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L'irresistibile ascesa delle Birkenstock

Fabiana Giacomotti

Il mondo è sceso dai tacchi. Dopo “Barbie” le ciabatte tedesche vendono il doppio e da simbolo di sciatteria sono diventate una presenza fissa sul red carpet 

Il mondo reale indossa le Birkenstock, ormai lo sanno anche i pochissimi che non hanno visto “Barbie” al cinema ma hanno incrociato sui social almeno il trailer, perché la scena del confronto fra i tacchi alti e le ciabatte con la suola di sughero, cardine della campagna di lancio, spiega anche tutto il film. Quei trenta secondi sono infatti sufficienti per cogliere il senso della pellicola e in senso lato anche del mondo di oggi: “Puoi tornare alla tua vita normale”, dice Barbie Stramba mostrando una décolleté rosa a Barbie Stereotipo, che un brutto giorno si è svegliata con l’alito pesante, una fioritura di cellulite sulla coscia sinistra e i piedi piatti e vuole capire perché, “oppure conoscere la verità sull’universo”. Nel mondo di Barbie, l’universo è plasticamente rappresentato da una di quelle ciabatte tedesche che fino a quindici anni fa si concedevano solo alle top model perché, poverine, avevano sfilato per trenta brand consecutivi. Grazie al film, oggi quelle stesse ciabatte sono prossime alla quotazione al Nyse con una valutazione pari a dieci miliardi di dollari, quasi il doppio rispetto a un mese fa, le vendite sono aumentate del centodieci per cento. 

L’altra sera, a cena, avevo quattro signore. Tre di loro indossavano Birkenstock sotto il caftano da sera: in pelle dorata o con le fibbie di cristalli, cioè nella nuova, costosa versione per le incerte, ma comunque, di base, zatterone. Tre anni fa, le stesse signore avrebbero avuto delle infradito, lo scorso anno delle friulane, dieci anni fa delle Havaianas, quindici anni fa un po’ di tacco anche al mare. C’è chi, di suo, resisterebbe alla dominazione progressiva e irresistibile della zatterona di sughero sgraziata, proprio come Barbie Stereotipo che nel film, messa di fronte alla scelta, non esita a favore dell’opzione tacco (la sua “vita normale” è un tacco otto e dopotutto, non è convenzionale per caso). Barbie Stramba le piazza però nuovamente le ciabatte sotto il naso, irremovibile: “Devi volerla conoscere, ok?”. E così la Barbie biondissima e di gusti veterotestamentari, cioè piccolo borghesi, va a sporcarsi i piedi sulla spiaggia di Malibu, dove dovrà difendersi dagli ultimi fuochi del patriarcato, anche questi plasticamente rappresentati da una poderosa pacca sul culo che le viene assestata mentre sfreccia sui rollerblade, e finirà per coronare la propria parabola come Pinocchio, cioè incarnandosi in una donna vera con tutte le sue miserie, compreso il piede spantegato nelle Birkenstock (voce del verbo spantegare, ovvero “sparpagliare con dolo e malizia” in dialetto milanese, verbo di squisita onomatopea). Insomma, per dare una lettura semplice di un fenomeno complesso fin dai tempi di Jonathan Swift, il mondo è sceso dai tacchi. Non calza però una ciabatta qualunque, magari e appunto le sciocche infradito di gomma, cedevoli e pieghevoli dunque pericolose per la tenuta della caviglia, bensì quasi esclusivamente quegli zatteroni con la doppia fibbia che un tempo calzavano solo i tedeschi o, in seconda battuta, i viaggiatori alternativi ma lettori di libri, insomma i “routard” dell’omonima guida, con Kerouac nello zaino. La ciabatta è sempre egualitaria, come ci ricordavano dieci anni fa i produttori di Havaianas mostrando le spiagge del Brasile con lo sfondo di quartieri dove non ci saremmo avventurati mai. 

