In passerella
Morbidi, fluidi, un po' “sinistri”. L'alfabeto maschile fra Pitti Uomo e Milano
Il tradizionale almanacco delle sfilate, in questo caso uomo, stilato dal Foglio. Fra polemiche un po' sterili, abbigliamento da lavoro a tre zeri, e qualche tendenza vera da segnare. Prima fra tutte, la concretezza
Valentino
Valentino
Prada
Prada
Msgm
Loverboy
Jw Anderson
Gucci
Giorgio Armani
Giorgio Armani
Fendi
Etro
Brunello Cucinelli
Se gli uomini della nostra quotidianità, gli uomini che incontriamo ogni giorno, assomigliassero anche solo un poco a quelli che abbiamo visto in passerella a Pitti Uomo e a Milano, con le giacche lunghe e i pantaloni morbidi e l’aria risolta, vivremmo certamente in una società diversa, che non significa affatto meno “maschia” nel senso patriarcale del termine (già ci pare di sentire i commenti di quelli che “la moda uomo la portano solo i modaioli”, intendendo naturalmente gli omosessuali), ma più consapevole del valore intimo, meno muscolare, meno egoista, meno spaccone, meno “gliela faccio vedere io” dell’essere uomo: un modo più rispettoso degli altri e anche di se stessi e delle proprie fragilità, che non basta certamente fasciare in pantaloni e giacche attillate per annullare.
Con le poche eccezioni di quegli influencer di provincia che ancora ci tocca vedere mente si aggirano per Pitti Uomo con la giacca rosa corta e attillata che spara sul petto palestrato, i due bottoni in posizione di sparo, la caviglia a vista e la natica tonda e fasciata come in una di quelle calzamaglie dei dipinti di Luca Signorelli, gli uomini di questa tornata di sfilate per la primavera-estate 2024 vestono “l’informale nel formale”, come da tesi di Giorgio Armani che riesce sempre a capire dove tiri il vento perché – sembrerà banale, non lo è – esce e gira e va alle partite dell’Olimpia basket, insieme a quei pochi altri che, come lui, vivono nel mondo reale e non chiusi negli uffici a rivedere i disegni e le proposte per rispondere ai diktat dei merchandiser e alle ubbie del loro entourage.
Gli stilisti che ascoltano la gente sono quelli di cui intuisci immediatamente il messaggio anche se non condividi la loro storia; è il caso di Charles Jeffrey Loverboy che recupera tutti gli stilemi della moda inglese e del punk badando bene anche a inserirvi quel “minimo di merchandising” che gli permette di “restare indipendente” e di Jonathan W Anderson che racconta sempre dettagli e particolari dell’Irlanda martoriata dalle bombe della sua infanzia ma anche dei centrini e dei servizi da tè della nonna che a rigor di logica non dovrebbero risultare così lampanti a chi è nato in un paese dove si bevé caffè ristretto, eppure lo diventano perché lui, che è un talento vero, sa dove andare, sa come farlo e anche come dirlo e dunque è logico che tutti i giovani ora vogliano indossare il suo modello di crocs con gli occhi da ranocchia o le sue maglie lavorate a mano e bucate ad arte, perché in fondo “la vita è un gomitolo”.
Gli stilisti che capiscono il mondo sono anche quelli che sanno fino a dove possa spingersi la smania di qualificazione culturale che ha colpito negli ultimi anni il settore e dove troppi si muovono per aforismi e affermazioni apodittiche mandate a memoria, timorosi della domanda che potrebbe svelarne l’incertezza, la preparazione abborracciata, gli studi veri mai compiuti. Quelli che sanno dove stia la linea di demarcazione fra realtà e fantasia autoreferenziale sono anche quelli a cui risulta più facile trasferire i propri messaggi di inclusione e fluidità al pubblico vasto, quello che non si lambicca sull’effetto goccia-che-cade- di Simmel e che alla moda chiede sostanzialmente tre cose, diciamo quattro se responsabile: che sia bella cioè che rispetti lo spirito del momento, che gli stia bene e lo valorizzi senza offenderne i credo personali, che abbia un buon rapporto qualità-prezzo e che non massacri il pianeta e il resto dell’umanità lungo il processo. Fine. Negli anni, questo cliente medio sta anche re-imparando a distinguere la qualità, elemento chiave per la moda di lusso di oggi ma non per quella degli ultimi quarant’anni, imperniata sul valore del brand. E detto questo, eccoci al tradizionale alfabeto.
