Il foglio della moda
Con la moda c'è più gusto: il nuovo rapporto glam-gnam
I nuovi investimenti di Marco Bizzarri a Gabicce Monte, “Da Vittorio” che prende le sale dell’ex Paper Moon per il nuovo ristorante, la guerra delle brioche. Il combinato disposto dell’ansia di gratificazione perenne e l’inflazione in aumento spostano l’asse del consumo sempre più verso il cibo di lusso e gli eventi goderecci
In quello speciale spicchio del Quadrilatero, in pratica un trapezio scaleno, che va dai numeri bassi di via Bagutta e via Montenapoleone per chiudersi sulla base di via sant’Andrea, e cioè sull’angolo occupato ormai da molti anni di Cova, patrimonio del gruppo Lvmh dal 2013, nelle ultime settimane si è tornati a parlare di acquisizioni e nuove aperture da parte di quella branca della cucina d’eccellenza che, per contiguità con la moda, va progressivamente assimilandosi alla sua sfera di influenza e alla sua semantica. Il nome di cui si parla è quello di “Da Vittorio” che, dopo aver inaugurato lo scorso settembre in corso Matteotti il primo “punto” milanese, DaV, – brioche e cornetti freschi ogni mattina in arrivo dalla cucina centrale che vanno scippando quote di mercato ai nomi storici che gravitano sulla zona e in particolare a Marchesi - starebbe concludendo l’accordo per occupare con la propria cucina e la macchina da guerra della sua organizzazione gli spazi di via Bagutta 1 dove, per oltre quarant’anni, i milanesi hanno frequentato Paper Moon: la famiglia di Pio Galligani ed Enrica Del Rosso aprì nel 1977 in quella via elegante e defilata, una discreta scommessa sugli anni della Milano da bere che ancora non esisteva ma che li avrebbe premiati come è accaduto, forse, solo allo storico Santa Lucia di via san Pietro all’Orto che, essendo però legato all’ambiente dei teatri poco distanti dunque all’apertura fino a tardissima sera e poi a un certo gusto nostalgico molto milanese, resiste con buon successo fra le coppie giovani. C’è chi, come me, potrebbe tracciare tutto il percorso della propria carriera, dalle prime pizze di liceale già impegnata con la tv e la pubblicità fino al fatidico 2020, dalle frequentazioni del Paper Moon che, per una strana combinazione simbolico-lessicale, avevo ribattezzato “papero di carta”. Dal “papero” era impossibile uscire senza una notizia o una traccia, fosse pure un piccolo gossip. Le fortune degli avventori si intuivano anche dalla posizione che veniva loro riservata dalla signora Enrica: se si veniva collocati in un tavolino a destra dell’ingresso andava tutto bene, a sinistra vicino alla porta si era nel limbo. I turisti, quando trovavano posto, finivano inevitabilmente relegati al piano superiore, sul soppalco, assurdamente convinti di aver conquistato una posizione di privilegio: negli spazi angusti fra un tavolo e l’altro al piano terra si formavano invece utilissimi capannelli che i camerieri si sarebbero ben guardati dal disturbare nonostante intralciassero il servizio; negli ultimi anni gli habitué erano passati alla comanda della tagliata di carciofi col parmigiano dopo aver ordinato per decenni distese di tagliata di manzo con la rucola, piatto iconico degli anni che tutta la generazione dei trenta-quarantenni di oggi racconta con dovizia di particolari apocrifi non avendola mai vissuta, tanto meno da quei tre-quattro posti che hanno fatto la storia come, appunto, il “papero”. Che la famiglia Cerea lo trasformi nel suo primo vero ristorante milanese (l’accordo dovrebbe essere concluso a giorni, se non lo è già stato, ma nessuno della vasta famiglia bergamasca intende rivelare le proprie intenzioni su questo punto) rientra in quella particolare sottospecie del marketing che va sotto la definizione di “esperienza” o “experience” in inglese, come dicono i neofiti credendo di elevare il concetto. Corso Matteotti è viale di passaggio, via Bagutta è invece stretta e silenziosa, fiancheggiata da palazzi neoclassici abitati da famiglie in misura maggiore rispetto agli showroom che pure non mancano; ultimamente soffre di un piccolo problema di viabilità causato dal cambiamento di direzione del traffico, si dice creato per favorire le procedure di carico-scarico quotidiano, parecchio invasivo, del megastore Louis Vuitton alloggiato negli spazi dell’ex garage Traversi che chiude la via verso piazza san Babila; i residenti inferociti hanno scritto al sindaco Giuseppe Sala, al momento senza ottenere spiegazioni o proposte alternative (forse otterrebbero di più rivolgendosi direttamente alla maison, sempre molto attenta su questi aspetti del business, anche perché fra quella