La Birkenstock e succedanei apocrifi, perché ormai si sono messi a produrle tutti, nei secoli in cui le ignoravamo hanno però acquisito significati tali da renderle non solo perfettamente accettabili nella società dei ricchi che si vuole democratica e che dunque prende treni per Foggia lamentandosene poi sui giornali di famiglia in prosa elementare, ma addirittura qualificanti come furono negli anni Settanta le Clark’s, scarpe brutte sì ma fatte per calzare piedi così intelligenti da non curarsi del proprio aspetto. Dunque, se le infradito di gomma con i brillantini sono rimaste espressione di cafonaggine, le ciabattone tedesche tempestate di borchiette o in pelle dorata sono diventate invece accessorio perfettamente adeguato all’intellettuale di gusto che, se di sesso femminile e genere cis, mai vorrebbe essere incomodata dal tacco, retaggio patriarcale. All’improvviso, pare che tutti abbiano scoperto quanto siano ergonomici grazie ai bordi di sughero rialzato, e quanto “tengano bene” il piede anche se si stanno percorrendo in discesa sentieri di montagna. Gli intenditori dicono che funzionino a tal punto che non ci sia nemmeno il bisogno di accostarsi al modello con la cinghietta sul tallone, un filo respingente per chi sia cresciuto con il mito certo stereotipato ma anche sexy e potente del rialzo, e che per affrontare l’ascesa alla Capanna Margherita basti la ciabatta modello “Arizona” e un bel calzino che – le mode vanno analizzate per bene – è stato a sua volta reso attraente negli ultimi tempi dal suggello delle passerelle maschili. Rivisti dopo anni di educazione a quella speciale forma di bruttezza stravagante che in inglese si dice weird e che è appunto la definizione originaria di “Barbie stramba”, gli episodi di Fantozzi in spiaggia non fanno assolutamente più ridere e, non fosse per i mutandoni ascellari, il ragioniere di ogni sfiga ormai sarebbe del tutto indistinguibile dai modelli delle ultime sfilate uomo e dall’aspetto del redattore di moda medio, con la canottiera a costine, i bragoni corti e scampanati, i calzini bianchi e i sandaloni a fasce di cuoio o di plastica, meglio se con doppia suola di gomma (in gergo e dall’inglese, “chunky”) che riproporziona anche le gambe meno slanciate e che sono come ovvio la maggioranza. 

Come sia accaduto che il ciabattone simbolo della sciatteria, l’accessorio identitario del turista teutonico che posteggiava il camper sulle coste dal lago di Garda per tutto il mese di agosto, sia diventato lo stemma vestimentario del momento, rielaborato da ogni specie di sottomarca, ricercatissimo per le “collab” anche dai marchi di alta moda, incluso Manolo Blahnik che un paio di stagioni fa ne ha studiato perfino un modello da sera in velluto e cristalli, incredibilmente credibilissimo, attiene a uno di quei miracoli che fino a oggi riuscivano solo a Miuccia Prada, infaticabile sperimentatrice dell’ugly chic, il brutto seducente: tuttora noi milanesi indossiamo décolleté a tacco alto col calzino corto sotto la gonna a pieghe sentendoci inarrivabili quando è ovvio che, a meno di non possedere lo stacco di coscia di Daria Werbowy, quel triplice effetto visivo di “taglio” sulla gamba si trasformi in una sfida alle regole della simmetria dagli esiti catastrofici. Il calzino con la gonna sta malissimo, ma ci fosse verso di farci smettere: lo definiamo uno spariglio anzi una sprezzatura, fino a oggi appannaggio del genere maschile, orgogliose quindi del nostro gesto revanscista. L’acquisto della ciabattona teutonica, talvolta addirittura di peluche o, in inverno, in montone (le coraggiose le indossano a piedi nudi, mostrando ovviamente una pedicure perfetta) è stato il passaggio successivo, l’equivalente umano della discesa dal tacco di Barbie Stereotipo, e si è trattato di una vera rivoluzione. La prima fu ovviamente Kate Moss, la donna che ha insegnato a tutte che si può essere incomparabilmente fighe anche con i capelli sporchi e indossando una sottoveste in mezzo al fango del Coachella. Alla sua foto in Birkenstock seguì l’immediata adozione da parte della moda consacrata, e fu un disastro. All’inizio degli anni Novanta, Marc Jacobs le infilò per esempio ai piedi delle modelle che sfilavano per la collezione estiva di Perry Ellis e venne licenziato. I tempi non erano ancora maturi: non si era più negli anni Cinquanta in cui Cristóbal Balenciaga poteva strappare all’ultimo minuto “la manga” di un abito che non gli sembrava tagliata alla perfezione e le nostre madri uscivano anche in estate in città con le calze perché le gambe nude erano riservate alla spiaggia, per non dire dei piedi di cui fino a sera, ultimo retaggio della cultura vittoriana, non si doveva assolutamente mostrare l’attaccatura delle dita. Però era chiaro che nemmeno chi produceva magliette sportive sulla East Coast fosse contento di essere apparentato alle ciabattone tedesche, a prescindere dai loro duecentocinquant’anni di storia che, in realtà, nessuno conosceva fino allo scorso decennio, cioè da quando il marketing del cosiddetto “heritage” ha reso le vicende di qualunque azienda mondiale degne di interesse e, nel caso delle Birkenstock, il fondo L Catterton, uno dei satelliti del gruppo Lvmh e cioè Bernard Arnault, ha deciso di prenderne il controllo. Se oggi sappiamo che nel 1774, in una cittadina vicino a Francoforte, è esistito un calzolaio di nome Johann Adam Birkenstock e che un suo discendente diretto, tale Konrad, un secolo dopo si sia inventato il plantare sagomato (“fussbett”, in tedesco), è perché da anni un’intensa attività di comunicazione e promozione ha lavorato per trasformare una scarpa da negozio di ortopedia nell’epitome della comodità elegante, cioè della radicalizzazione chic, disimpegnando a poco a poco le donne dall’obbligo dei tacchi nelle occasioni sociali importanti. 

