Il foglio della moda
In gloria dello stereotipo, che non è solo italiano (think McDonald's)
Il rapporto tra moda e cibo è duraturo, e sfata il diktat di tempi immuni alla body diversity del mangiare come un’azione irresponsabile, nemica della linea e dei capi nei quali entrare. Il mangiare bene è un’autogratificazione simile a quella di un bell’abito. Da Karl Lagerfel e Fendi a Dolce & Gabbana
Lo scorso ottobre, all’uscita della nuova stagione della serie “The White Lotus” ambientata in Sicilia in un tripudio di mare, vigneti, abiti a colori vivaci, agrumi e street food catanese, oltre a rallegrarsi per l’interpretazione di Sabrina Impacciatore molti spettatori italiani si sono irritati per la “reductio a luogo comune” della produzione USA. Le prenotazioni dei turisti da oltreoceano invece si sono moltiplicate.
I turisti evidentemente amano gli stereotipi e il buon cibo dell’Italia (dunque no, non scriveremo “Belpaese”), tanto da apprezzarlo pure sotto forma di stampe e accessori moda. Dagli anni Novanta, la dieta mediterranea è un fenomeno di massa e di promozione dello stile di vita italiano: al bando gli inutili cocktail di scampi del decennio precedente in favore dei più salutari cereali e vegetali, e, anche se per il professore di Storia dell’Alimentazione Alberto Grandi i nostri nonni non praticavano un regime così preciso ma si adattavano a ciò che era disponibile, nel mondo si è imposta la convinzione che il cibo italiano sia sinonimo di tradizione e qualità: vero, ma la “gabbia” è a un passo.
Con il successo della formula vitamine-carboidrati si diffonde Il binomio cucina e moda Made in Italy, e ciò che ci distingue, si sa, è la pasta (non il grano, spesso importato). La prima celebrazione è di Karl Lagerfeld, con l’ormai storica Pasta collection di Fendi (1992), penne e fusilli colorati o dorati per bijoux, stampe, tracolle e minaudière metalliche.
Intanto Silvia Venturini Fendi, con un’intuizione fortunata, battezza “baguette” la borsa che si porta a spalla, come il filone di pane francese. Un omaggio al cibo che unisce i popoli mediterranei.
Ma sono soprattutto Dolce & Gabbana a proporre ripetutamente il cibo nelle vetrine-bottega di ortofrutta, in pubblicità (“indimenticabile” il calamaro nello spot di Tornatore del ’94) e naturalmente nelle stampe: dalle prime (timide) ciliegie su fondo azzurro pallido del 1996 all’esplosione dagli anni Dieci del nuovo millennio in poi di pomodori, cipolle di Tropea, melanzane, peperoncini macro su abiti corti e fascianti, ai quali seguiranno penne e spaghetti legati da un nastro rosso su un “sobrio” fondo nero e, a questo punto immancabile, la pizza.
Facile parlare di stereotipi, che Dolce & Gabbana peraltro rivendicano come omaggio alla Sicilia: questa “italianità da esportazione”, pur banale, è estremamente riconoscibile e perciò vendibile, e, pur fra sorrisi di sufficienza degli autoctoni, in effetti funziona. La tipizzazione non è una esclusiva italiana: quando nel 2014 Jeremy Scott disegna la M di Moschino citando McDonald’s, l’intento è quello di catturare - in modo un po’ scolastico- l’ironia del fondatore giocando con i simboli del consumismo (con il Campbell Soup dress di Warhol preso a modello) e con lo stereotipo del fast food statunitense: Scott è vegetariano ma la sua “appropriazione critica” viene schiacciata da un logo troppo ingombrante.
Il rapporto tra moda e cibo è duraturo, e sfata il diktat di tempi immuni alla body diversity del mangiare come un’azione irresponsabile, nemica della linea e dei capi nei quali entrare. Il cibo è un’autogratificazione simile a quella di un bell’abito, e i colori vivaci della frutta seducono, come le ciliegie (mele, pere) di Benetton ideate da Andrea Incontri, o, in chiave più sofisticata l’amarena (bordeaux scuro, drama queen delle Rosacee) della A/I 2023 di Jil Sander e Rokh.
Dilemma dunque: accettare la reiterazione degli stereotipi e sfruttare il filone con tessuti a tema Tiramisù (magari “scomposto”, in stile Masterchef) o rigettare l’eredità culinaria in nome del “c’è ben altro”? Ovvio che ci sia, e tanto, per fortuna. In più avere un piano B rispetto a un’ispirazione a rischio saturazione è salutare, per la creatività e per la bilancia commerciale.
Ma cibo e moda hanno molto in comune, dalla qualità delle materie prime alla cura necessaria alla preparazione/creazione di un piatto – anche dal punto di vista estetico - o di un abito, e in questo “fare bene” sta il filo che unisce due mondi destinati a incontrarsi.
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