B come bermuda. Li hanno fatti tutti tutti tutti; corti e scampanati da Prada, molto genere Cecil Beaton sulla spiaggia di Biarritz nel 1930 con Anita Loos, più lunghi e formali quelli di Valentino, affiancati sempre a una giacca, straordinari quelli di JW Anderson, come attorniati, avvolti in una fascia-tasca che ne modifica la struttura e ne aumenta le opportunità di uso. Poi, come sempre, tutto dipende da chi, da come, da dove li indossa. Ci sono personalità che reggerebbero l’uso del bermuda a un consiglio di amministrazione, altri che sono grotteschi in pantaloncini anche al mare. In genere, la triade bermuda-calzino-scarpa grossa, molto amata dai modaioli, funziona solo sugli alti, belli, provvisti di gambe dritte. Yes my dear, se esponete lembi di pelle come le donne, rivendichiamo il diritto di giudicarvi.
C come camicia. Bella croccante (Prada, Valentino), in volumi ampi. La moda è morbida, la camicia pure, ma sono quasi sparite le t shirt slandre, oh gioia
C come canapa. Silvia Venturini Fendi ci conferma che si inizia nuovamente a trovare canapa anche di produzione italiana. Lo facciamo notare perché poche fibre sono più salubri e per l’ambiente (la canapa arricchisce i terreni) e per chi la indossa. Forse sarebbe arrivato il momento che Confagricoltura e le altre sigle di settore abbandonassero i timori, irragionevoli, di un apparentamento con la canapa da fumo.
C come criceto (memoria del - Atto primo). Se è vero, come racconta Pierpaolo Piccioli e non abbiamo motivo di dubitarne, che gli studenti dell'Università Statale dove ha sfilato la collezione uomo di Valentino si siano posti il dubbio sull'opportunità o meno di accogliere uno show di moda fra le mura dell'ateneo e che lui abbia ritenuto opportuno incontrarli per spiegarglielo, allora anche in Italia abbiamo un problema similare a quello che sta affliggendo gli Stati Uniti e di cui parlavamo giorni fa con Rachel Feinstein (vedere Il Foglio di sabato 17 giugno), e cioè la memoria a brevissimo termine delle nuove generazioni. La cancellazione del passato per ignavia, disinteresse, ignoranza pura e semplice. Negli ultimi trent'anni alla Statale hanno sfilato N brand, molto spesso Missoni, altrettanti hanno esposto progetti e montato installazioni, dunque non si capisce la rilevanza del tema e di queste lamentele da parte di studenti ai quali, e a differenza degli Stati Uniti, l'università costa davvero poco. Anche grazie alle donazioni di brand come Valentino.
C come criceto (memoria del – Atto secondo). Credevamo che lo sgomento che ci ha colti entrando nella Fortezza da Basso, a Firenze, dove per la nuova edizione di Pitti Uomo era stata montata una Statua della libertà affiorante dalla ghiaia, braccio alzato e torcia di sguincio, fosse comune a tutti i visitatori e ci domandavamo come fosse possibile che un messaggio così negativo fosse stato ritenuto adatto per una manifestazione che mira, citiamo, “a diffondere tanta energia”. E invece no, la scena finale del “Pianeta delle Scimmie”, regia di Franklin Schnaffer, anno 1968, l’abbiamo identificata in tre, forse. Venditori e influencer tutti contenti dell’installazione “Make believe” di Erl-Eli Russell Linnetz, che dice di fare teatro e scenografia e forse è meglio non approfondire sulle ragioni di una scelta tanto catastrofista e catastrofica anche da parte sua, che vanta un grande seguito e il direttore creativo di Dior Homme Kim Jones che lo vezzeggia. Visto che i numeri di frequentazione di Pitti Uomo sono ottimi, con una crescita del 24 per cento di compratori stranieri, centoundici eventi “fuori Fortezza”, un totale di 11.900 compratori, è ovvio che abbiano ragione loro a vivere soddisfatti e dimentichi, come peraltro racconta il film.
