il tabù per eccellenza del fashion, un argomento spinoso su cui è imposto il mutismo corale. “Non me lo faccia dire così”, prega Leila Palermo, fondatrice di Next Agency, che da oltre vent’anni promuove e progetta piani di comunicazione per i talenti scovati in varie fiere del mondo. “Potrebbe più elegantemente scrivere che, di fronte a budget imponenti destinati ad acquisire le collezioni di celeberrimi marchi, quelli per i brand indipendenti sono generalmente molto più ridotti e perciò i retailer si limitano a comprare solo qualche pezzo”, afferma con giravolte lessicali da far invidia a Henry Kissinger. Così come quando definisce “arruffato” il calendario delle sfilate milanesi, dove spesso i nomi meno tonitruanti sono piazzati a orari e giorni improbabili: mattina presto o sera tardissimo, di solito concentrati nell’ultimo giorno, quando la stampa internazionale s’è involata. “Paradossalmente, il lockdown è stato un punto di svolta per i marchi giovani: penso ai casi di Andrea Adamo, Salvo Rizza, Christian Boaro che hanno fondato la loro linea nel 2020, mostrando i loro prodotti con presentazioni digitali”, continua, “anche se farcela da soli è difficilissimo. Le etichette giovani non possono affidarsi ad aiuti governativi o statali come il British Council nel Regno Unito o il CFDA negli Stati Uniti, che foraggiano i talenti. E anche la stampa di settore, comprensibilmente costretta dagli inserzionisti pubblicitari a dedicare loro molto spazio, spesso li trascura”.
È sorprendente come sia passata quasi sotto silenzio la notizia che tre italiani – Leoni, Luchino Magliano e il giapponese Satoshi Kuwata, che vive e produce a Milano per il suo marchio Setchu - siano arrivati tra i nove finalisti del LVMH Prize for Young Fashion Designer, premio sponsorizzato dal più potente e prepotente colosso del lusso, che è un biglietto d’ingresso per entrare nell’empireo dello stile d’autore. “È un peccato”, conclude Palermo, “perché è grazie ai riconoscimenti si accende l’attenzione degli addetti ai lavori, compresi i buyer internazionali che fino a pochi anni fa schifavano gli italiani perché li consideravano bravissimi nella confezione, ma scarsi nella creatività”.
Chiediamo a Satoshi Kuwata, quale sia la differenza con l’organizzazione della produzione di moda in paesi diversi dall’Italia: “Avete la migliore catena produttiva del mondo: l’unica vera difficoltà, per me, è la comunicazione, davvero diversa da quella che posso avere in Giappone. Mi rendo però conto che è la chiave per migliorare la relazione tra me e miei fornitori, sempre molto disponibili, onestamente”. Forte di un lungo praticantato a fianco di Riccardo Tisci in Givenchy, Kuwata conosce bene i meccanismi del lavoro di gruppo: “Credo fermamente nel team, e nella possibilità di poter contare su persone che sappiano applicarsi al loro meglio per quello che riguarda le loro competenze, dalla progettazione alla comunicazione. Ma fondamentale è lo scambio d’idee: posso dare suggerimenti al mio ufficio stampa, come un industriale può darmi indicazioni su un nuovo modello. Da quando ho vinto il premio Who’s on Next l’anno scorso e sono in finale per LVMH Prize, le richieste dei retailer sono aumentate esponenzialmente”. E come la mettiamo con i rivenditori? “Setchu è un prodotto di lusso e va capito. Vedo che si crea un fenomeno di fidelizzazione, di community intorno al brand, un network di persone che sanno apprezzare i miei capi, anche nell’online”. Essere un buon designer oggi equivale a essere un buon imprenditore? “Certamente. So che ogni pezzo che disegno, costituirà un investimento per il cliente finale, e questo mi fa sentire molto responsabile. Perciò, prima di mettermi a lavorare, faccio un business plan e individuo nuovi mercati, nuovi negozi per focalizzarmi meglio su chi crederà in un mio capo fino a spenderci dei soldi”. Fondamentale, è la cura del rapporto qualità e prezzo. Riccardo Grassi, presidente e fondatore di RG Showroom, oltre che buyer e talent scout da quasi quarant’anni, non la posa piano, come direbbero a Roma: “Oggi la gente vuole vestirsi bene, elegante, ma non ha più alcuna voglia di spendere fortune come faceva una volta. Non vado per sfilate, ma scovo nomi nuovi - come mi è successo con Martin Margiela, Neil Barrett, Giambattista Valli - andando in giro per le strade.
Riccardo Grassi: “Il lusso globalizzato non è più al centro dei desideri”
E’ un buon momento per i piccoli: non si desidera più per forza il lusso globalizzato. È l’epoca del realismo. Sa qual è la percentuale rappresentata dall’abbigliamento sul fatturato delle maison di fama planetaria? Solo il cinque per cento, tranne forse per Christian Dior e Saint Laurent. Ma i grandi gruppi francesi stanno comprando a peso d’oro in Italia manifatture medie e piccole di eccellenza a cui fanno produrre enormi quantità di merce che rimane regolarmente invenduta, finisce al macero e impedisce così ai nomi nuovi di crescere osservando gli impegni di consegna. Abbiamo la fortuna di avere a che fare con quelle aziende serie per cui riusciamo a trovare la quadra tra etichette che promuoviamo e realtà produttive di alta qualità che riescono a mantenere un buon equilibrio tra costi e creatività”. Qualche nome? “Botter è un nome stimolante, o Mordecai. Ma sono i negozianti, o meglio i retailer, ad aver bisogno di coraggio e comprendere che c’è una clientela che chiede cose diverse”.
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