La svolta arrivò due anni fa, quando Frances McDormand si presentò agli Oscar con un paio di Birkenstock gialle firmate da Valentino: i social esplosero, i media tradizionali ne scrissero per settimane, rispolverando le foto di Gwyneth Paltrow con lo stesso modello chiuso, genere Crocs, che adesso indossano i protagonisti del serial “Bear”. Si discusse a lungo sul se e sul quanto fosse opportuno non tanto infilarsi una ciabatta sotto l’abito da sera, Visconti aveva capito che le donne non vedono l’ora di togliersi le scarpe da quando le fece lanciare in scena alla Callas al “libera degg’io” scaligero del 1955, quanto sulla necessità di farlo indossando il vestito senza un minimo di garbo e con i capelli visibilmente in disordine. Insomma, era un grosso passo avanti, ma non ancora quello definitivo, perché una sciattona in Birkenstock, ancorché firmate, è e resta una sciattona, cioè un modello che poche hanno voglia di imitare. Poi è arrivato il Festival di Cannes 2023, e sulla gradinata del palazzo i fotografi si sono scatenati sulle ciabatte che spuntavano sotto gli orli degli abiti di couture delle star, esibite anche con un certo orgoglio per segnalare (il solito sottotesto che nei vestiti è la vera ragion d’essere) come sì, la loro proprietaria fosse abbastanza famosa perché le concedessero un vestito da cinquantamila euro, ma non così scema da rovinarsi la serata con un sandalo che le avrebbe fatto venire le fiacche al piede; soprattutto, non così asservita al sistema di controllo maschile da credere ancora che chi bella voglia apparire un poco debba soffrire. Ma se l’estetica vestimentaria ha sempre giocato sul binomio bello ma importabile-brutto ma comodo con una certa voluttà, i cigni di Capote si lamentavano dell’impossibilità di indossare un abito di Balenciaga senza un aiuto e rovinandosi comunque l’acconciatura laccatissima, però quando nel 1968 decise di chiudere tutte corsero a vestirsi da Saint Laurent che aveva agganci comodi e si infilava anche dai piedi, il dato interessante di questo fenomeno è che una moda ubiquitaria porti il marchio made in Germany. Non accadeva dalla caduta di Weimar e di quelle bellissime stoffe che produceva e distribuiva in tutta Europa prima di scegliere di sostenerne con i proventi l’ascesa del nazismo.  

P. S. evitate di affrontare l’ascesa fino alla Capanna Margherita con le ciabatte, queste sono chiacchiere estive.

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