D come dignità. Sostantivo purtroppo desueto, che abbiamo però identificato con gioia nel testo che ha accompagnato la sfilata di Giorgio Armani. Per favore, ricominciamo a lavorare sull’universo semantico della dignità
F come fabbrica e filiera. La fabbrica si porta molto, ultimamente, nel lusso, ed è giusto che sia così, casomai qualcuno volesse dar credito alle voci secondo le quali i brand appongono solo il marchio su oggetti fatti altrove e chissà dove e allora meglio il falso (non siamo noi che lo diciamo, lo dice una ricerca della UE sulla proprietà intellettuale condotta fra i giovani che sembra riportarci indietro di trent’anni, parecchi hanno ragione però). Da quando le multinazionali del lusso hanno smesso di contendersi i marchi per puntare sul concreto, cioè sulle fabbriche dei piccoli e medi specialisti della maglieria, della pelletteria, dei filati, che acquistano al ritmo di una a settimana, la fabbrica è diventata l’epitome dello chic. Lo scorso anno fu Zegna in Piemonte, nella Trivero fondativa, quest’anno Prada con una giornata di lavoro per specialisti e pochi giorni fa Fendi a Capannuccia di Bagno a Ripoli, l’ex Fornace Brunelleschi rimasta abbandonata e preda dei rave per trent’anni e poi risorta come modello di sito produttivo sostenibile e con (ampia) area verde aperta a tutti. Molto emozionati gli artigiani, assediati dagli ospiti interessati al procedimento di taglio della pelle (per la quale ci vuole un occhio pazzesco), modellatura e cucitura. Per essere in grado di realizzare una borsa dal primo all’ultimo passaggio sono necessari quattro anni di apprendistato. Dice Silvia Venturini Fendi, ma lo dice anche il presidente di Pitti Antonio Dematteis, patron di Kiton, e Brunello Cucinelli, che non è vero che i giovani interessati non si trovino e che per trovarli basta poterli inserire in un luogo di lavoro piacevole e pagarli bene. Non è poco, e comunque non era così fino a pochi anni fa
F come fiore. Ricamati, stampati, in rilievo. Valentino, Prada, MSGM. Emblema della gentilezza? Anche.
E come Etro. Vorremmo ritrovare l’ironia e la sensualità originarie di Marco De Vincenzo. Questa moda che non è il boho-chic della famiglia e nemmeno la cifra del nostro messinese preferito ci sconcerta. Sospendiamo il giudizio fino al prossimo giro.
G come gonna. Da anni scriviamo che quella della gonna maschile è una questione di prospettive e di sguardi storici o sociologici. Vi dedicammo un papello lungo così in piena pandemia, evidentemente invano visto che ogni qualvolta qualcuno, come Valentino, porta una gonna in passerella si accende il dibattito, o forse si vuole che questo accada, chissà. La moda che al mondo globale dice di guardare continua però a non rendersi conto che quello della gonna è un tema puramente occidentale, che interessa solo a noi, e che solo noi lo carichiamo di valenze sociali e di genere così spiccate. Poi, non ci sono dubbi che l’occidente abbia esportato il proprio modello ovunque negli ultimi duecentocinquant’anni e che dunque abbia tutti i diritti di riflettere su questi modelli, però crediamo sia arrivato il momento di passare oltre. Io – scendo sul personale - so solo che l’unica volta che abbia provato l’impulso irrefrenabile di seguire un uomo mi trovavo a Central Park, e questo indossava con grazia infinita un hakama giapponese sotto una giacca occidentale (per la cronaca. Le cinque pieghe frontali della gonna rappresentano la lealtà, la pietà filiale, l’armonia, l’affetto e la fiducia – vedere alla voce “dignità”).