via e le limitrofe risiedono direttori di giornali, comunicatori influenti e benestanti di vecchia data che, sebbene appaia evidente quanto l’attività del marchio del gruppo Lvmh si rivolga in primo luogo ai turisti, possono comunque creare un’aura di malcontento diffuso in una città già malmostosa di suo). La nuova qualificazione modaiola della via Bagutta dell’omonimo premio letterario, il più antico d’Italia essendo stato istituito nel 1926, passerà dunque e anche attraverso la somministrazione dei “paccheri alla Vittorio” che nell’immaginario popolare mondiale hanno superato di gran lunga le “fettuccine Alfredo”, data ufficiale di creazione 1908, in realtà presenti già nel libro di cucina del “maestro Martino da Como” del XV secolo come la nota sul “triplo burro” suggerisce, e che ormai alcuni brand, vedi Brunello Cucinelli, inseriscono in calce all’invito alla conferenza stampa o alla presentazione, come promessa di bonus per chi interverrà. Che la moda si sia messa finalmente a tavola, attovagliata come direbbe Dagospia, non è certo una novità: non lo era nemmeno negli anni in cui Honoré De Balzac constatava come a Parigi la tavola fosse “emula della cortigianeria”, apparentandola a un’espressione dell’“arte di vivere” (…) compagna naturale dei teatri, dell’opera, del “mondo dell’amore”, della stampa, della politica e della letteratura. L’elenco degli incroci e delle derivazioni è sterminato, e spesso di “seconda generazione modaiola”, come se occuparsi di cibo fosse il naturale sbocco per chi ha genitori che si dannano ogni giorno con i problemi della sostenibilità tessile: i figli di Remo Ruffini sono soci della catena Langosteria, mentre Giacomo Badioli, uno dei due figli di Alberta Ferretti, è proprietario di alcuni fra i ristoranti più famosi della riviera romagnola come “A pesci in faccia” e “Gente di mare”, insegne che lo qualificano come un mago della semantica popolare, oltre che della canocchia. ll ceo di Gucci Marco Bizzarri, prossimo all’abbandono, già da anni si è creato la buonuscita dalla moda investendo a Gabicce, Mare e Monte, in parte in supporto alle attività di alta ristorazione del figlio Stefano, in parte aumentando il proprio patrimonio immobiliare (ultimo investimento, dopo i Bagni 47, una parte della palazzina che ospita la sede del Parco di san Bartolo e che fino a qualche anno fa era sede delle Acli, comprata dalla Curia di Pesaro, campo da bocce incluso). Non c’è ormai una sola griffe che non investa e diversifichi nella produzione di vini e di oli di altissima qualità, ma anche nella ristorazione e nella pasticceria. I risultati sono in genere ottimi, soprattutto adesso che l’aumento dei prezzi in tutto il mondo occidentale e l’idea malriposta che mangiando non si inquini il pianeta come comprandosi la collezione Barbie da Zara sposta sulla soddisfazione del gusto, più che sull’acquisto di moda, quell’ansia di gratificazione permanente di cui soffrono le quattro generazioni abili al consumo, dai boomer ai millennial. Per un bel pranzo o una colazione di qualità siamo perfino disposti a spendere molto, se un filo troppo meglio. Nel mondo occidentale che ha inventato le “casaforti” per ospitare tutti i mobili e i vestiti che non starebbero più in casa si mangia infatti senza posa grazie a una liberalizzazione del commercio che ha affollato i centri cittadini di spacci di alimentari e spritz in un tripudio di soddisfazione gastronomica e spazzatura, dunque non fate troppo caso ai risultati dell’ultima semestrale di Lvmh, dove in effetti l’unica voce in controtendenza in un bilancio stellare a 42,2 miliardi di euro di vendite, trainate da moda e pelletteria, è stata quella relativa agli alcolici, in decremento del 4 per cento soprattutto a causa dell’inflazione e delle turbolenze economiche degli Stati Uniti e di una forte concorrenza nel cognac in Asia (sapevate, vero, che gli asiatici amano pasteggiare a cognac, nemmeno troppo annacquato? Voci non confermate dicono che in Cina vadano affermandosi con sempre maggior forza marche locali). Se il ristorante la Baronessa, su Corso Umberto I a Taormina, si appresta a riaprire sotto forma di nuovo megastore Vuitton, complice la progressiva dismissione delle attività della famiglia Parisi che ha venduto le sue quattro boutique sulla strada dello shopping cittadino a Mario Dall’Oglio, è anche vero che nel 2021 il brand-pilota del gruppo di Bernard Arnault, guidato dall’inizio di quest’anno da Pietro Beccari (artefice del favoloso riallestimento della boutique di Dior in avenue Montaigne in una sorta di viaggio nel cuore della griffe che coinvolge anche il museo), aveva aperto il suo primo ristorante a Osaka, segno che, forse, anche la strepitosa terrazza del palazzo nobiliare siciliano potrebbe tornare ad ospitare cene con vista sul golfo. Che il rapporto glam-gnam stesse cambiando si capì quando, insieme con l’invito per la sfilata primavera-estate 2022, Prada inviò a casa una pagnotta sfornata da una delle (oggettivamente pochissime) buone panetterie di Milano. A me venne consegnato un fragrante pane di Altamura di Longoni in un sacchetto stampato con il motivo di stagione, e la scritta “Feels like Prada”. La trita espressione sul mangiare pane e moda iniziava ad acquisire senso reale e a perdere il valore di antitesi che aveva avuto per decenni. Oggi, la declinazione e la derivazione nel gusto e nell’ospitalità pare ormai necessario campo di speculazione per qualunque brand, se è vero che Jacquemus, lungo lo stesso filone dell’estetica di Marcel Duchamp, ha guardato più volte al mondo gastronomico per rielaborare utensili da cucina e ricette, e che anche Stella McCartney ha fatto seguire alla presentazione della sua collezione a Le Bon Marché un workshop sulla cucina vegana in cui è stata allevata. Molti funghi, ovviamente, sulla falsariga della pelletteria a base di miceli (tenuta però insieme da robuste iniezioni di materiali sintetici) a cui affida parte della propria fama. Va detto che la tendenza funziona al contrario, cioè che è diventato difficilissimo trovare in una città anche di medie dimensioni le osterie trasandatissime di un tempo. Oggi la trasandatezza, trasferita nel campo semantico dello shabby chic che a noi che studiavamo letteratura inglese veniva insegnato come lo “shabby genteel” delle famiglie impoverite dei romanzi di Dickens e di Thackeray, costrette a lasciare i palazzetti georgiani di Mayfair e Belgravia, bianchi e asciutti, per trasferirsi nell’umido dei cottage di Chelsea o peggio ancora di Fulham, tanto che decenni dopo, quando mi proposero una casetta in Flood Street, o “strada dell’esondazione”, avevo già pronti ottimi argomenti per rifiutare, si persegue con l’aiuto dell’arredatore, sebbene qualcuno potrebbe lamentare una certa perdita di “autenticità”, qualunque cosa voglia dire, delle infinite “stuzzicherie” e baretti che costellano la nostra penisola come la Costa Brava o la Cote d’Azur e che ormai propongono tutti immancabilmente gli stessi “piattini” carichi di sale e grassi, spesso accomodati su un orrido tagliere di legno che trattiene inevitabilmente i germi, e lo stesso arredo finto o anche vero-scompagnato. Fra chi persegue l’autenticità per forza va segnalato il caso della storica Pasticceria Marchesi dagli incarti verde pistacchio che hanno allietato l’infanzia dei milanesi, revenge shopping di Patrizio Bertelli del 2014, dopo che per un soffio era sfumata l’acquisizione di Cova. La guerra del pasticcino fra mega brand è proseguita fino a oggi che Prada è diventato anche il proprietario della pasticceria Principe di Forte dei Marmi di piazza del Fortino, appena riaperto dopo scintillante restauro, e ad Arezzo del Caffè dei Costanti, celebre per aver fatto da sfondo a molte scene de “La vita è bella” di Roberto Benigni, fra molte benedizioni dei cittadini che rischiavano di perdere un luogo storico del passeggio in un tristo scaricabarile bancario. Si dice però che i milanesi del Quadrilatero, pure fra i primi ad accogliere con interesse l’apertura di Marchesi in via Montenapoleone che li sollevava dalla passeggiata medio-lunga fino ai cristalli originari di via Santa Maria alla Porta, cuore del quartiere Magenta-Meravigli, si stiano progressivamente disaffezionando alla novità. Circolano voci, tutte smentite, sulla quantità e la qualità del burro usato nelle brioche, al nord si finisce sempre lì, e sull’eccesso di estetica, questa oggettivamente innegabile, a scapito del sapore di paste e crostatine. Da Marchesi ribattono con numeri di successo e la dichiarazione che no, non c’è differenza alcuna fra quanto si offre nella pasticceria delle origini e nelle altre. Ma la voce che ipotizza il trasferimento di Marchesi in una sala al primo piano di un palazzo del Quadrilatero, sul modello di quanto già fatto in Galleria, non smette di circolare, avvalorata anche dal classico conto della serva, che alle sciure milanesi piace moltissimo fare: va bene che stare in Montenapo fa prestigio, ma se non si hanno sale in numero cospicuo e ristorante come Cova per ammortizzare, quanti cappuccini bisogna somministrare al giorno per andare almeno in pari?
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