L come lino (preferibilmente bianco). In ordine alfabetico, Armani, Cucinelli, Valentino. Armani non è un grandissimo fan del lino che “tiene caldo e si gualcisce” ma, dovendo riconoscerne l’eleganza, l’ha fatto impalpabile
L come Luisaviaroma. Non si è letto molto della sfilata-kolossal perché la curatela era dell’(ormai ex) direttore di British Vogue, Edward Enninful, e sapete come vanno queste cose anche se non dovrebbero andare così. Il fair play impone invece di scriverne e complimentarsi. A quattro anni dalla prima grande sfilata collettiva della piattaforma internazionale a piazzale Michelangelo per migliaia di ospiti, che fu un vero disastro di regia, scelte, cura, organizzazione, questa nuova edizione è invece stata un successo, almeno dal punto di vista curatoriale. Belli i capi esclusivi realizzati da alcuni dei più importanti brand mondiali che verranno proposti da Luisaviaroma.com a cadenze regolari fino a ottobre (solo in ordini alle maison sono stati investiti 10 milioni di euro), ottimo il casting, non troppo sfacciato il coté commerciale della cosa. Ancora pessima l’organizzazione (quando si spostano migliaia di persone ma si vuole mantenere allure e al contempo mantenere l’ordine si chiama gente come Marco Balich), ma pare anche che il fondo Style Capital che sovrintende alle attività di Andrea Panconesi abbia messo lo stop. Questa sfilata è stata l’ultima.
M come morbido. Che significa rilassato, non molle (neanche in termini materici, da giorni Giovanni Bonotto mena gran vanto sui social dei tessuti esclusivi che fornisce a Fendi e Valentino, e ne ha ben donde). Siamo ancora in dubbio sulla nozione se applicata alla moda di Magliano
P come premi. Si', servono e servono eccome. In caso contrario, siamo pronti a scommettere che pochissimi, e non una folla come invece è stato, si sarebbe accalcata nella zona HSL (hic sunt leones) di Milano per la presentazione di Satoshi Kuwata, direttore creativo del brand Setchu, che negli ultimi mesi ha vinto tutte le competizioni possibili, da Who’s on Next-Altaroma (a proposito, è divertente seguire lo scaricabarile mediatico fra le tre istituzioni che governavano la piattaforma – Comune di Roma, Regione Lazio e Camera di Commercio - dopo che l’articolo del Foglio di giovedì scorso, 15 giugno, ha scritto quello che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di verificare, e cioè che Altaroma chiude e della fondazione che avrebbe dovuto sostituirla mesi fa non c’è ancora traccia) al grant del Fashion Trust al LVMH Prize. Poi, intendiamoci, Satoshi merita ciascuno di quei premi e le straordinarie maglie componibili che realizza sono lì a dimostrarlo, ma sapete come funziona: se vedi Bernard Arnault accanto a uno stilista sconosciuto, improvvisamente diventa imperativo che anche tu lo conosca.
P come priorità. Ascoltata da due giovani tizi molto modaioli in attesa della sfilata di Magliano: “Bella la presentazione di Kiton, c’era lo champagne migliore della settimana”. Poi uno si domanda come mai tanti segnalino il catering di Da Vittorio nell’invito (e comunque la presentazione di Kiton era bella davvero).
S come suole. Alla fine ha ragione Cuoio di Toscana: la suola colorata, istoriata, stampata, piace anche a prescindere da tutte le qualità salubri dei tannini con cui sono conciate. E’ una superficie in più dove raccontare qualcosa, dopotutto, e per farlo il consorzio ha adottato uno spazio importante e stabile all’interno di Palazzo Strozzi. Doucal’s, che festeggia i cinquant’anni, ha sviluppato un motivo molto distintivo all’interno delle sue calzature
W come workwear o abbigliamento da lavoro. Salopette, grembiuli di pelle (Fendi), gilet da reporter (Prada). Dal Sessantotto a oggi, a intervalli quasi regolari, l’abbigliamento da lavoro diventa fonte di ispirazione per la moda che vende a tre e quattro zeri. Poi va tutto bene, ma ogni volta ci pare di sentire il pernacchio del vitellone Alberto Sordi (lavoratori???? prrrr) o la deliziosa voce “sinistri”, cioè “i ricchi e borghesi che vorrebbero essere nati poveri per sembrare intelligenti”, inserita nel libro “Chiara e forte” di quel genio finalmente compreso di Chiara Francini.
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